da "AURORA" n° 40 (Aprile 1997)

RECENSIONI

 

Renato Pallavidini

Il giovane Mussolini e Lenin.

Volontarismo e rivoluzione socialista nel materialismo

SEB Milano, '96                pp. 100            £.14.000

 

Il nucleo essenziale cui si ancorano le tesi del volume di Pallavidini consiste nell'indicazione del volontarismo come aspetto fondamentale in cui si manifestò la crisi del socialismo della IIª Internazionale. Quest'ultimo era legato all'idea di uno sviluppo storico «interamente oggettivo e necessitato dalle contraddizioni economiche. Legate alla filosofia della storia deterministica sono le idee relative al crollo oggettivo e ineludibile del capitalismo e al carattere di catastrofe, quasi da crepuscolo degli Dei, tutto fiamme e rovine, che questo crollo avrebbe dovuto assumere» (p. 7). Tale idea dello sviluppo storico legittimava la definizione dei compiti dei socialisti come assecondamento della evoluzione storica e attesa del crollo del sistema economico.

Tanto Mussolini, quanto Lenin presero atto della necessità di una revisione del socialismo in senso rivoluzionario proprio mentre diveniva chiaro che il capitalismo non sarebbe caduto per effetto delle contraddizioni sempre più laceranti che andava sviluppando, ma soltanto grazie a una nuova tecnica sovversiva. Mussolini elaborò una visione dialettica del materialismo storico marxista fra il '12 e il '14, essenzialmente convergente con quella che leggiamo nei "Quaderni filosofici" di Lenin. Dagli scritti mussoliniani di questo periodo emerge come la storia non dovesse essere considerata come totalmente necessitata la fattori oggettivi, ma come risultato dell'iniziativa e dell'organizzazione umana; in altre parole, la storia è movimento dialettico soggetto-oggettivo la cui evoluzione non è né graduale, né lenta, né fatale, come sostenevano i grandi maestri del positivismo e i loro continuatori di parte socialista, ma procede per salti; il socialismo non si realizzerà per effetto delle «leggi naturali di sviluppo», né queste ultime porteranno, infallibilmente, al crollo del sistema capitalistico. Qui emerge in tutta la sua importanza l'iniziativa organizzata sovversiva.

L'Autore cita come esempio di questa linea del pensiero mussoliniano gli scritti del '13-'14 nei quali si legge, ad esempio, che la situazione europea obbliga il socialismo a prendere la iniziativa contro il militarismo capitalista e ad innescare un processo rivoluzionario che consenta al proletariato la conquista del potere (p. 21).

È sul piano di questa esaltazione della soggettività rivoluzionaria che ha agito l'influsso della dottrina nietzschiana del «superuomo»; qui, però, il nietzscheanesimo è inteso in modo improprio, come strumento nelle mani del movimento proletario, non nel senso aristocratico voluto da Nietzsche.

Mussolini impose limiti ben precisi al volontarismo: non si può forzare arbitrariamente il corso oggettivo degli eventi; l'azione della storia non deriva né dalla subordinazione alla realtà oggettiva, né dal delirio di potenza del soggetto, ma è, necessariamente, la risultante dialettica dell'intersezione tra soggetto e realtà oggettiva.

Sulla medesima linea si colloca la concezione gramsciana del partito nelle "Note sul Machiavelli" di Antonio Gramsci: «Il Partito riassume e costruisce attorno ad obiettivi strategici, con una dimensione di carattere universale, una volontà diffusa di protesta e di azione, che permea spontaneamente la vita di una classe sociale» (p. 27). Il volontarismo innestato nella visione dialettica della storia produce la figura del partito che Mussolini vede, nel 1908, come avanguardia cosciente, libera, forte e volitiva del proletariato. Di lì a non molto, Mussolini concepirà l'interventismo come movimento di appropriazione, da parte del proletariato, della nazione, come strumento per pesare in modo decisivo nei rapporti di forza della società italiana post-bellica; in altri termini, l'interventismo fu inteso come strumento per la rivoluzione sociale.

L'elaborazione teorica di Lenin si sviluppò, invece, senza influssi volontaristici esterni; tuttavia, nei "Quaderni filosofici" Lenin assegnò alla scienza della società -e alla scienza della politica- due compiti correlati:

a) rendere una classe sociale cosciente del proprio ruolo e delle proprie capacità di modificazione delle condizioni oggettive di vita;

b) indicarle mezzi, direzione e strategie per operare effettualmente questa modificazione rivoluzionaria (p. 50-51).

