da "AURORA" n° 47 (Marzo 1998)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

 

 

A proposito di un'intervista dell'on. Otello Montanari a "Il Corriere della Sera"

Quel Togliatti nazional-comunista è esistito davvero?

 

Enrico Landolfi

 

«Guardi, ricordo un discorso di Togliatti nel maggio del '47 che lasciò a bocca aperta noi giovani comunisti. Disse in sostanza il capo del PCI: "Con la grande massa dei fascisti abbiamo combattuto senza esclusione di colpi, ma in realtà ci fu un grande malinteso perché in fondo volevamo le stesse cose: la grandezza dell'Italia, l'unità"».

Parola di Otello Montanari, 72 anni suonati, personaggio storico della sinistra emiliana, partigiano combattente, parlamentare del PCI, protagonista nell'agosto 1990 di una iradiddio per avere proiettato anche al di là dei termini della carducciana «Emilia bianca, dura, pulita» una consegna terrificante per chi, nel famoso famigerato «triangolo della morte», ai tempi immediatamente susseguiti alla guerra civile ebbe a macchiarsi di delitti orrendi in chiave non soltanto antifascista ma pure pseudo classista. Il Montanari, uomo di fegato non soltanto sotto il profilo militare, disse e scrisse: «chi sa, parli». Va da sé che, benché uomo immacolato quanto a pedigree morale e politico, con tale inopinata, sconvolgente, onestissima iniziativa si procurò più scontri che incontri. Chi montò su tutte le furie fu Giancarlo Pajetta già reduce da una polemica con la buonanima di Cesare Pavese dopo la scoperta dei taccuini segreti del grande scrittore nei cui fogli c'erano apprezzamenti umani per i combattendo della RSI e interesse «sociale» per il "Manifesto di Verona", tutte cose, per i comunisti alla Pajetta et similes irrimediabilmente blasfeme.

Altra affermazione montanariana degna di nota: «Ai tempi dell'amnistia di Togliatti molti sostenevano che il vero scopo del provvedimento fosse quello di recuperare al PCI i moderati ex-fascisti, sottraendoli così al grande ombrello democristiano. E probabilmente era anche vero. Ma ciò che conta è la sostanza e, oggi come allora, la domanda è la stessa: è giusto o sbagliato facilitare una ricomposizione del nostro Paese? Per me è giusto».

 

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Tali eque, significative, centratissime opinioni l'on. Montanari le ha affidate a "Il Corriere della Sera" incastonandole in una intervista in notevole evidenza firmata da Francesco Alberati. E sarà appena il caso di osservare che trattasi di intelligente escogitazione giornalistica, rapportabile alle ideazioni della componente più creativa del più grande partito della Sinistra e, in particolare, di uomini del livello di Massimo D'Alema e di Luciano Violante.

Superfluo, forse, soggiungere che noi si condivide toto corde la linea di indirizzo dalemiana fondata sulla intenzione -usiamo sue parole, estrapolate da una conversazione avuta tempo fa con un redattore del settimanale "Panorama"- di «pacificare l'Italia» e di contestare tutti coloro cui «gli italiani fanno un po' schifo». Altrettanto lo è, probabilmente, segnalare la nostra gratitudine di italiani che si sforzano di essere degni di tale qualifica per quanto asseverato dal Presidente Violante nel discorso di insediamento alla Presidenza della Camera dei Deputati, nel corso e nel corpo del quale inserì due valori inestimabili: l'assenza nella Costituzione di un diritto alla secessione e la esigenza di comprendere le ragioni di tanti giovani -ma perché non sommare ad essi anche coloro che giovani non erano, nell'accezione strettamente anagrafica del vocabolo?- che all'atto della fondazione della Repubblica Sociale Italiana ritennero di dovere accorrere sotto le sue bandiere.

Orbene, con la sua intervista Otello Montanari porta qualche nuova, preziosissima pietra al cantiere di quella che egli -quasi una divinazione- chiama «ricomposizione del Paese», così superando concetti più limitati e limitanti racchiusi in parole come riconciliazione e «pacificazione», Espressioni, per carità, nobilissime e feconde, che tuttavia danno più la sensazione della instaurazione di buoni rapporti di relazioni magari fraterne, ma che non mettono insieme in un unicum due frazioni, due fazioni, di una Italia pur sempre divisa e non solo sul piano della normale fisiologia democratica. Insomma existi del fascismo e del comunismo cominciano a salutarsi, a darsi la mano, a parlarsi, epperò come usa dire alla popolaresca, ognuno per sé e il buon Dio per tutti.

