da "AURORA" n° 24 (Marzo 1995)

EDITORIALE

Strategie e scelte strategiche

Luigi Costa

Un anno fa, con la vittoria delle Destre, anche l'Italia entrava nel novero delle democrazie «compiute». Il sistema elettorale maggioritario, ci era stato assicurato, limiterà l'invadenza dei partiti, stabilirà confini netti tra maggioranza ed opposizione, ponendo termine a decenni di consociativismo, il quadro politico si stabilizzerà e l'Esecutivo disporrà dell'autorità e dei numeri necessari per attuare le indispensabili riforme: aggredire il debito pubblico, ridurre la disoccupazione, stanare l'evasione fiscale, combattere la criminalità organizzata.
A dodici mesi da quel 27 marzo i risultati sono sotto gli occhi di tutti; il maggioritario ha generato il Parlamento più instabile e rissoso del dopoguerra. L'arroganza delle cosche partitiche ha raggiunto livelli sconosciuti perfino nella famigerata Prima Repubblica. Non è stata risolta, o avviata a soluzione, alcuna delle tante «emergenze» del Paese; si era favoleggiato di un milione di posti di lavoro e abbiamo 575.000 disoccupati in più; il debito pubblico ha continuato la sua inarrestabile ascesa; la Lira ha perso il 25% del suo valore; il tasso di sconto è raddoppiato; la Borsa Valori è crollata di schianto; l'inflazione programmata al 3% ha raggiunto il 5% e il potere d'acquisto di salari e stipendi si è ridotto di conseguenza. Otto milioni di connazionali vivono al di sotto della soglia di povertà.
Una situazione paradossale, se si tiene conto che da oltre un anno la cosiddetta «economia reale» è in fortissima ascesa: la produzione industriale in crescita di oltre il 10% con le importazioni che segnano più 27%, la bilancia commerciale in forte attivo e il prodotto interno lordo che registra numeri da boom economico, tra i più alti dei paesi cosiddetti industrializzati. L'incongruenze di questi dati con la situazione finanziaria è palese e viene spiegata dagli economisti con le dimensioni stratosferiche raggiunte dal nostro debito pubblico e la rissosità del ceto politico che assommati trasmetterebbero ai Mercati finanziari segnali di instabilità che renderebbero rischiosi gli investimenti nel nostro Paese.
Sia chiaro, noi non siamo affatto persuasi che i sedicenti Mercati siano realmente condizionati dal debito pubblico, anche considerato che questo è in larga misura sottoscritto da risparmiatori italiani. Né siamo convinti che i vaneggiamenti di Bossi, le svolte di Fini, le manovrine di D'Alema, i piagnistei di Berlusconi e la rissa tra ex-democristiani possa più di tanto condizionare le scelte dei «Signori delle Valute». D'altro canto l'Italia non è l'unico paese su cui si concentrano le loro malsane attenzioni.
Ci pare più pertinente, per penetrare nelle logiche borsistiche e valutarie, soffermarsi su alcuni aspetti palesemente ignorati nelle analisi degli esperti, prendendo in considerazione l'evoluzione del sistema finanziario che ormai agisce al di fuori di qualsiasi regola e controllo.
Prima di inoltrarci in un così spinoso argomento riteniamo necessario far chiarezza sulle dinamiche fondamentali del processo economico, ignorando le quali si rischia di cadere nella ipotesi complottista concepita da improbabili «cupole», al solo scopo di impadronirsi delle risorse del pianeta, raggiungendo, attraverso il controllo dell'economia il dominio planetario. Con questo, non intendiamo certo affermare che non esistano, all'interno dei Mercati, momenti in cui gli interessi di più soggetti siano convergenti e che più operatori si accordino per investire in una precisa direzione, ma l'evolversi delle situazioni mostra che a queste momentanee alleanze seguono sempre varie fasi di contrapposizione violenta e selvaggia, ben più numerose di quanto la cronaca spicciola ci induca a pensare.
Tornando alle dinamiche economiche riteniamo importante prendere in considerazione le evidenti diversità, quasi mai rilevate, nella nebulosa capitalista e che pure sono alla base stessa del modello occidentale: il capitalismo produttivo e quello finanziario.
Il capitalismo produttivo, pur con tutti i propri limiti e ingiustizie, ha anche non secondarie valenze positive; oltre che produrre profitti che si sommano al capitale originario (il plusvalore marxiano), contribuisce in larga misura a creare ricchezza e benessere collettivo; ridistribuendo parte dei profitti, sotto forma di compensi alle maestranze; producendo beni di consumo sia primari che voluttuari, comunque reali, visibili e palpabili.
