da "AURORA" n° 47 (Marzo 1998)

EDITORIALE

Europa e questione sociale

Luigi Costa

Conclusa, al momento, positivamente la complessa ed ardua opera di risanamento dei conti pubblici, l'Italia centra l'obiettivo europeo. Un risultato ragguardevole, considerando le condizioni di partenza; ossia l'abissale divario che solo due anni or sono esisteva tra i fondamentali della nostra economia ed i parametri sottoscritti a Maastricht.

Minimizzare, per meri interessi di bottega, il valore del risultato conseguito ed i positivi risvolti per il futuro del nostro paese, sarebbe ingeneroso rispetto all'impegno profuso ed ai sacrifici di cui la comunità nazionale si è fatta carico per non essere relegata ai margini di un processo di unità continentale all'interno del quale, fin dai tempi del "Trattato di Roma", ha svolto un ruolo da protagonista.

Certo non è che le dinamiche economico-politiche che impongono contenuti e cadenze della convergenza continentale siano indolori e non presentino, anche negli aspetti fondamentali -dei princìpi e dei valori-, connotati perversi (tra i quali l'ossessione economicista ci pare il peggiore) imposti dal processo di globalizzazione in atto. Ciò è, a nostro parere, inevitabile considerando l'interdipendenza economica tra paesi «occidentali» e la necessità di mantenere intatto il potenziale della nascente Unione Monetaria, oggi massima potenza economica planetaria con una produzione equivalente al 22% della ricchezza mondiale ed il controllo di oltre il 28% degli interscambi commerciali.

Questi dati macro-economici danno solo parzialmente la misura delle potenzialità dell'UE; basti pensare a quanto nell'informatica (vero snodo strategico delle politiche produttive del Terzo Millennio ed autentico punto di forza, unitamente al controllo delle risorse energetiche e dell'egemonia finanziaria, militare e politica della superpotenza statunitense) si può ottenere in un'Europa in cui gli investimenti settoriali dei singoli Stati nazionali siano sottoposti ad uno stretto coordinamento e si diano obiettivi comuni.

Rimangono, viceversa, intatte tutte le incognite di carattere sociale, delle quali la disoccupazione è la più appariscente e, in termini sociali, il più angosciosamente devastante, ma certo non il più pericoloso in quanto la mutazione del sistema produttivo induce al sotto-utilizzo della forza lavoro.

Lavoro interinale, part-time, contratti d'area e quanto altro la decantata «flessibilità» impone ai modelli produttivi nazionali per sostenere una concorrenza sempre più spietata, rischiano di cacciare l'Europa nel vicolo cieco delle povertà diffuse. Gli «working poors», la tremenda realtà dei lavoratori americani e inglesi poveri, è immanente anche nel Vecchio Continente giacché il venir meno della solidarietà collettiva garantita dallo Stato sociale aggrava le condizioni di marginalità di larghe fasce di popolazione.

Il dramma è che, Europa o non Europa, la concorrenzialità tra imprese e tra sistemi produttivi nazionali imposta dalla fase di capitalismo «maturo» che stiamo attraversando accentua i caratteri anti-umani di un modello di sviluppo nel quale il nocciolo «ideologico» è rappresentato dalla redditività dell'impresa e non certo dalla funzione sociale e dall'utilità produttiva di essa.

Menare scandalo serve a poco. I successi borsistici delle aziende che operano massicci tagli di forza-lavoro rientrano nella perversa razionalità del sistema capitalistico. Nella stessa «razionalità» rientrano lo sfruttamento del lavoro minorile, il ridislocamento delle aziende a grande impiego di lavoro manuale in aree in cui la tutela dei lavoratori è inesistente e perfino gran parte dei commerci illeciti: dalle armi alla droga, dalla tratta dei minori (per sollazzare i depravati benestanti occidentali) al fiorente commercio di sangue ed organi umani.

Vogliamo dire che allorché si celebra l'accumulazione di capitale come massima espressione delle virtù dei singoli e dei popoli si innescano meccanismi per cui tutto, o quasi, diventa lecito e l'indifferenza riguardo agli sfortunati -gli esclusi dal Bengodi- abitudine.

