da "AURORA" n° 31 (Gennaio 1996)

EDITORIALE

Come prima, peggio di prima!

Luigi Costa

Nei primi mesi del '93, in queste stesse pagine scrivevamo: «(...) l'inchiesta Mani Pulite risponde alla necessità di dare una svolta efficientista al Sistema Italia, scaricando su pochi delinquenti responsabilità più vaste e diffuse, così salvando l'essenza, mai messa in discussione, della partitocrazia, perpetuandone le vecchie logiche e persino i vecchi attori. Per noi Tangentopoli va inserita nel quadro dello scontro tra i «poteri forti» del Paese: il dott. Di Pietro e l'intero Pool di Milano sono solo strumenti, più o meno consapevoli, di questa battaglia combattuta senza esclusione di colpi». 
L'aver intravisto, fin dagli esordi, i limiti dell'inchiesta milanese non ci inorgoglisce. La nemesi giudiziaria in virtù della quale, dopo i panni del giustiziere, Antonio Di Pietro, è costretto ad indossare quelli di imputato, suscita nel nostro animo una profonda malinconia. A determinarla non è la nostra risaputa tendenza a schierarci con il più debole, ma la sensazione che, il Magistrato, sia, aldilà della sua goffaggine, dei tanti errori e delle troppe ingenuità, l'agnello sacrificato sull'altare dei nuovi equilibri che si vanno delineando nel Paese. 
Non è senza significato che l'attacco a Di Pietro, fino a quel momento coccolato e vezzeggiato dal Polo di destra, abbia avuto inizio in concomitanza con la «svolta garantista» del Partito Democratico della Sinistra dell'estate '94 e raggiunga il suo culmine in questo gennaio '96 allorquando si profila all'orizzonte l'intesa tra Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi sul sedicente «governo delle regole», ossia il ritorno in grande stile alle pratiche del buon vecchio consociativismo. 
Evidentemente, come in altre occasioni, abbiamo avuto l'opportunità di sottolineare che gli scheletri negli armadi dell'ex-PCI sono tali e tanti, specie nei rapporti economici intercorsi col mondo cooperativistico, da costringere i dirigenti della Quercia ad abbassare il profilo sui temi della giustizia, confidando che l'azione dirompente di Silvio Berlusconi raggiunga il suo scoperto obiettivo: l'amnistia per i reati di Tangentopoli. 
Il PDS, pur non impegnandosi in prima persona e lasciando, con togliattiana doppiezza, l'onere di delegittimare il Pool al Cavaliere di Arcore, ha buone ragioni per augurarsi il ritorno alla «normalità» giudiziaria, ossia a quell'età dell'oro in cui le finanze del Partito non solo non erano gravate dall'insostenibile peso di 400 miliardi di debiti, ma erano largamente attive sia per i generosi contributi sovietici in dollari (Cossutta docet) che per le generose elargizioni delle organizzazioni economiche ideologicamente contigue. 
L'impegno diretto di Silvio Berlusconi dopo che, quotidianamente e per mesi, si era limitato a scagliare contro il Pool gli archomen delle sue televisioni e i giornalisti delle sue testate, significa che la partita è diventata mortale: il problema non sono più i 100 milioni elargiti al maresciallo della Guardia di Finanza Nanocchio (per distogliere i suoi occhi indiscreti dalle carte sull'assetto azionario di Telepiù) o i miliardi in tangenti distribuiti dal fratello Paolo (che per questo è già stato condannato), ma i 15 miliardi provenienti dai conti Fininvest finiti nei conti svizzeri di Bettino Craxi, in un primo momento falsamente attribuiti ad un finanziere arabo, titolare di non meglio specificati diritti cinematografici, che ha prontamente smentito. Il pericolo viene dalle carte che, dopo anni di feroce opposizione da parte dei legali della Fininvest, la magistratura svizzera ha finalmente consegnato a quella milanese. Il pericolo viene dalle dichiarazioni verbalizzate di Mario Moranzoni, dal '84 responsabile della tesoreria del Gruppo Berlusconi, che ha indicato le società e le persone attraverso le quali venivano investiti in Titoli di Stato decine e decine di miliardi (con lo scopo di creare, con gli interessi, «fondi neri» per il finanziamento illecito dei partiti) e come erano organizzate le scalate alle società quotate in Borsa, eludendo i controlli della Consob. 