Certo, si tratta già di un risultato. E di un ragguardevole risultato. Ma noi pensiamo che si possa, che si debba andare oltre per raggiungere, in cooperante fraternità di intenti e di ideali, una nuova frontiera.

 

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Qualcuno, certo, potrebbe chiedersi -magari dopo averci onorato con la lettura di qualche nostro pezzo su questa o altra pubblicazione- come mai pari consenso da parte nostra si sia negato, in modo deciso e reciso, alla cosiddetta «svolta» finiana del '95 e alla relativa replica perfezionatrice di Verona di alcune settimane or sono. Di più: perché mai noi si sia omesso di positivamente rimarcare la presenza in Fiuggi di una delegazione -con partecipazioni partigiane di particolare autorevolezza- del partito Democratico della Sinistra, ivi appuntamentata da Gianfranco Fini per testimoniare di una palinodia tanto enfatizzata quanto generica e strumentale. Propedeutica, si potrebbe ritenere, all'incontro-dialogo di Trieste del Presidente della Camera dei Deputati e di quello di Alleanza Nazionale.

Per quel che concerne la vicenda più fiuggiasca non possiamo che ripeterci: l'operazione non ci convinse perché improvvisata, abborracciata, messa su in quattro e quattr'otto per legittimare, come oggi impropriamente si dice, la immissione di un partito ritenuto ancora per communis opinio «fascista» in una maggioranza più reazionaria che conservatrice, capeggiata da un chiacchieratissimo imprenditore ambiguamente amico di Craxi e Forlani, di inequivoci sentimenti maccartysti spacciati come liberali. E fondata non su di un superamento di ricordi storici, di esperienze politiche, di aspirazioni ideali, di convinzioni dottrinarie «stile Impero», come i salotti vetusti delle nostre nonne, bensì sul rinnegamento cinico, plateale, opportunista di fedi fino al giorno prima vissute addirittura con deplorevole spirito di fazione. Ecco: un inopinato avvivamento trasformistico bello e buono -brutto e cattivo, anzi-, travestito con panni di idealistico pentitismo «antifascista» al solo scopo di cambiare di spalla al fucile con cui sparare contro la Sinistra e le forze progressiste laiche e cattoliche con essa alleate.

Resta un quesito cui rispondere: come mai la Quercia, il partito di D'Alema e di Violante, si è prestata al callido gioco dei Fini e dei Tatarella? E si che, sia il Segretario del PDS che la terza autorità dello Stato, non sono affatto degli sciocchi. Tutt'altro! E allora gli è che la politica di D'Alema è complessa, prismatica, multilaterale e va capita, occorre, cioè, andare oltre il fatto singolo, specifico, ancorchè di ragguardevole importanza, onde adeguatamente valutarla. Insomma bisogna evitare di troppo concentrarsi sull'albero per non perdere di vista la foresta. E per Massimo D'Alema, così come, crediamo, per Luciano Violante, la «foresta» è quella che lui chiama, ripetiamo, «la pacificazione del Paese» al fine di costruire «una Italia normale». Magari intendendo, per «normale», una Nazione nel cui ambito la dinamica democratica non risulti adulterata da un permanente spirito di guerra civile combattuta, diversamente dal conflitto fratricida che insanguinò le contrade del Centro e del Nord più di mezzo secolo fa, a colpi di delegittimazioni, di emarginazioni, di spaccature irrimediabili. La «normalità» su cui l'attuale leadership del PDS modella il suo agire culturale e politico va individuata, pare a noi, nella instaurazione di una dialettica democratica e sociale pura, per così esprimerci; ossia non inficiata e rattenuta da categorie obsolete quali le contrapposizioni fascismo-antifascismo, resistenzialismo-erresseismo, filie tedesche-filie anglosassoni. Tutto ciò è ormai sotto terra, come, del resto, la gran parte di coloro che lo hanno a suo tempo incarnato. D'Alema, secondo noi, ambisce a legare il suo nome a un opera di costruzione della, come dire?, fisiologia della dinamica politica e sociale, fondata non su diatribe relative al passato che passa, contrariamente a ciò di cui si va blaterando, bensì sullo scontro -governato dalla Costituzione- fra ideali, culture, interessi, ideologie (che fortunatamente esistono) omogenei, compatti, concreti.