Ogni tentativo di umanizzare il sistema è, a nostro avviso, inutile in quanto esso si fonda, ed è alimentato, da una forma estrema di intollerante egoismo contro la quale va a cozzare ogni richiamo di tipo morale e ogni valore etico.

E se è vero che, e migliaia di casi documentati sono lì a provarlo, un'industria chimica non tiene conto dell'impatto ambientale e del potenziale pericolo per l'incolumità delle persone (Seveso, Bophal, Marghera, ecc.) e un'industriale farmaceutico continua a produrre un farmaco i cui effetti secondari sono devastanti per l'integrità fisica di quanti lo utilizzano, è assurdo attendersi dai pescecani della finanza, il cui potere si regge sulla speculazione improduttiva, la volontaria rinuncia alle loro rapine.

L'ideologia capitalista

Dall'Ottantanove in poi i mass media occidentali celebrano con cadenza quotidiana la cosiddetta «fine delle ideologie», l'avvento del liberismo e la deregolamentazione dell'economia quale tappa fondamentale del progredire umano verso il benessere e la felicità diffusa. Quasi che il liberalismo, nelle sue molte sfaccettature, non sia esso stesso una «ideologia», ossia una costruzione «teorica», all'edificazione della quale hanno contribuito fior fiore di pensatori fin dai tempi della prima rivoluzione industriale (Smith, Malthus, Ricardo, Stuart-Mill, solo per citare i classici) e che le tanto aborrite «ideologie», che si vogliono morte e sepolte, non siano state lo strumento di cui si sono dotati quanti paventavano gli effetti devastanti del perentorio slogan «arricchitevi».

Il Socialismo, la «ideologia» socialista, non è da ritenersi la risposta logica, naturale delle masse che, grazie a quel grido dei teorici liberali, furono sottoposte a bestiale sfruttamento dagli accumulatori di capitale?

La risposta crediamo sia scontata.

Certo il liberalismo, diversamente dalle ideologie avverse, ha mostrato maggiore versatilità e capacità di adattamento alle esigenze della naturale evoluzione dell'economia. Versatilità consentitagli, per l'appunto, dalla totale assenza di canoni etici e scopi sociali a cui uniformare la propria azione: non rispondendo l'accumulazione del capitale del singolo a fini morali ed avendo la propria giustificazione storico-sociale nell'accumulazione stessa, il capitalista gode di una libertà ben più ampia di quella consentita a chi opera nella realtà sociale avendo per scopo il benessere collettivo.

Ciò è lapalissiano qualora si consideri che il capitalismo diviene «umano», cioè assume caratteri di utilità sociale, solo per costrizione quando è in gioco la sua sopravvivenza.

Questa è l'interpretazione corretta della lunga parentesi storica nella quale il Grande capitale ha contribuito alla realizzazione del «Welfare State» rinunciando a parte dei suoi profitti. Tutta la politica keynesiana, dal «New Deal» in poi, rispondeva all'esigenza di isolare l'Unione Sovietica, il modello di capitalismo statalista-burocratico affermatosi con la rivoluzione leninista del '17. Contrapposizione, a ben vedere, non «ideologica», in quanto il capitalismo di Stato bolscevico non differiva nella «sostanza» dal capitalismo tout court se è vero, come affermava Kautsky nel 1919 in "Terrorismo e comunismo", che «il regime bolscevico era, sotto l'aspetto politico, una dittatura burocratica e sotto l'aspetto economico, un capitalismo di Stato, una "nuova classe di funzionari" si era impadronita, in Russia, del potere sia politico sia economico, generando la più grande servitù sociale e politica che si fosse mai vista nella stessa Russia. Prima le due burocrazie, quella statale e quella privata, erano separate e indipendenti l'una dall'altra, e l'operaio aveva qualche probabilità di spuntarla ora sull'una, ora sull'altra; ma adesso la burocrazia statale e quella del capitale formavano una cosa sola onnipotente e irresistibile: ecco il risultato della grande trasformazione "socialista" realizzata dal bolscevismo. Si tratta, in realtà, del dispotismo più oppressivo che la Russia abbia mai conosciuto». (1)

Lo scontro tra le due forme di capitalismo era ingenerato dalla necessità del capitalismo «occidentale» di liberare tutte le sue potenzialità che solo la flessibilità estrema le poteva consentire. «Flessibilità» che è stata acquisita nell'ultimo decennio, con la finanziarizzazione, forma estrema di speculazione del tutto avulsa dall'economia produttiva.

