da "AURORA" n° 47 (Marzo 1998)

UN LIBRO PER UN'ANALISI

Il Fascismo nasce a sinistra

Stefano Greco

 

Esame di "Nascita dell'ideologia fascista"
il libro di Zeev Sternhell, Mario Sznajder e Maia Asheri.

 

I trascorsi socialisti di Benito Mussolini sono un fatto conosciuto. Più problematico appare introdurre -stante le interpretazioni dominanti sull'Uomo e la sua opera- elementi scevri da pregiudizi per spiegarne l'evoluzione politica. Mussolini fu un opportunista, un incoerente o, nel migliore dei casi un «convertito» come sostengono gran parte dei suoi denigratori oppure, come sostengono nel loro libro Zeev Sternhell -professore dell'Università ebraica di Gerusalemme- e i suoi collaboratori, il fascismo è uno dei tanti rami dell'albero della sinistra.

Abbiamo una somma infinita di interpretazione: una pletora di storici, sociologi e romanzieri hanno risposto al «problema» fascismo secondo i loro orientamenti ideologici e spirituali, spesso e volentieri condizionati da pregiudizi di varia natura. Non così Ernest Nolte, James A. Gregor, Stanley Payne, Erik Norling e Zeev Sternhell del quale l'apporto rimarchevole al dibattito ci pare quello della valorizzazione di aspetti importanti, fin qui taciuti o non posti nel giusto rilievo.

Sternhell è ritenuto un esperto studioso del nazionalismo francese (con i suoi: "Maurice Barrés et le nationalisme francais", "La droite revolutionarie", "Ni droite ni gauche - l'idéologie fasciste en France") poco incline ai criteri dominanti del «politicamente corretto», non si avventura mai nel pericoloso terreno dei giudizi morali personali e si limita a fornire al lettore il maggior numero di dati possibili ricostruendo con pignoleria il quadro storico in cui le vicende da lui indagate si sono svolte.

Qual'è l'interpretazione del fascismo che emerge dal saggio di Sternhell? Non certo quella della «anomalia» nella storia contemporanea, né l'«infezione» di cui parla Benedetto Croce, nemmeno la risultante della crisi apertasi nel 1914 o la reazione suscitata dall'affermarsi del bolscevismo in Russia come sostiene Nolte. Il fascismo per l'intellettuale israeliano altro non è che un fenomeno politico-culturale che nasce e si afferma godendo di piena autonomia intellettuale (p. 19) e non il prodotto di fattori esterni ad esso. Sternhell, opera una precisa distinzione tra fascismo e nazionalsocialismo; per i tanti aspetti, per lo più sovrastrutturali, che essi hanno in comune ve n'è uno che segna lo spartiacque; il «determinismo biologico». Il razzismo non è un elemento essenziale del fascismo, sostiene Sternhell, gli elementi costitutivi sono altri quali, ad esempio, il «nazionalismo tribale», ossia un nazionalismo basato su un forte sentimento di appartenenza simile alla «terra dei morti» di Barrés e al «sangue e suolo» del nazionalsocialismo. È in sostanza il sentimento organicista dei nazionalismi di inizio secolo latini e anglosassoni, di Maurras, Corradini, Vacher de Lapouge, Treitschke. Anche se la definizione di «tribale» ci suona, personalmente, un po' stonata.