 

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Alla luce di queste considerazioni, la cosiddetta «legittimazione» di Fini e del suo partito posta in essere dalla massima formazione della Sinistra con attive presenze sia a Montecitorio, sia a Fiuggi, sia a Verona, sia a Trieste, sia con il «dialogo» sulle riforme istituzionali è da riguardare come medaglia che come tutte le medaglie di questo mondo ha due facce. La prima reca l'effigie di D'Alema unitamente a quella di Violante, ed è validissima, l'altra porge i tratti furbeschi dell'ex-pupillo di Giorgio Almirante, passato fra il lusco e il brusco da un sia pur formalistico e contraddittorio intransigentismo fascista di marca pavoliniana-farinacciana a una estemporanea professione di «antifascismo» più conveniente che convincente, propinata in dosi talora omeopatiche talaltra da cura di cavallo a un popolino di plagiati, di stanchi, di delusi, di mussoliniani in rotta di collisione con il noto monito del Duce «noi disprezziamo la vita comoda».

Ci pare di essere stati chiari nel cogliere gli aspetti positivi della linea D'Alema-Violante, tanto più persuasivi in quanto hanno spesso e non volentieri fatto saltare i nervi agli ambienti più o meno intellettuali di propensione «azionista» annidati soprattutto nei salotti radical-chic e in pubblicazioni azionisticamente borghesi sotto il profilo dei contenuti e degli interessi tutelati ed estremisticamente rosseggianti per quel che attiene al linguaggio, alla forma, all'invettiva. Più che mai aspiranti a dittature letterarie e a tirannidi intellettuali minoritarie, a inammissibili culti della personalità, questi liberals ben poco liberali e men che meno libertari non hanno sopportato la propensione dell'attuale gruppo dirigente della Quercia a liquidare il più vecchio e logoro dei pregiudizi azionisti, quello secondo cui fino alla consumazione dei secoli l'orbe terraqueo ha il dovere di dividersi in fascisti e antifascisti.

Ciò detto, non possiamo sottrarci al debito di sincerità totale che abbiamo con il Lettore, per cui ci soffermiamo anche sul prezzo che la Sinistra, paga -e, con essa, perfino la base popolare e socialmente sensibilizzata di quello che fu il MSI- per le varie tappe della «normalizzazione» dei rapporti più con lo Stato Maggiore di Fini che con quel mondo della Destra che di destra, in ottemperanza alla logica e ai dettami della Storia, mai avrebbe dovuto essere. E che su posizioni via via sempre più moderate, conservatrici, reazionarie è stata trascinata mediante un processo di progressivi tradimenti, una volta eliminati dalla cabina di regia, per così dire, vari anni fa, i Giorgio Pini, i Bruno Spampanato, i Manlio Sargenti, gli Ugo Clavenzani, le Maria Pignatelli Cerchiara, i Giuseppe Landi, i Beppe Niccolai, gli Olo Nunzi, i Bruno Ricci, gli Ezio Daquanno, i Giulio Romano, i Pietro Feroglio.

 

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Il primo e il più salato di detti prezzi è nella stabilizzazione pressoché definitiva del potere, della linea, della strategia di Gianfranco Fini e del gruppo dirigente intorno a lui arroccato, mediante la mancata contestazione del ruolo di Alleanza Nazionale, arretrato sotto il profilo sociale e misoneista per quel che attiene alla politica. A meno che, è ovvio, un quid attualmente inimmaginabile, non si incarichi di rompere il malefico incantesimo.