Il nervosismo del Cavaliere è palese, seppure ben dissimulato dall'eterno sorriso, qualora si analizzino le dichiarazioni rilasciate nella conferenza stampa del 17 gennaio nelle quali accusava Di Pietro, dimenticando i suoi trascorsi di volenteroso «apprendista» della P2, di nutrire mire golpiste non dissimili da quelle del suo «gran maestro» Licio Gelli. La svolta politica di Forza Italia, con gran scorno di Fini, sarebbe inspiegabile, dopo mesi di grancassa pro-elezioni, senza i guai giudiziari che affliggono il Gruppo Berlusconi. Come non è comprensibile l'improvviso silenzio dei Progressisti sul conflitto di interessi che il Parlamento avrebbe dovuto sanare con la legge antitrust, già durante il governo Dini. 
Per giungere ad una sanatoria generale dei reati connessi all'inchiesta "Mani pulite" vanno delegittimati e rimossi i Magistrati della Procura milanese che, più volte, hanno esternato la loro opposizione a qualsiasi amnistia generalizzata e dato un saggio della loro determinazione quando costrinsero il Guardasigilli Biondi e il Presidente del Consiglio Berlusconi a ritirare precipitosamente il decreto «salvaladri». 
Certo l'ex-simbolo di Mani Pulite, non è quell'eroe, senza macchia e senza paura, che la stampa (specie quella controllata da Cuccia, Agnelli, De Benedetti) ha tanto esaltato. Le sue frequentazioni, le sue infantili furberie (al limite della legalità), la sua contiguità con i centri di potere politico (Cossiga) e finanziario (De Benedetti), evidenziati dalle intercettazioni telefoniche ordinate dalla Procura di Brescia, la sopravvalutazione di se stesso fino a sfiorare la megalomania, i suoi tentennamenti politici, ce lo restituiscono alquanto ridimensionato. 
Non dobbiamo tuttavia dimenticare che Tangentopoli, di cui Di Pietro è stato uno dei protagonisti positivi, è l'unica iniziativa giudiziaria seria, da mezzo secolo, contro la corruzione e l'onnipotenza partitica, qualunque fosse lo scopo di chi l'ha consentita. 
I fatti, come i numeri, rimangono: non si cancellano. La Banca d'Italia, in un suo studio della seconda metà del '73 indicava in una cifra oscillante tra i 20 mila e i 30 mila miliardi l'ammontare del malaffare politico. Una somma enorme, specie se rapportata ai valori monetari di quegli anni, che ha avuto una pesantissima ricaduta sul debito pubblico, in quanto, le tangenti altro non erano se non una parte dei costi aggiuntivi artatamente prodotti, nella realizzazione delle opere pubbliche. 
Questo detto, va iscritto al merito del Pool milanese l'aver recuperato alcune centinaia di miliardi di denaro pubblico, perseguito penalmente alcune migliaia di corrotti e corruttori e, soprattutto, l'averci per qualche mese dato l'illusione che in Italia non vi erano più «intoccabili». 
Riforme e regole
In Italia, la «necessità delle riforme» è un ritornello che generazione dopo generazione accompagna, dalla nascita alla tomba, ogni cittadino che abbia la ventura di nascere sotto il cielo azzurro del Belpaese. Quindi niente di strano che a soli due anni dalla riforma elettorale degli Enti Locali i partiti, i sindacati, i mass media, gli economisti e gli intellettuali, insomma, tutta l'eterogenea congrega di ciarlatani e perdigiorno che si proclama classe dirigente del Paese, sostenga con dovizia d'argomenti «la necessità di una nuova riforma elettorale» per traghettare definitivamente l'Italia dai melmosi acquitrini della Prima repubblica alle luminose vette della Seconda. 