Il fascismo, dunque, altro non sarebbe che una sintesi di questo nazionalismo «tribale» ed «un'organica revisione antimaterialista del marxismo». Una sorta di «scoperta dell'acqua calda» per noi di "Aurora", ma leggerlo in un'opera firmata da uno storico di grande levatura fa un certe effetto. Qui occorre sottolineare gli errori contenuti nelle previsioni di Carlo Marx Per il XX secolo: né la pauperazione né la polarizzazione sociale caratterizzano le società capitalistiche occidentali, al contrario il proletariato tende ad integrarsi culturalmente, politicamente e socialmente in esse. Seguendo l'esempio della SPD, il partito socialdemocratico tedesco, l'insieme del socialismo occidentale tende al riformismo: esso, infatti, pur non rinunciando ai princìpi teorici del marxismo, accetta i valori del liberalismo politico e di conseguenza, seppure tacitamente, l'insieme del sistema di valori da questi stabilito. Solo una minoranza marxista rifiuterà il compromesso: continuerà a professare la più rigida ortodossia; R. Hilferling, O. Bauer, Rosa Luxemburg, K. Liebknecht, Lenin e Trotskji; la gran parte di costoro operano nell'Europa dell'Est. Alle stesso tempo in Italia, come in Francia, sorgono all'interno dei movimenti marxisti correnti anti-materialiste e anti-razionaliste che pongono in discussione la proprietà privata e l'economia di mercato e conservano l'obiettivo del superamento violento dell'ordine borghese, ma ritengono che le teorie del Filosofo di Treviri vadano integrate e in parte superate. Sono i «soreliani», i discepoli di Georges Sorel, il teorico del sindacalismo rivoluzionario, autore delle celebri «Riflessioni sopra la violenza». Le differenze tra i due settori rivoluzionari sono grandi. I primi, austriaci, polacchi, russi continuano a conferire centralità al determinismo economico marxiano, all'idea della necessità storica, al razionalismo e il materialismo, mentre i secondi, i soreliani, iniziano a criticare a fondo la teoria economica marxista iniziando a spogliare il marxismo dal suo contenuto e riducendolo fondamentalmente a una teoria dell'azione. I primi continuano a pensare in termini di rivoluzione internazionale, sostiene Sternhell, «hanno orrore del nazionalismo "tribale" che fiorisce attraverso l'Europa, tanto nelle terre disastrate dell'Est come nei grandi centri industriali dell'Ovest (...) Non hanno nessuna considerazione della comunità nazionale, del suo fervore religioso, delle sue tradizioni, della sua cultura, dei suoi miti, delle sue glorie e delle sue animosità». Invece i secondi comprendono che il proletariato per divenire una vera forza rivoluzionaria deve avere la nazione come mito e anche nel nome di essa lottare per l'abbattimento della classe borghese.

Questa è la tesi fondamentale di "Nascita dell'ideologia fascista", il cui primo capitolo è dedicato all'analisi dell'opera di Sorel che viene da Sternhell definito più che un filosofo, autore di un corpus ideologico chiuso e di una verità originale, una sorta di «lago vivente», ricettore e fonte di idee per la gestazione in corso delle nuove sintesi politiche che si vanno creando. Marx viene integrato abbondantemente da Bergson, Nietzsche e William James. In ogni caso, Sorel, parte dall'interpretazione del pensiero di Marx con l'animo di perfezionarlo e integrarlo, incanalandolo all'interno di una teoria nella quale quella del Filosofo di Treviri è parte di un tutto più ampio. L'Autore delle "Riflessioni", de "Le illusioni del progresso", di "Materiali per una teoria del proletariato", si oppone al marxismo volgare (tale possiamo definire il «determinismo economico») e sostiene che il socialismo è prima di tutto una «questione morale», il sentire la «tramutazione di tutti valori». La lotta di classe è la questione principale solo di conseguenza in quanto essa mobilita il proletariato contro l'ordine borghese. In un contesto sociale nel quale i lavoratori mostrano un alto grado di militantismo sindacale solo un'economia in espansione permette alla classe dirigente di concedere ciò a cui mira la combattività dei salariati, non bastano quindi le analisi economiche né le previsioni razionali sulle concessioni stesse, bisogna agitare il «mito sociale» in cui confluiscano sentimenti, attese e istinti collettivi; i soli capaci di suscitare ed accrescere energie sempre nuove per una lotta i cui risultati prima o poi arriveranno. Come il mito dell'apocalisse per i primi cristiani, quello della «guerra generale rivoluzionaria» sarà per il proletariato esso stesso fonte di mobilitazione ed energia. Con il fervore proprio degli ordini religiosi del passato, con il sentimento di amore e gloria degli eserciti napoleonici, i sindacalisti rivoluzionari, armati del mito, si lanceranno nella lotta contro l'ordine borghese. Alla mentalità razionalista -al socialismo riformista arruolato dalla borghesia liberale- Sorel oppone il mito, un approccio all'azione politica «religioso». La sua critica al razionalismo ci riporta e Descartes e a Socrate, contro i valori democratici e pacifisti, egli rivendica i valori guerrieri ed eroici. Rivendica il pessimismo dei greci e dei primi cristiani, perché solo il pessimismo suscita le grandi forze storiche e le grandi virtù umane; eroismo, ascetismo, spirito di sacrificio. Sorel vede nella violenza un valore morale, un mezzo per rigenerare la «civilizzazione» perché solo la lotta con scopi «altruisti» permette all'uomo di innalzarsi verso il sublime. In quanto la violenza, non è mai la ferocia, la brutalità e il terrorismo, per questo Sorel non nutrirà alcun rispetto per la Rivoluzione francese, «per il potere della ghigliottina» in quanto essa è la somma, il punto più infimo, della decadenza contro la quale Sorel combatte; decadenza nella quale la borghesia minaccia di trascinare il proletariato. Per questo non sorprende che i discepoli del Pensatore francese incontrassero i «nazionalisti integrali» di Charles Maurras nel Circolo intitolato a Proudhon, il grande socialista anteriore a Carlo Marx.

