da "AURORA" n° 37 (Ottobre - Dicembre 1996)

RECENSIONI

 

Nico Orengo

Le rose di Evita

 

Racconto di momenti vivi, d'un passato d'amore, una storia d'un presente di problemi, di fatiche realmente umane, quanto umanamente reali. Si tratta di uno dei romanzi storico-sentimentali, dipinti col pennello della realtà, che danno lustro alla letteratura italiana dei nostri tempi: "Le rose di Evita" di Nico Orengo, edito da Einaudi.

Racconto-poesia, fatto di ricerche e di esplorazione di un mondo che non appartiene a Marco, un ragazzino di 15 anni che vorrebbe sapere e conoscere il vero significato e, ancora di più, il senso di uno sgretolamento familiare, di quella famiglia, la sua, che ha subito, quasi in maniera misteriosa e cruda, un colpo maldestro. Si. Il padre, introverso, ostinato e fortemente altero, cambia la natura della sua terra, «girando la collina», per dar vita a una serie di fasce su cui piantare le Dallas o le MacArthur, comunemente chiamate Marcantù. Vita di sofferenze in un mondo che ha al suo centro Marco che assiste al distacco della madre, che, in tutta la sua giovane bellezza, raggiante di vita, va via di casa, per vivere in collina, in compagnia di un uomo, giovane, allegro, estroso e ricco di voglia di vivere. Voglia di vivere e voglia di nuove scoperte che Orengo trasferisce al lettore, contagiato dai suoi personaggi.

La poesia del sorriso e delle belle risate: è questo che cerca la mamma di Marco, non le strida del trattore sulla terra bruciata e i lunghi silenzi del marito. Un'attività esplorativa quella di Marco, che, nella sua psiche travagliata e, perciò, fortemente desiderosa di equilibrio, di pace e (perché no?) soprattutto, di verità, indaga sul mondo degli adulti. Lui, Marco, si sente figlio di ogni pianta intorno a casa: il fico, il caco, il nespolo, l'ulivo, l'eucalipto, figlio della canna e della rosa, della mimosa e del garofano, del pino, della giuggiola e della ginestra. Marco, ragazzo senza un passato e con un presente velato da una verità che, mattina e sera, gli fa male. Altre paternità sono in lui, «ma non si sente figlio di suo padre che sta in silenzio e non gli ha mai raccontato nulla del nonno e del suo viaggio in Argentina».

E la madre? Nel letto della madre c'è Mohammed che dorme abbracciato a lei sotto le lenzuola. Quanti sentimenti, quanti affetti traditi nel ragazzo che non vuole più stare in «quella casa». Vanda e Mohammed, che hanno scalfito la limpida e innocente poesia familiare di Marco, hanno «schiacciato il suo affetto». Ma «sotto le serre della Pianella le rose erano fiorite» e «la collina sembrava incendiata, coperta com'era di petali umidi e teneri». L'autore, dalla ricchezza musicale interiore, dipinge una musica di colori così vivaci che «faceva male agli occhi guardare». Ultimi colori di rose sbocciate nel giardino del nonno, ultime rose degli ultimi giorni della breve vita di Evita.

Un uomo, il nonno, che, in fondo, fa dono del suo passato, pertanto, della sua vita e della sua storia con Evita Perón a Marco.

Una lontananza che si fa vicina attraverso quella comunicazione di pensieri dell'uno che conosce i pensieri dell'altro. Nico Orengo non tace sul tocco magico di «un'alba strana, mai vista» che porta allegria nei pensieri e nel cuore di Marco. Ancora lo scrittore non tace, con estrema padronanza della bellezza solare della natura, delle «rose con i colori del tramonto del mare» nella terra di Unzué, in Argentina, «rose più gialle dell'oro, rose più rosse del sangue, rose più bianche della luna». E il personaggio storico-mitico di Evita alla domanda: «Chi avrebbe realizzato quel sogno in quel pezzo "incantato" della Liguria», molto poeticamente rispondeva «con il nome del nonno» e, orgogliosamente, raccontava «il loro incontro sul lungomare di Bordighera».

Attraverso il cammino delle esplorazioni, Marco vede la Cadillac coupé come «una bara dimenticata» con le gomme sgonfie, lacerate, le maniglie arrugginite, «una scheggia di morte». «Ma come è potuta passare per le strade, così lunga e alta?» si chiedeva Marco seduto su una pietra di fronte ai garages. E ancora insistentemente: «Quella carcassa ha potuto portare Evita Perón?» La signora Perón, seduta sul pianale posteriore, salutava, col suo dolce sorriso, la folla, mentre attraversava le strade di Sanremo e Bordighera.