La finanziarizzazione permette inoltre la globalizzazione dei mercati e un più adeguato controllo dei flussi monetari attraverso i quali condizionare, oltre alla produzione di beni, le èlites politiche.

È dalle Borse, dalla sedicente volontà del «Mercato» (questo moloch virtuale che condiziona il destino di uomini e popoli) che proviene la legittimità dei governi e non certo dalla volontà dei cittadini. La democrazia si è ridotta a inutile parodia, a kermesse cartacea, giacché il vero potere è quello conferito dagli indici borsistici.

 

Socializzare l'economia per socializzare la politica

Parlare di antagonismo al sistema in un simile scenario è semplicemente utopico. Non tanto per l'assenza di strumenti quanto per la ridotta reattività sociale.

Spesso si scambiano, a destra come a sinistra, per antagonismo le patetiche rimasticature nostalgiche rifiutando un approccio positivo alla complessità del moderno, a nostro avviso, la sola strade percorribile per costruire una alternativa al modello dominante. Perché è pur vero che il lavoro manuale, tecnico e intellettuale ha perso parte delle sue valenze sociali e del suo potere contrattuale ma esistono gli spazi per forme alternative di lotta.

Se al capitalismo, infatti, nell'attuale fase, è consentito di non tenere in gran conto le forze produttive in virtù di una globalizzazione che gli permette di ridislocare la produzione e comunque di utilizzare come «esercito di riserva» le masse in fuga della miseria del Terzo Mondo il suo nuovo antagonista potrebbe essere il Consumatore. Un Consumatore «selettivo», ad esempio, ha gli strumenti per imporre le caratteristiche dei prodotti. E per Consumatore non intendiamo solo chi consuma in senso «letterale», ma anche i fruitori di servizi: dalle carte di credito alle assicurazioni.

In questo versante la legislazione europea offre mille opportunità che se adeguatamente sfruttate, per esempio con l'organico collegamento tra le associazioni dei «produttori» e quelle dei «consumatori», possono giungere a risultati di rilievo.

È chiaro queste sarebbero forme minime, anche se importanti, di partecipazione, ma aprirebbero uno spiraglio non da poco nel muro compatto di complicità esistenti tra capitale, mass-media, politica e magistratura. Forme minime, dicevamo, ma che, come la storia insegna, sono destinate ad evolvere e comportano mutamenti sociali imprevedibili, attivando la consapevolezza del singolo senza il concorso del quale qualsiasi mutazione economica e politica è impossibile.

E solo una grande battaglia culturale può gettare le basi per un mutamento dei rapporti di forza economici tra sfruttati e sfruttatori. Una battaglia culturale per ridimensionare la funzione del capitale all'interno del processo economico e che porti al centro della produzione il «Produttore», colui che manualmente e intellettualmente è il vero, l'unico creatore di ricchezza.

Solo ponendo al centro dell'economia il Produttore, rendendolo proprietario dei mezzi di produzione e compartecipe agli utili delle aziende la società civile riacquista la propria indipendenza politica e il singolo la propria libertà personale. Perché se è pur vero che non di solo pane vive l'uomo, la prima libertà, quella fondamentale, che precede tutte le altre è la libertà dal bisogno, la liberazione dal ricatto economico.

Tra i meriti della nascente unità continentale va ascritto senz'altro quello di rompere lo status quo, di introdurre nello scenario dominante le turbative che l'evento dell'Euro produrrà, giocoforza, nell'economia mondiale.

A quanti, pur definendosi antagonisti, si attardano nelle logiche castranti del piccolo cabotaggio e sono ancora avulsi nelle logiche patriottarde di un nazionalismo da provincia dell'impero vogliamo ricordare che la futura Europa sarà senz'altro quella dei banchieri anche per la loro colpevole latitanza.

 

Luigi Costa

 

Note.

 

1) L. M. Salvadori, "Kautsky e la rivoluzione socialista (1880-1938)", Milano '76

 

 

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