 

Per la sintesi nazionale e sociale

I discepoli hanno ben studiato, sostiene Sternhell. Sono i «revisionisti rivoluzionari», «la nuova scuola» che si è posta l'obiettivo operativo di una sintesi nazional-sociale, senza trucchi e inganni. Tra essi vi è Edouard Berth che ha dato vita al Circolo Proudhon, centro di collaborazione tra sindacalisti rivoluzionari e nazionalisti dagli inizi del secolo al 1914. Attraversata la guerra europea Berth passerà al comunismo, prima di ritornare al sorelismo. Vi è Hubert Lagardelle, editore della rivista "Movimento socialista", uomo d'azione all'interno del partito socialista, ove tenta di affermare le tesi dei sindacalisti rivoluzionari. Prima della collaborazione sorelista-nazionalista Lagardelle è su posizioni del tutto convenzionali e solo nel dopoguerra incontrerà nella redazione di "Plans", espressione del cosiddetto fascismo «tecnico» e alla quale collabora insieme a personaggi del calibro di Le Corbusier, Marinetti. Egli terminerà la sua carriera come Ministro del Lavoro di Vichy.

In Germania agisce il socialista Roberto Michels -il quale sta terminando di scrivere l'opera maestra "I Partiti politici"- che annuncia l'implosione della SPD, il partito di Engels, Kautsky, Berstein e Rosa Luxemburg; «il parlamentarismo uccide il socialismo, è la sua conclusione». Michels osserverà che il solo egoismo economico non basta per portare a termine la rivoluzione; da qui la diatriba sulle possibilità che il socialismo sia attuabile indipendentemente dal proletariato. L'ideale sindacale non implica per forza l'abdicazione nazionale, né un programma nazionalista comporta necessariamente un programma di pace sociale, precisa a sua volta Berth, che non dispera di coniugare i sentimenti rivoluzionari con quelli sociali e nazionali. Infine la «nuova scuola» amplia le idee di Sorel operando, ad esempio, il distinguo tra «produttori» e «non produttori», tra «capitalismo finanziario» e «capitalismo industriale».