Il capitalismo finanziario non produce nessun tipo di ricchezza; il suo profitto (plusvalore) lo realizza spostando titoli e valute da una piazza finanziaria all'altra, determinando con la sua speculazione monetaria costi e ricavi anche su beni reali che in alcun modo contribuisce a produrre. È anche vero che tra i due capitalismi vi sono frequenti connessioni come, per esempio, nel caso delle Multinazionali che affiancano alle strutture produttive società Finanziarie e Banche d'Investimento, ma è anche noto che, da qualche tempo, i «rami» produttivi dei grandi Trust hanno perso la loro centralità strategica divenendo marginali rispetto alla nuova frontiera del capitale; la pirateria finanziaria.
Epperò, ed è opportuno chiarirlo, la speculazione è un fatto più vasto ed enormemente più complesso di quanto venga comunemente recepito. Non si tratta, infatti, di una ristretta cerchia di «eletti» che dall'alto di un immenso potere monetario determinano i crolli e i rialzi di Borse e Valute. Gli «speculatori» sono migliaia, anzi milioni, di grandi, medi e piccoli risparmiatori che per incrementare i loro risparmi investono sul Mercato valutario. Ed è sempre la grande massa di «piccole cifre» che, incanalata in un senso o nell'altro, determina gli sconvolgimenti e le anomalie che non si è in grado di contrastare.
Per semplificare e rendere comprensibile il meccanismo infernale della speculazione borsistica, lo possiamo comparare alle Aste di vendita giudiziarie. Come è noto, all'interno dell'Asta giudiziaria agiscono diversi personaggi con ben definite caratteristiche; dietro le quinte si muovono i giudici fallimentari e i loro aiutanti che dovrebbero vigilare sulla regolarità delle procedure. All'interno della sala vendite vi è sempre un banditore/venditore che indica i prezzi, al rialzo o al ribasso, dei singoli oggetti disponibili; gli aspiranti compratori si dividono in un due distinte categorie: un ristretto gruppo di frequentatori abituali, per i quali l'Asta è un vero e proprio lavoro e il restante pubblico acquirente, più o meno numeroso, a seconda dell'importanza dei beni contrattati. Tra gli appartenenti al ristretto gruppo dei frequentatori abituali si sono nel tempo cementate amicizie e complicità, quindi è scontato che essi, ben prima dell'inizio dell'Asta «concertino» i tetti massimi di «rilancio» per ogni singolo bene contrattato. La grande massa dei compratori non abituali, ignorando del tutto i meccanismi consolidatisi nel tempo, sono costretti in uno stato di sudditanza. Per quanto elementare o ben oliato possa essere, anche questo ingranaggio «impazzisce». Questo avviene qualora uno o più acquirenti non abituali abbiano la sensazione che uno dei beni all'incanto ha un valore nettamente superiore ai rilanci di prezzo che si susseguono. Da quel momento in poi la vendita diventa un'incontrollabile bolgia e le quotazioni che si susseguono non hanno più nessuna attinenza con il valore dell'oggetto conteso (non senza ragioni gli economisti definiscono certi comportamenti «effetto mandria»).
E dell'«effetto mandria» è un esempio lampante la crisi messicana nella quale, è pur vero, che una massa di piccoli e medi investitori ha realizzato immensi profitti sorprendendo, per la prima volta le Banche d'Affari di Wall Street, che hanno subito un magistrale salasso (75 miliardi in dollari di perdite), ma è altrettanto vero che questo momentaneo profitto è stato pagato a caro prezzo dagli investitori stessi (in gran parte classe media messicana) con un repentino crollo dell'economia reale (che si reggeva in buona misura su un'economia finanziaria drogata e su un "Peso" valutato ben al di sopra del suo reale valore) che ha costretto il governo a svalutare la moneta nazionale.
Un «crollo» al quale ha fatto seguito il cosiddetto «effetto di trascinamento», determinato dalle forti perdite della valuta Usa. Né l'intervento del governo statunitense (che voleva a tutti i costi evitare il fallimento del Nafta, l'accordo di integrazione tra le economie Usa, canadese e messicana in funzione antieuropea e antigiapponese), né quello del Fondo Monetario Internazionale, che hanno tentato con tutti i mezzi di scongiurare la crisi «regalando» al governo messicano 27 miliardi di dollari il primo e 22 miliardi il secondo, sono serviti a «raffreddare» i Mercati.