Il secondo è nel vulnus inflitto all'aspetto più significante dello spirito gobettiano proprio mentre dentro la Quercia, per impulso soprattutto del suo leader, si parla molto di una «rivoluzione liberale» da collocare accanto al socialismo. Anche chi possegga solo una infarinatura di cultura politica sa che Piero Gobetti fu il denunciatore appassionato e severo di alcuni fra i mali peggiori che mai abbiano aduggiato l'Italia, in primis, il trasformismo opportunistico, con una certa disinvoltura attribuito alla circostanza della estraneità del Paese alla Riforma protestante. Orbene, ci punge vaghezza di intendere cosa mai potesse pensare il fondatore di "Energie Nuove", di "Rivoluzione liberale, de "Il Baretti" di quel congresso-ingresso nell'antifascismo di chi solo alcuni mesi prima aveva propugnato un «Fascismo del Duemila», sicuramente destinato a passare alla storia, e alle storie e storielle, per lo strumentalismo triviale e cinico del suo andamento e delle sue conclusioni.

Il terzo è nell'isolamento in cui il maggior partito della Sinistra lascia, sterilizzandole, tutte quelle forze presenti pure nella base e nei quadri intermedi di Alleanza Nazionale che non si riconoscono nella prospettiva di destra, ma che, in conseguenza del feeling legittimatore e riformatore col PDS restano prive di interlocutori e, pertanto, sono destinate a girare a vuoto. Anche perché Rifondazione Comunista, più che mai influenzata dalla sub-cultura gruppettara e neo-trotzkysta non si rende conto, soprattutto nella componente che fa capo al senatore Cossutta, che chi agita il Tricolore con la scritta «Italia, Repubblica, Socializzazione», è oggettivamente parente stretto di un partito che incarni la causa del riscatto proletario in chiave antagonista.

Il quarto, infine, è nella impossibilità in cui la Sinistra si è venuta a trovare -causa, appunto, la frettolosità, la superficialità della formale presa d'atto del new deal missino/alleanzista- di condizionare l'instaurazione di rapporti anche a livello interlocutivo elaborativo e collaborativo alla qualità e alla sostanza dell'impegno sociale congruo ad un partito ormai di notevole dimensione popolare. Ma se proprio vogliamo dirci tutta e fino in fondo la verità, dobbiamo riconoscere che l'ostacolo a un eventuale tentativo di collocare il partito di Fini e di Tatarella nella traiettoria programmatica relativa a un disegno di graduale trasformazione della società ora ed è tuttora individuabile in una linea del già Partito della Sinistra Democratica e, dopo le assise di Firenze, Democratici di Sinistra, tutta fondata sulle riforme istituzionali e in alcun modo proiettata nel senso di un'azione riformatrice nell'ambito della società civile, e, dunque, idonea a provocare un «salto» nell'assetto distributivo del potere a favore del movimento operaio e progressista. Insomma: nel pur meritorio lavoro di D'Alema volto al recupero a una piena e attiva partecipazione alla vita dello Stato democratico di cospicui strati di popolo, ciò che è mancato è l'attenzione alla esigenza di dotare l'operazione di adeguati contenuti sociali. In tal modo forse si è allargato il fronte della democrazia, ma, sicuramente si è offerto alle oligarchie reazionarie, su di un piatto d'argento, un'arma abbastanza efficace per la sua inesausta lotta contro i lavoratori, la Sinistra, i ceti progressivi, le spinte popolari.

Sia consentita una volta tanto, a chi redige queste note, la fruizione di una minuscola razione di «cinismo». Per quanto attaccati ai valori di libertà, non spasimiamo d'amore per una destra messa in grado, sulla base di una vera o presunta caratura democratica, di meglio colpire i suoi naturali avversari, fra i quali ci onoriamo di essere anche noi.

Ecco perché, pur grandemente apprezzando lo sforzo dalemiano di «pacificare l'Italia», non saremmo stati troppo dispiaciuti se nel dì della cosiddetta «storica» assemblea di Fiuggi i membri della delegazione del Partito Democratico della Sinistra incaricati di assistere a quella insigne pulcinellata del giuramento «antifascista» del Giovin Signore di Via della Scrofa, fossero andati a fare una bella scampagnata nei Castelli Romani.

Per «legittimare» non dei superatori ma dei rinnegati c'è sempre tempo.

 

Enrico Landolfi

 

 

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