Sin dall'inizio i revisionisti-rivoluzionari francesi furono solo dei teorici senza una reale esperienza tra le masse. D'altra pasta era il sindacalismo rivoluzionario italiano (cap. III e IV del libro, ascrivibili a M. Sznajder), già nel 1902 Arturo Labriola milita nella frazione radicale del partito socialista. Con Enrico Leone e Paolo Orano, conduce una feroce lotta contro il riformismo che accusa di sostenere eccessivamente i salariati industriali del Nord a discapito dei braccianti del Sud contadino e porta avanti la tesi che la rivoluzione socialista è possibile solo per mezzo di un sindacato combattivo. Di Sorel hanno recepito essenzialmente l'imperativo etico e il mito della «lotta generale rivoluzionaria».

L'esperienza delle grandi lotte del 1904 e degli scioperi contadini del 1907 e 1908 forgeranno gran parte dei dirigenti del sindacalismo rivoluzionario: la generazione dei Michele Bianchi, Alceste De Ambris, Filippo Corridoni.

Emarginati nel partito socialista e nella sua centrale sindacale, la CGL in cui dominano i riformisti, i rivoluzionari daranno vita all'USI (Unione Sindacale Italiana) che conterà altre 100.000 iscritti nel 1913. I sindacalisti rivoluzionari danno vita ad una serie impressionante di periodici e riviste. In esse Labriola e Leone intraprendono la revisione della teoria economica marxiana, segnatamente la teoria del valore; nel solco delle ricerche dell'economista austriaco Böhm-Bawerk, Sznajder, sostiene che questo è uno degli aspetti più originali del contributo italiano alle teorie del sindacalismo rivoluzionario. In essa si incontra la figura del «produttore» (potenzialmente di tutti i produttori), contrapposta alla «classe parassitaria» di coloro che non contribuiscono processo di produzione. La tradizione anti-militarista e internazionalista, cara a tutta la sinistra europea, non sarà unanimamente condivisa da tutti i sindacalisti rivoluzionari. Infatti, la guerra contro l'Impero Ottomano, per il possesso della Libia, produrrà una crisi profonda all'interno del sindacalismo rivoluzionario; alcuni dirigenti -Leone, De Ambris, Corridoni-, fedeli alla tradizione socialista, si opporranno energicamente a questa impresa, altri (Olivetti, Grano, Labriola) sono per la guerra, tanto per ragioni morali -«scuola di eroismo»- quanto economiche (la nuova colonia contribuirà alla crescita economica dell'Italia e all'elevazione del suo proletariato. Queste ultime posizioni finiscono col coincidere con quelle dei nazionalisti di Enrico Corradini, dai quali però li separa la serrata critica al liberalismo economico. Ma nell'agosto del 1914 quanti, in seno al sindacalismo rivoluzionario, avevano avversato l'impresa libica, si schierano a favore dell'intervento nel conflitto europeo a fianco della Francia e contro gli Imperi Centrali. Vogliono combattere contro il feudalesimo e il militarismo della Germania e dell'Austria-Ungheria e completare l'unità della Nazione, ma vogliono altresì anche armare il proletariato per spazzare via la borghesia. Il 5 ottobre del 1914 un manifesto annuncia la fondazione del «Fascio rivoluzionario di azione internazionalista». Esso è sottoscritto dai principali dirigenti dell'USI e proclama: «Non è possibile porre limiti alla rivoluzioni nazionali (...) Un popolo non può vivere se non nel quadro delle sue frontiere naturali, formate da lingua e razza, finché la questione nazionale non viene risolta, il clima storico necessario per il decollo del movimento di classe non può esistere ...». Nazione, Guerra e Rivoluzione non sono in contraddizione.