Una crisi quella messicana che ha messo a nudo le difficoltà dell'economia statunitense, gravata da un deficit pubblico spaventoso e spianato la strada all'egemonia del Marco tedesco (e in parte allo Yen giapponese), innescando una crisi valutaria e borsistica gigantesca in tutti i Paesi dell'area economica del Dollaro, di cui (ahinoi!) fa parte anche l'Italia. Siamo certi che nemmeno i più tenaci assertori del «complottismo» scorgeranno in questa folle galoppata del Marco la mano delle «oligarchie sioniste». Sarebbe per lo meno insensato pensare alla Germania come nuovo «santuario» dal quale il mondialismo muove alla conquista dell'Orbe terracqueo.
La verità è molto più banale: l'economia tedesca (con quella giapponese) è la meno permeabile alle influenze esterne e alle speculazioni selvagge dei Mercati valutari. Questo in virtù di particolari caratteristiche proprie del cosiddetto «capitalismo renano» (che comprende l'area Centro-nord europea) che ha saputo saldamente agganciare il rapporto tra la circolazione monetaria e la produzione, grazie soprattutto a particolari meccanismi di ridistribuzione del reddito (con forme di cogestione e partecipazione ai profitti delle imprese tipo la Mitbestimmung) che, impedendo eccessive rendite individuali, evitano l'esorbitante concentrazione di risorse in poche mani, e consentono alla BundesBank, dotata di mezzi e risorse adeguate, di agevolmente e efficacemente contrastare una speculazione che giornalmente riversa sui Mercati valutari l'iperbolica cifra di 2.700.000 miliardi di lire.
D'altra parte la speculazione non si è accanita in modo devastante solo sulla Lira e sulla Borsa italiana, ma ha interessato tutti i paesi europei dell'area del Dollaro come Francia e Inghilterra, e costretto Portogallo e Spagna alla svalutazione della moneta. Da questa analisi si possono trarre alcune conclusioni.
La speculazione è la forma terminale e più devastante del sistema capitalista; non può essere limitata e regolamentata senza mettere in crisi il modello di sviluppo occidentale.
Con l'informatizzazione dei Mercati i tempi risultano enormemente accelerati e gli stessi speculatori sono costretti ad operare sulla base di informazioni parziali e sensazioni epidermiche, determinando spesso, e paradossalmente, la loro stessa rovina. Come le cronache di questi giorni dimostrano.
Il ceto politico e le istituzioni economiche nazionali non possono in alcun modo determinare in un senso o nell'altro i fenomeni valutari ai quali sono del tutto estranee considerazioni politiche, sociali e morali.
L'unico rimedio possibile è nel ridimensionamento dei Mercati ed il loro assoggettamento ad alcune regole di trasparenza che possono essere efficaci solo rimuovendo il diritto all'anonimato degli investitori.
Nessuna di queste soluzioni è comunque risolutiva e rimuove le cause di fondo del fenomeno. L'unico vero rimedio, a nostro parere, capace di stroncare alla radice il problema è impedire il formarsi dell'accumulazione capitalista, impedendo l'abnorme concentrazione della ricchezza.
In conclusione siamo convinti che l'eccessiva finanziarizzazione finirà col portare alla rovina il modello stesso sul quale tutto il sistema occidentale è incardinato: il capitalismo produttivo.
Questo potrebbe alla fine non essere un male per chi, come noi, crede in una economia mista in cui non sia mortificata l'iniziativa dei singoli, ma al tempo stesso non sia consentito ai singoli di calpestare impunemente gli interessi collettivi. La concentrazione di proprietà e di potere, fuori da ogni serio controllo, è pericolosa perché aumenta la crescita del capitale e l'influenza sociale di chi lo possiede.
La base della crescita del capitale è il lavoro. In virtù di queste elementari verità, la Sinistra Nazionale, che auspica la Socializzazione dei mezzi di Produzione, sostiene con forza che è il lavoro che produce il diritto di decisione nella società. 
Ed il lavoro deve anche poter ricevere la sua parte nella crescita del capitale dando ai salariati il potere su parte dei profitti delle aziende.

Luigi Costa

 

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