La stessa miracolosa soluzione, per quanto ci pare di ricordare, per la quale un certo Mariotto Segni promosse un referendum (raccogliendo oltre un milione di firme) che costò, al solito pantalone, alcune centinaia di miliardi nel non lontano '92. Referendum che si proponeva di inserire l'Italia nel novero delle «democrazie compiute», costringendo la Babele dei partiti che rendevano ardua la vita a qualsiasi esecutivo, ad accorparsi in due Poli antagonisti: uno al governo e l'altro all'opposizione. Tutti i lettori ricorderanno il «di qua o di là» del «maggioritario» cui tutti avrebbero dovuto assoggettarsi. Bene! Cinque anni dopo, i partiti rappresentati in Parlamento, che erano dodici ai tempi del vituperato ed «obsoleto» sistema proporzionale, si sono moltiplicati, come i pani e i pesci nel Nuovo Testamento, diventando trentadue (32), tanto che il Presidente della Repubblica ha dovuto operare una cernita, nelle consultazioni di questi giorni, per evitare rischi d'ingorgo all'Augusto Colle.
A noi pare, anche se l'opinione dei comuni cittadini non ha soverchie speranze di essere tenuta in conto, che la pretesa di risolvere l'impasse politica attraverso «un accordo di legislatura dal quale nasca un governo di larghe intese, che abbia l'autorità necessaria per riscrivere le regole e completare la riforma elettorale» non produrrà alcun risultato concreto per gli italiani che debbono misurarsi coi problemi della quotidianità non disponendo, come i signori parlamentari, di un consistente reddito garantito da rischi di cassa integrazione, disoccupazione ed inflazione.
L'Italia più che di leggi sfornate a getto continuo (il corpus legislativo italiano è composto da oltre 157 mila leggi e leggine; per un qualche raffronto basti rilevare che la Francia non arriva a settemila e la Germania ad ottomila) e referendum a raffica. Avrebbe urgenza di rendere operative le leggi esistenti: prima fra tutte, tanto per fare qualche esempio, quella relativa allo snellimento dell'elefantiaca burocrazia statale e quelle relative al risanamento e alla preservazione dell'ambiente, causa di gran parte delle quotidiane emergenze.
La petulante giaculatoria sulle riforme istituzionali altro non è se non la lampante conferma dell'inadeguatezza di un personale politico il quale essendo per lo più costituito da scorie e rimasugli di ideologie naufragate, non ha la capacità progettuale e la spregiudicatezza politica per operare con incisività.
A proposito di Lega Nord
Il signor Umberto Bossi non ci è mai piaciuto. Il suo razzismo da osteria, il suo anti-meridionalismo canagliesco ed il suo intercalare catarroso ci danno il voltastomaco. Ancora minore simpatia, se possibile, ci ispirano i suoi sodali; vivere nella Padania ci obbliga alla vicinanza fisica con quella piccola borghesia bottegaia incolta e retriva, supremamente egoista, che costituisce l'ossatura della Lega Nord.
Il nostro atteggiamento, rispetto al movimento bossiano, ai suoi programmi, alla sua politica ricattatoria, al suo baloccarsi con un argomento delicato come quello dell’Unità nazionale, è sempre stato di netta ostilità. Non si contano gli attacchi ad "Aurora" della stampa periodica leghista in risposta al nostro atteggiamento. E persino un lungo saggio, pubblicato da un noto mensile della sinistra, sull'atteggiamento della «destra radicale» (gli intellettuali «progressivi» non rinunciano ai loro schematismi, nemmeno in tempi in cui Occhetto e D'Alema si scappellano davanti agli gnomi della City e il buon Walter Veltroni discetta di «legge e ordine» al pari del più retrivo dei reazionari) indicava nei «nazional-popolari» di "Aurora" il solo gruppo che non ha mai manifestato la benché minima simpatia e comprensione per la Lega.
L'amico Canale, nel suo intervento, integralmente pubblicato su queste pagine, ci muove non velate critiche, dovute, noi crediamo, all'errata interpretazione di quanto scritto nell'editoriale del numero di novembre di "Aurora", titolato: «Unità nazionale, il nemico non è solo Bossi».
Ribadiamo, onde sgombrare il campo da possibili ed ulteriori equivoci, che questo non è un giornale di meridionalisti o nordisti, ma di italiani.