Gli autori di "Nascita dell'ideologia fascista" sostengono che, il sindacalismo rivoluzionario deve essere considerato un sindacalismo nazionale, in quanto la nazione per loro ha una funzione primaria. Indistintamente tutti i sindacalisti rivoluzionari vedono nella guerra un mezzo di trasformazione interna: De Ambris, nel '17, ha lanciato la parola d'ordine «la terra ai contadini». Seguito da un programma di espropriazione parziale sia nel settore dell'agricoltura che in quello industriale, con l'obiettivo principale di colpire il capitale speculativo, beneficiando operai e contadini che hanno versato il sangue per l'Unità della Nazione. Si tratta anche di mantenere alta e stimolare la produzione: è il «produttivismo», uno dei fattori di critica del sindacalismo rivoluzionario alla rivoluzione bolscevica, che considerano caotica e distruttiva. Di fronte all'occupazione delle fabbriche durante il biennio rosso del 1920/21, Arturo Labriola presenta al governo Giolitti un progetto che riconosce il diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle Imprese, un Parlamento che rappresenti le «classi organiche» che inquadrino la popolazione. Uno Stato che assegna ai proprietari capaci di produrre il diritto di usare le medie di produzione che sono, d'altra parte, la base del programma di «sindacalismo integrale» proposto da Sergio Panunzio nel 1919.

Alla fine il sindacalismo rivoluzionario si mobilita per l'Impresa fiumana di D'Annunzio (1919-1920). De Ambris partecipa alla redazione della "Carta del Carnaro"; quell'affascinante documento che è la Costituzione della Reggenza di Fiume. Questo è un documento politico in totale consonanza con gli ideali sindacalisti rivoluzionari: per risolvere questione nazionale e questione sociale.

Nelle lotte dell'immediato dopoguerra, sindacalisti e fascisti hanno mantenuto la stessa rotta. Con la Marcia su Roma inizierà la dissoluzione del sindacalismo rivoluzionario. De Ambris passerà all'opposizione e terminerà la sua avventura politica e umana in esilio. Anche Labriola se ne andrà all'estero e solo la conquista dell'Etiopia lo riconcilierà parzialmente con Mussolini. Leone finirà col tornare tra i socialisti, Viceversa Michelino Bianchi sarà uno dei maggiori artefici della conquista del potere. Sergio Panunzio, unitamente ad Alfredo Rocco e Giovanni Gentile, diverrà uno dei massimi teorici del regime. Ad Olivetti, che era ebreo, la morte (avvenuta nel '31) risparmierà l'onta delle leggi razziali. Roberto Michels, già membro della SPD tedesca, occuperà una cattedra all'Università di Perugia e finirà con l'aderire al Partito Nazionale Fascista.

 

La «crociata mussoliniana»

Nella «crociata mussoliniana» (cap. V), vengono segnalati quanti, ad opinione degli autori, male hanno compreso, interpretato o comunque, in larga misura, sottovalutato la figura e l'opera di Benito Mussolini, sminuendone la dimensione rivoluzionaria.

Il futuro Duce, infatti, «è colui che porta la dissidenza di sinistra alla rottura (...) Un capo». Un uomo d'azione, un leader carismatico, «brutale e scrupoloso», epperò col vezzo dell'intellettuale, capace di trattare con gli artisti e di guadagnarsi la stima di uomini come Filippo Tommaso Marinetti (fondatore del Futurismo), Roberto Michels (l'antico militante del socialismo tedesco) e Benedetto Croce, rappresentante ufficioso della cultura «accademica» italiana presso il fascismo. Nella sua evoluzione umana e intellettuale, sostengono Sternhell e i suoi collaboratori, non vi è il rinnegamento di nessuna verità, nessun opportunismo, nessuna congiuntura di guerra.

Da giovane è stato indubitabilmente un marxista. Un marxismo poi rivisitato grazie all'influenza di Labriola, Leone e soprattutto di Sorel, il vero antidoto contro la perversione socialdemocratica (alla tedesca) del socialismo. Altra influenza decisiva è quella di Vilfredo Pareto e la sua teoria della circolazione delle élite.