Quei Fiori, rinsecchiti, «schiacciati dal tempo» erano le rose che il nonno aveva regalato a Evita Perón. «Le rose che Evita aveva stretto al seno». Cosa fa Marco? Raccoglie in un fazzoletto il mucchio di polvere che si era sbriciolato sulla pietra. «Era tutto ciò che rimaneva della storia del nonno e di Evita Perón». «I ricordi che lasciano le persone restano tra di noi», dice Nico Orengo. Ricordi che non sempre sono visibili, bisogna cercarli. Orengo crea due storie, due mondi che si uniscono attraverso le rose: crea il mondo incantato della Liguria e il giardino di Unzué, nella lontana Argentina. Laggiù c'è ancora una parte di storia che Marco non conosce: quella del nonno e di Evita l'Encantadora. Cronaca e storia d'un racconto fatto di pianti, di sorrisi, di memorie, di passati non definiti e di emozioni che Orengo innalza poeticamente fino a sublimarli nel canto delle acque e delle rose della Liguria. E Marco, come ognuno di noi, cerca quella assurda verità che vive e muore con lui, che nasce e cresce con noi. Angolo di cielo di ieri che vuole lasciare al ragazzo e all'uomo del mondo la storia di un'esistenza che fu. E quella che l'autore del romanzo "Le rose di Evita", ha cercato e continua ancora a cercare. Rose del passato d'una vita che rimane scritta nel quaderno dell'esistenza di Marco. Rose che, seppure «un mucchio di polvere» fanno parte di ogni uomo. È la continuità della vita di Nico Orengo.

Francesco Mulè

 


 

Enrico Landolfi

Ciao rossa Salò.

Il crepuscolo libertario e socializzatore di Mussolini ultimo

Ed. dell'Oleandro. Roma '96         pp. 294       £. 32.000

 

Enrico Landolfi non ha bisogno di presentazioni. I lettori di "Aurora", in questi anni di proficua collaborazione, hanno spesso manifestato apprezzamento e simpatia per le tesi di questo socialista atipico, la sua prosa brillante, le sue argute osservazioni, i suoi ampi orizzonti culturali.

Un Uomo della sinistra insolito, nonostante il suo costante impegno all'interno di quella parte politica, ben lontano dal clichè dell'intellettuale d'area sul quale la gran maggioranza dei politicanti, camuffati da pensatori, si sono appiattiti. La riprova ne è questo saggio. Certo non consigliato all'Autore dal mutato clima politico -nel quale persino stelle di prima grandezza della sinistra, innalzati alle più alte cariche istituzionali della «Repubblica nata dalla Resistenza» grazie all'affermazione elettorale dell'Ulivo, s'interrogano pubblicamente sulle «ragioni dei vinti»- ma solo tappa intermedia di una lunga e sofferta riflessione politica e culturale sulle «ragioni della Storia», che è cosa ben diversa dalle pelose, tardive ed interessate «comprensioni» per quanti, ormai in là con gli anni, nella tragica ed affascinante epopea del «Mussolini ultimo» hanno «bruciato» i loro anni giovanili con lo stesso disinteresse, passione ed onestà con la quale, dopo mezzo secolo di emarginazione e demonizzazione, respingono, oggi, perdonismi strumentali e pacificazione di maniera che, oltreché inficiare le ragioni di quanti da una parte e dall'altra della lotta fratricida si sono battuti, hanno anche la valenza di procrastinare sine die la criminalizzazione ideologica, elargendo, con gesuitica ipocrisia, una «comprensione» non richiesta né accettata da ex-ragazzi e ragazze «che scelsero di battersi dalla parte sbagliata».

Ed è quello di essere da sempre oltre la mera «comprensione» il punto centrale della lunga riflessione di Enrico Landolfi che, proprio ad uso e consumo delle sinistra, a cui il saggio è dedicato (ma la lettura del quale, personalmente, riteniamo non inutile anche per gli imbalsamati cascami di quel neo-fascismo rituale e lazzaronesco ancora in auge), disegna, con dovizia di argomenti, un quadro dinamico e vitale nel quale, pur tra luce ed ombre, sempre presenti in una vicenda complessa e contraddittoria, com'è in effetti stata la sempre troppo angariata «repubblichetta di Salò», non mancano le pennellate in rilievo con le quali l'Autore esprime la convinzione che all'elaborazione mussoliniana sulle rive del Garda non sia preclusa miglior sorte futura.