Italiani convinti, che l'intelligenza non abbia il suo centro di irradiazione nazionale a Reggio Calabria o Napoli, a Milano o Mantova e che alla meschinità razzista della Lega non sia «intelligente» contrapporre uno pseudo-razzismo che prospetta una superiorità intellettiva degli Italiani del Sud. Tutto ciò è infantile ed estremamente pericoloso, tenuto conto che non tutti gli abitanti del Nord sono leghisti -anzi molti militanti e quadri di questo movimento sono di origine meridionale, «nordisti» di seconda generazione-, sia perché non è produttivo, per gli stessi Meridionali non assumersi delle responsabilità, anche nell’ambito di una difesa attiva dell'Unità e dell'Identità nazionale, continuando ad scaricare su altri colpe di cui sono perlomeno corresponsabili. In linea con quel meridionalismo piagnone che ha prodotto nel Sud più danni di tanti tragici terremoti e di troppe bibliche migrazioni.
Per quanto ci riguarda condividiamo appieno, anche sotto il profilo geopolitico, quanto sostenuto dal prof. Moricca nel saggio proposto in questo numero di "Aurora".
Pur non condividendo nulla di quanto sostiene Umberto Bossi, ciò non ci impedisce di riconoscere che la Lega Nord pone problemi reali, politici ed economici, ineludibili, la cui soluzione non può essere ridotta al solo aspetto solidaristico. Non tenerne conto significa mettere a repentaglio il bene più prezioso: l'Unità nazionale, il cui venir meno, sarebbe una sconfitta per tutti.
Amici miei, rivoluzionari immaginari
Abbiamo letto con grande sorpresa un comunicato stampa dell'On. Pino Rauti che oltre al pubblicizzare una lotteria nazionale, con ricchi premi, osannava il discorso di fine d'anno del Capo dello Stato che trattava, in termini apologetici, del governo Dini, per il quale annunciava il sostegno dell'unico deputato del MSI-Fiamma Tricolore, in caso di voto, nella verifica dei primi di gennaio.
Ciò, lo ammettiamo, ci ha sconcertato. Pur non avendogli mai lesinato critiche eravamo ben aldilà dal sospettare che nella mente dell'ex-reggente di Ordine Nuovo, ex-segretario del MSI, ex-un mucchio di altre cose, albergassero simpatie per i tecnocrati del FMI, prestati alla politica italiana. La cosa è di per sé straordinaria qualora si considerino le posizioni antimondialiste del Rauti il quale si era rifiutato di aderire ad Alleanza Nazionale per conservare intatta la personale coerenza rivoluzionaria.
Ora noi, certo per un nostro limite intellettivo-culturale, non riusciamo ad individuare quanto di condivisibile, per un rivoluzionario a 24 carati, vi sia stato nel sermone dell'Inquilino del Colle e, soprattutto, gli aspetti condivisibili dell'azione di governo di Salazar-Dini.
Delle due è l'una: o l'on. Rauti vuole spingere la sua diversificazione da Alleanza Nazionale fino al punto da rinnegare tutte le sue passate «prediche», oppure la sua strategia politica è talmente sofisticata da non essere recepita e compresa da menti limitate come le nostre.
A noi appunto, ignoranti perché ignorano, pare molto più lineare, anche da un'ottica rivoluzionaria l'azione di Sua Eccellenza Gianfranco Fini (è bene familiarizzare con questo titolo... se continua l’andazzo) che, nonostante il suo peregrinare Oltreoceano e Oltremanica per omaggiare i potenti del mondo, si concede il lusso non solo di criticare aspramente Dini e Scalfaro ma di censurare, demagogicamente, il Trattato di Maastricht in quanto «i suoi costi sociali sarebbero troppo alti».
Il «fascismo» dell'onorevole Rauti assomiglia sempre di più al «comunismo» di quell'altro campione di coerenza rivoluzionaria che risponde al nome di Fausto Bertinotti che ha proposto un emendamento alla Finanziaria con il quale si escludevano «gli extra-comunitari dal pagamento del bollo, obbligatorio per molti atti pubblici», dimenticando, povero Lenin e povero Marx, che non tutti gli extra-comunitari sono poveri né che tutti gli italiani sono ricchi.
Un po' di razzismo alla rovescia, tanto per aumentare la confusione, non guasta.
Il gruppo della Lega Nord, al momento del voto, ha abbandonato l'Aula. Noi avremmo fatto altrettanto. A testimonianza di una libertà di giudizio che non tiene conto delle arzigogolazioni dei troppi Catoni.

Luigi Costa

 

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