Il socialista Mussolini, sin da giovane, si situa «nell'orbita del sindacalismo rivoluzionario» anche se, sul piano tattico, non condivide le strategie dei dirigenti sindacali che vedono nelle organizzazioni economiche il solo mezzo di lotta e sottovalutano il Partito come strumento rivoluzionario. È nelle lotte di piazza contro la guerra di Libia che Mussolini esce dall'ambito provinciale (egli, come tanti socialisti, è convinto che lo Stato borghese ha scatenato la guerra allo scopo di disinnescare una situazione interna pre-rivoluzionaria) ma già un anno dopo è protagonista al Congresso di Reggio Emilia imponendosi, con la sua pressante e irruente oratoria, come personaggio emergente del PS.

Con la direzione de "l'Avanti!" diviene l'indiscusso leader della sinistra rivoluzionaria e agisce per imporre, attraverso articoli, conferenze e comizi, una revisione critica dell'ortodossia marxista: «la classe operaia deve modellare la storia» (non subirla); valorizza l'idea di nazione: «non esiste un solo Vangelo socialista al quale tutte le nazioni debbono conformarsi pena la scomunica» sostiene alla vigilia della guerra europea. Alla fine del 1913 il direttore de "l'Avanti!" inizia le pubblicazioni di una rivista con la quale intraprendere nella massima libertà «la revisione rivoluzionaria del marxismo». In essa si riuniscono tutti gli anti-conformisti (futuri comunisti), Tasca, Liebknecht, Bordiga, futuri fascisti come Panunzio e futuri fascisti dissidenti come Labriola. Tutto ciò senza perdere il contatto con le grandi masse proletarie. Nel giugno del '14, Mussolini si convince della possibilità di un'insurrezione generale e si butta a capofitto nella «Settimana rossa» tra la generale disapprovazione della direzione del PS.

Ma i tempi sono maturi e le discrepanze macroscopiche fra il Rivoluzionario romagnolo e il vertice del partito socialista esploderanno con inusitato clamore di lì a qualche mese. L'editoriale de "l'Avanti!" (ottobre 1914), nel quale Mussolini chiede al PS l'abbandono della «neutralità assoluta» in favore di una «neutralità attiva e operante», produce un effetto devastante. Nonostante i vari tentativi espletati dalla direzione socialista, Mussolini non rinnega quanto scritto e qualche mese dopo viene espulso dal partito. La guerra in nome della Nazione tempra il nazionalismo mussoliniano ma in modo del tutto diverso -avvertono Sternhell ed i suoi collaboratori- sul nazionalismo classico «proprio della destra». Le «realtà nazionali esistono» e le analisi marxiste mostrano tutti i loro limiti (le classi lavoratrici di Francia, Inghilterra e Germania hanno già entusiasticamente marciato verso le frontiere). Anche se Mussolini non rinuncia e nessuno degli obiettivi del socialismo, già inizia a collocarli nell'ambito di un socialismo nazionale che è poi, soprattutto, il «socialismo dei combattenti» dei «milioni di lavoratori che torneranno ai solchi dei campi dopo aver vissuto i solchi delle trincee e daranno vita alla sintesi della antitesi di classe e nazione». Non sarà nemmeno la rivoluzione bolscevica a spingere Mussolini nelle braccia della destra, insistono gli autori, dato che l'essenziale del suo pensiero si è costituito molto prima dell'ottobre del 1917; idee di gerarchia, disciplina e di collaborazione di classe quale condizione della produzione.