Un quadro, si diceva sopra, vitale e dinamico, nel quale i «servi sciocchi» dell'orda teutonica, ritrovano lo spessore politico e sociale conculcato da mezzo secolo di storiografia partigiana nonché una dimensione umana -pur essa non irrilevante al fine di una più congrua valutazione dell'insieme- per cui i bagliori vividi di una tragedia nazionale di proporzioni gigantesche rimuovono il farsesco col quale uomini, idee, dedizioni sono stati in questo dopoguerra contornati.

Verrebbe da dire che, attraverso l'affascinate prosa del Landolfi, la storia consuma la sua vendetta ristabilendo un equilibrio tra i torti e le ragioni delle parti in lotta e così ponendo le basi per una pacificazione vera, per la quale è necessario qualcosa di ben più consistente della «comprensione» e dal «perdono» che, seppure importanti, in quanto un problema, seppure maldestramente lo pongono, sono pur sempre in linea con l'ipocrisia e la faziosità per la quale i combattenti della Repubblica Sociale Italiana sono stati rinserrati in una sorta di lebbrosario politico.

La RSI non fu, sostiene Enrico Landolfi, uno Stato fantoccio, una trincea ove si è data appuntamento un'umanità da trivio, servile e disperata, ma un'entità statuale viva e pulsante che pur tra mille difficoltà esercitò con tutti i crismi di uno Stato la sovranità politica ed impose al suo recalcitrante ed arrogante alleato il rispetto di questa sovranità.

Un'entità statuale, scrive il Landolfi, con la quale si schierarono uomini di valore. Antifascisti del calibro di un Carlo Silvestri -il più determinato accusatore di Benito Mussolini per il delitto Matteotti e per questo condannato al confino- e Nicola Bombacci ex-segretario del PSI, fondatore (unitamente a Gramsci, Terracini e Bordiga) del PCM, noto per essere stato, per tutti gli Anni Venti, uomo di fiducia dei Soviet in Italia, oltreché amico personale di Lenin e di molti capi bolscevichi.

In "Ciao, rossa Salò", Landolfi sviscera personaggi e circostanze di quella fase storica, dal 25 luglio '43, passando per le tragiche giornate dell'8 settembre, via via fino all'epilogo del 25 aprile '45 e si schiera chiaramente dalla parte di chi accettò nel dopoguerra, con spavalda consapevolezza, il lebbrosario politico pur di non tradire le convinzioni della giovinezza.

In ultimo, ma non per importanza, rimane da rilevare la straordinaria descrizione che il Landolfi fa dell'ultimo Mussolini. Una «descrizione» nella quale le mai venute meno straordinarie doti politiche del «Socialista di Predappio» si confondono con la consapevolezza, che questi ha, dell'epilogo che lo attende. Qui l'indagine storica è venata di lirismo, di autentica poesia, bastevole da sola a fare la fortuna di qualsiasi autore.

 


 

Gigi Montonato

L'Italia che ti ritrovi

Ed. Presenza, Taurisano (LE)    pp. 142    £. 20.000

 

Dove entrano o contano i partiti, l'obolo imperversa. Qualcuno si era illuso che quella stagione fosse tramontata. No, resiste. Non si sono fatti i conti neppure con il passato. Del malcostume politico è emersa solo la punta di un iceberg e sono sempre più i magistrati che, pensando al misero cinque per cento degli inquisiti, consigliano di chiudere con il passato attraverso un'amnistia a pagamento. È sempre più forte la tentazione di mettere una pietra su "Mani pulite" dando per scontato che tutti, o quasi, hanno avuto il loro ruolo nel sistema delle tangenti.

Il progresso della tecnica non è andato di pari passo con quello dell'etica. Sono crollati miti e ideologie, e ancora nulla ha sostituito quelle convinzioni e quelle speranze. La battuta di Woody Allen: «Dio è morto, Marx è morto, e io non mi sento bene», è sempre più vera.

Scrive Bianchi Bandinelli: «La rovina dell'Impero Romano fu facilitata dal clientelismo amministrativo e dal caos delle leggi e non dalle orge di Satyricon».

Ma chi studia la storia? Eppure niente è fatale. Tutto quello che è successo e che ancora sta succedendo in Italia, come illustra con scrittura accattivante Montonato in "L'Italia che ti ritrovi", non è un qualcosa che dall'esterno cade sugli italiani senza che questi abbiano alcuna responsabilità.

Si poteva e si può incidere sulla storia, si può agire perché le cose vadano in una direzione piuttosto che in un'altra: esiste uno spazio di libertà nel regno della necessità -uno spazio di libero arbitrio- che consente ai cittadini di combattere i mali.

Un libro, questo di Montonato, che aiuta a comprendere, a intravedere le prospettive di un avvenire prossimo venturo, ancora tanto incerto.

Giovanni Luigi Manco

 

 

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