Nel commento alla "Logica" di Hegel, Lenin afferma «La coscienza dell'uomo non solo rispecchia il mondo oggettivo, ma altresì lo crea (...) ossia il mondo non soddisfa l'uomo e l'uomo decide di conciliarlo con la sua azione» (cit. p. 52). L'equilibrio tra fattore oggettivo e fattore soggettivo nella prassi si incarnò in modo contraddittorio nell'opera politica di Stalin: «il passaggio alla pianificazione quinquennale -osserva a p. 54 l'Autore- rappresenta indubbiamente una forzatura volontaristica della realtà sociale dell'Unione Sovietica, da cui conseguirono, tra il '28 e il '30, lacerazioni, drammi umani, problemi economici, determinati soprattutto dalla resistenza dei ricchi contadini proprietari a una collettivizzazione che spesso violava il principio leninista della volontarietà» (p. 54). La ove si verificarono problemi si cercò di attivare -attraverso la mobilitazione politica del Partito- tutte le energie disponibili; maggiore equilibrio in termini di dialettica tra fattore oggettivo e fattore soggettivo rivelò, invece la scelta di edificare il socialismo in un solo paese. Sempre, comunque, la rivoluzione proletaria fu concepita da Stalin come un'azione di stimolo alla storia perché essa potesse produrre un nuovo ordine sociale.

Il volume di Pallavidini consente di ripensare ai legami -per lo più dimenticati o consapevolmente occultati- che permettono di affermare che il Fascismo italiano, nei limiti in cui si identificò con il pensiero e l'azione di Mussolini, fu in buona misura un frutto cresciuto dell'albero del socialismo della IIª Internazionale e un esito, non meno del leninismo e dello stesso stalinismo, del marxismo second'internazionalista.

 

Francesco Ingravalle

 



Max Weber

L'etica protestante e lo spirito del capitalismo

Classici della BUR                                £.16.000

 

A questo libro di Weber scritto nel 1905 si sono opposte numerose critiche, sia da parte marxista, che da parte protestante. Ma in entrambi i casi tali critiche furono essenzialmente fuori luogo, e sicuramente dettate da una mala interpretazione del libro, o da una frettolosa lettura, dettata probabilmente dalla non facile comprensione del libro stesso. In ogni caso entrambi avevano torto in quanto Max Weber non intendeva sostenere in nessun caso che la nascita dell'economia capitalista fosse dovuta all'affermarsi del protestantesimo né insinuare che lo spirito stesso del protestantesimo potesse ridursi nella sua essenza vitale ad una concezione economica. Max Weber al contrario cercò in questo libro di dare una chiave di lettura diversa alla meccanicistica e riduttiva interpretazione del capitalismo data dal marxismo. Il sociologo tedesco vi riesce più che bene anche se onestamente parlando a scapito della chiarezza del libro stesso, fin troppo minuzioso e ripetitivo nella prima parte.

Secondo Weber l'etica del protestantesimo partendo da una fuorviante osservazione del motto paolini «chi non lavora non mangia» è giunto ad indentificare il lavoro come pratica di redenzione messianica del cristiano‚ o meglio del buon cristiano! E quindi attraverso la ricerca di un'ascesi materiale in terra si univa ad una interpretazione del lavoro e del capitale purificata e mediata dallo spirito religioso protestante. Weber dunque non intende concepire la nascita del capitalismo moderno come un fatto legato alla religione protestante (il che sarebbe assurdo in quanto il capitalismo è fiorito sia nel mondo cattolico che in quello ortodosso) bensì ritiene e senza dubbio a ragione che il protestantesimo abbia contribuito a dare una peculiarità al capitalismo esistente nel mondo protestante, un capitalismo che a suo dire rimane comunque contaminato alla base da una visione messianica e forse anche ipocrita in chi lo esercita. In ciò l'analisi di Weber rimane tendenzialmente sociologica più che economica. Ma comunque non si può negare l'importanza della originalità dello studio compiuto in merito al capitalismo nord-europeo e statunitense. Analisi che economisti e sociologi del tempo non avevano assolutamente calcolato fino alla comparsa del libro stesso. Inutile dire che la lettura del libro di Weber è da ritenersi utile ed interessante anche odiernamente.

 

 

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