I Fasci Italiani di Combattimento, fondati nel marzo del '19, sono portatori di molte idee del sindacalismo rivoluzionario e si collocano, comunque, all'«interno della sinistra»: suffragio universale per entrambi i sessi, costituzione di una milizia nazionale, senato legislativo formato dalle categorie produttive, giornata lavorativa di otto ore, confisca dei profitti di guerra. Solo col biennio rosso (1920-1921) il fascismo si schiera a difesa di industriali e agrari; nelle sue fila sono andate affluendo le classi medie, specie i giovani ufficiali dell'esercito appena smobilitato. Il Partito Nazionale Fascista, come tale organizzatosi nel 1921, si colloca indubitabilmente a destra, commenta Sternhell: «Questa mutazione non può non ricordarci quella del partito socialista all'alba del secolo: virare a destra, costituisce un preciso esito abituale». Mussolini, uomo realista, ha ben valutato sia il significato dell'occupazione «rossa» delle fabbriche che l'azione nazionalista di Fiume, decide di mettersi a capo della sola rivoluzione possibile, forse sottovalutandone i rischi. Così, nella prospettiva degli autori, la presa del potere del Capo fascista non è il risultato di un «colpo di Stato» ma di un processo di penetrazione nella società italiana. L'adesione ampia della classe media, di gran parte degli intellettuali e dei centri di potere permisero a Mussolini di conquistare il «Palazzo» e di gestirlo. Sintomatico l'atteggiamento del sen. B. Croce che confortò col suo voto la politica del Primo Ministro sino al giugno del '24, allorché il «caso Matteotti» fu causa della grande crisi del regime e Mussolini rischiò di essere, da un momento all'altro, esautorato da un intervento del Re, come poi accadde nel luglio del '43. Croce riteneva esaurito il tempo del fascismo e si era convinto del rapido ritorno alla «normalità» giolittiana.

L'idea dì Stato è l'ultimo elemento dell'ideologia fascista che prende forma. In tutti i casi Sternhell insiste che la filosofia del fascismo non nasce con la presa del potere, ma col potere solo si incontra: «l'azione politica di Mussolini non è il risultato di un pragmatismo grossolano e di un opportunismo volgere come lo fu quella di Lenin». Il giurista Alfredo Rocco ha codificato e tradotto in leggi i princìpi fascisti (visione organica della nazione, affermazione della supremazia della collettività sul singolo individuo, rifiuto totale della democrazia liberale). Epperò quello fascista è uno Stato che non si riduce a sola espressione giuridica e politica, infatti non rinuncia alla gestione economica e alla statalizzazione nei settori chiave. Non è comunque uno Stato totalitario.

Certo il fascismo regime conserva poco del fascismo diciannovista e quasi nulla del sindacalismo rivoluzionario del 1910 ma, si domandano gli autori, «il bolscevismo al potere rifletteva esattamente le idee, a dieci anni dalla presa del Palazzo d'Inverno, che animavano Plekhanov, Trotskji e Lenin? Il fascismo ha avuto un'ampia evoluzione (involuzione, diremmo noi) eppure nonostante tutto, concludono i tre autori, nel regime mussoliniano degli Anni Trenta vi è parecchio di più del sindacalismo rivoluzionario e del Circolo Proudhon di quanto non vi sia dei fondamenti marxisti nell'Unione Sovietica staliniana.

 

L'«incanto segreto del fascismo»

Nella conclusione Sternhell volge lo sguardo ai rapporti fra il fascismo e le correnti culturali d'avanguardia: il "Futurismo" affiancò i Fasci interventisti nel '14 e Marinetti partecipò alla fondazione dei Fasci di Combattimento nel '19; il "Vorticismo", lanciato a Londra da Ezra Pound e Wyndham Lewis era in qualche misura una replica del Futurismo e così espresse le sue ragioni essenziali: «Siamo contro il fronte della decadenza, dell'accademismo, dell'estetismo immobile, della tiepidezza, del mollicciume generale. Abbiamo voglia di ordine ed energia e un obiettivo: guarire l'Italia e l'Inghilterra dalle loro languidezze ...».

Di Pound si conosce l'opzione politica. Sternhell parla di Thomas Edward Hulme, maestro di Pound, di Lewis, dì Yiats e di Eliot. Classica è la cultura anti-romantica del traduttore inglese di Bergson e Sorel. Di Sorel resta una descrizione magistrale che vale le pena di riportare: «Un rivoluzionario che è antidemocratico, un assolutista nell'etica, uno che rigetta tutto il razionalismo e tutto il relativismo, che fa caso all'elemento mistico delle religioni, che sa che non morirà mai, che parla con disprezzo del modernismo e del progresso e utilizza un concetto come l'onore, vive perlomeno nell'irrealtà».

I valori presenti nel Fascismo toccarono la sensibilità di molti europei. Pochi sanno che Siegmund Freud nel 1933 salutava in Mussolini «l'eroe della cultura».

"Nascita dell'ideologia Fascista" ha una dignità che non sempre si incontra nei vari studi sul tema. Altri studiosi, storici, filosofi e operatori politici possono discutere sulle tesi sostenute dagli autori. Da parte nostra facciamo solo alcune considerazioni.

La prima: è evidente da come Sternhell scrive del fascismo latino, ad esempio delle correnti anticonformiste sorte in Francia e Italia, che egli pone in discussione molte delle certezze della storiografia ufficiale. Ad esempio, fascismo italiano e nazionalismo tedesco sono due fenomeni completamente diversi (tale è anche la tesi di De Felice). Il nazionalsocialismo solo genericamente può essere definito fascismo (questo è anche il punto di vista di Nolte, Payne, E. Weber e tanti altri). Il Nazismo fu essenzialmente antimoderno, anche quando assunse aspetti contingenti di radicale modernità. Gran parte dei dirigenti nazionalsocialisti non avevano origini e trascorsi anche genericamente di «sinistra» (come la stragrande maggioranza della dirigenza fascista) anche se risultò più attraente del fascismo per quanti avevano militato nelle filo comuniste ( Payne, "Il Fascismo"; Nolte, "La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo").

Il fascismo nasce a sinistra da una profonda revisione del marxismo e si costituisce in corrente politica e intellettuale indipendente alla quale concorrono l'influenza di Nietzsche, il pragmatismo di James, l'intuizionismo di Bergson, il nazionalismo e altro. Di certo queste influenze non sono l'obiettivo dello studio di Sternhell ma possono suscitare la domanda se siano state rilevanti rispetto alle origini (marxiste) tanto da rendere queste del tutto irrilevanti. Ne può mancare una riflessione sull'altro «ramo eretico», quello riformista, che considerava il marxismo come una chiesa con relativo obbligo di fedeltà, anche se solo formale. Così come l' evoluzione politica del dopo '89 ci porta ad amare considerazioni sulla vera natura del marxismo duro e puro, quello per intenderci incarnato dal PCI e dalle frange sedicenti estreme: costoro si sono accomodati, in grande maggioranza, e senza alcuna remora «ideologica», in coda alla trionfante ideologia neoliberista. Sembrano appagati dal trionfo di quello che era il loro mortale nemico. Viceversa gli eredi del «revisionismo rivoluzionario» mantengono intatti i valori antagonisti alla società borghese.

In verità un fatto è conoscere la componente irrazionale dell'anima umana altro è agire irrazionalmente in politica. Sternhell ha il merito di rifuggire dall'approccio moralizzante nell'analizzare la spinosa questione storica anche se in conclusione del suo lavoro sembra avvertire il pericolo dell'irrazionalismo: «Quando l'irrazionalismo diviene uno strumento politico, un mezzo di mobilitazione delle masse, una macchina da guerra contro il liberalismo, il marxismo e la democrazia; quando si associa ad un intenso pessimismo culturale, quando va di pari passo con un culto pronunciato della violenza e delle élite realizzatrici, allora il pensiero fascista fatalmente prende forma».

La domanda di fondo rimane comunque inevasa: solo i valori politici del liberismo sono dunque legittimi; solo l'ottimismo edonista -quello che tanto poco, ci pare, Sternhell mostra di apprezzare!- può essere la sola prospettiva culturale possibile?

Domande alle quali la scienza storica non può rispondere. Esse, fortunatamente, rientrano ancora nel campo delle opzioni umane.

Stefano Greco

 

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