da "AURORA" n° 49 (Giugno 1998)

I GRANDI DEL SECOLO

L'eredità di Jünger

Francesco Moricca


 

«Quando si rese conto che a nulla serviva il valore contro la massa, Perseo si decise: "Poiché siete voi a costringermi, ricorrerò al nemico per aiuto. E se qualcuno qui è mio amico, volga altrove lo sguardo!" e trasse fuori la testa della Gorgone. "Trova qualcun altro da spaventare con le tue misteriose minacce!" ribattè Tiscelo e già aveva in mano, pronto a lanciare, un giavellotto mortale; ma fu bloccato in quel gesto e tramutato in statua di marmo»

Ovidio, "Le metamorfosi", 1.V

 


 

Una lunghissima vita che riesce ad attraversare indenne il periodo più tempestoso del tempestoso Novecento, è di primo acchito l'eredità più considerevole che ci ha lasciato Ernst Jünger. I quasi 103 anni di questa vita Egli gli ha vissuti sempre in prima linea anche quando ha preferito «mettersi da parte». Ha aiutato la «tirannide» senza trarne vantaggi e ciò è stato apprezzato dal «barbaro tiranno», che almeno in questo -non si può negarlo- ha smentito la fama ormai consolidatasi di essere la «quintessenza del Male» il che, per le «menti pie o illuminate», è ancora dire poco. Quando ancora le sorti della guerra erano favorevoli al «Tiranno», Jünger gli lancia una provocazione letteraria che è anche un atto di sfida e una minaccia come dimostrerà di lì a poco: è il libro che alcuni ritengono il suo capolavoro, "Sulle scogliere di marmo". Il «Tiranno» prende atto e «stranamente» lascia l'Autore indisturbato. Di più, dopo l'attentato del conte von Stauffemberg, ne depenna di suo pugno il nome dalla lista dei congiurati. Così Jünger, la cui responsabilità nella congiura è pari a quella del Feldmaresciallo Rommel, è sottratto alla morte, mentre altrettanto non accade al Feldmaresciallo, al quale comunque è concessa una morte onorevole.

Il comportamento del «Tiranno» (le cui ragioni sono chiarissime per chi sappia vederle) costituì secondo noi un caso di coscienza che Jünger tenne ben celato nel chiuso del cuore, come una spina sanguinante «oltre la linea» della morte, ferita mai rimarginata fra le circa ottanta che segnavano il corpo del «giovane incartapecorito», di quell'eterno giovane che è adombrato come destino nel cognome Jünger.

Quanto detto e quanto stiamo per dire, non va tuttavia interpretato in senso romantico. Noi non siamo romantici e nulla è più distante dalle nostre intenzioni del ricorrere a suggestioni romantiche per «rendere presentabile» un autore irriducibilmente e deliberatamente «scandaloso» come Jünger: «scandaloso», si badi, non per comportamenti scandalosi, ma per le virtù, umane e «oltre-umane», che rappresentano il massimo dello scandalo secondo i parametri «morali» correnti, tanto che ci si rifiuta persino di qualificarle «scandalose» e le si schernisce come «idiozie» neanche dostoevskijane.

 

L'immaginario e la tecno-scienza

Se talvolta, guardando come va il mondo, si sta per essere travolti dal pessimismo e si arriva al punto di augurarsi una esistenza che non superi la soglia della vecchiaia, a chi abbia letto Jünger può capitare di sentirlo vicino. Egli ci guarda senza parlare, poi scrive su un biglietto il numero «102». Ce lo fa vedere, mentre la sua immagine si dissolve e resta materializzato solo il biglietto. Si, il biglietto lo avevamo scritto noi, ci era solo parso di vedere il fantasma di un vecchio ancora energico e con la testa che ricorda curiosamente quella di una pecora. Quale controsenso per un eroe! Ma le cose stanno proprio così e la realtà ha una logica che se non sappiamo comprendere dobbiamo comunque accettare. Ancora vediamo. Vediamo Jünger giovinetto sbucare dalle trincee del Fronte occidentale con l'elmo calato sugli occhi. La sua «vista» fora l'acciaio della visiera e devia il piombo della mitraglia. Mentre stiamo per cadere, noi più «infangati» che laceri e sanguinanti, la sua mano candida e nervosa si tende a sostenerci. Riprendiamo così la nostra corsa nelle «tempeste del Nulla». Nella nostra «presunzione», ci sembrano più mortifere di quelle «d'Acciaio». Ricordiamo il saggio jüngeriano del '53 sull'«attraversamento del nichilismo», "Oltre la linea", e il controcanto di Heidegger nella risposta su "La questione dell'Essere". Ricordiamo che Heidegger, nonostante cerchi in ogni modo di frenare lo slancio eroico dell'amico, si lascia andare ad espressioni come «nello svanimento e nella riduzione si mostra solo ciò che un tempo era presente, e che la volontà di volontà non ha ancora colto», oppure «l'essere umano è disposizione all'ascolto, perché appartiene all'ingiunzione che chiama, all'essere-presente. Questa cosa che ognora si annuncia come la stessa, questa coappartenenza di chiamata e ascolto, sarebbe allora l'«essere»? Che cosa dico? Non è più affatto «essere», se tentiamo di pensare fino in fondo l'«essere» così come esso domina secondo la sua destinazione, cioè come essere presente (nel Nulla), e in questo modo soltanto (opponendo anche sanguinosamente il nostro «esserci» al Nulla) noi corrispondiamo alla sua essenza destinale» (corsivi nostri).

Possiamo così, perché lo dobbiamo, riprendere la nostra offensiva nelle «tempeste del Nulla» verso reticolati, campi minati, trincee, dove è schierato il Nemico Senza Nome. Nella nostra incondizionata obbedienza il nostro «esserci» diventa l'«essere» stesso, è sciolto dal limite «umano» e può resistere a qualsiasi colpo, perché il colpo può al massimo distruggere l'«esserci», ma giammai quell'«essere» che il nostro slancio ha «ridestato». In ciò e soltanto in ciò è la causa vera, non accidentale e «naturale», della longevità di Jünger, anzi del fatto che nessuna delle ferite ricevute sia stata tale da ucciderlo; neanche quella mortale di cui si parla verso la fine di "Nelle tempeste d'acciaio", neanche quella inflittagli dalla generosità del «Tiranno».

Poiché -come sostiene anche Heidegger- il rapporto fra «esserci» ed «essere» è sempre identico e indipendente dal finire del tempo e cioè da qualsiasi condizionamento storico, l'esistenza eroica è possibile anche nella dimensione tecnicizzata della «guerra di materiali» dove il fattore umano sembra sparire del tutto, ma sparisce in effetti solo perché l'uomo non presta più «ascolto» all'«essere» che è tuttavia «presente», parimenti come «oscuratosi» e «ignorato».

Il nuovo eroe della «guerra di materiali» del primo Conflitto Mondiale (prefigurazione della «guerra economica» della mondializzazione «matura» del Terzo Millennio) è secondo Jünger l'«Operaio», versione nazionalbolscevica del «Proletario» marxiano tanto distante dal proletario imborghesito della IIª Internazionale quanto assai prossimo al proletariato «sovietico» e rivoluzionario; al limite anche «stakanovista», di Lenin. Il nazionalbolscevismo e la «rivoluzione conservatrice» a cui Jünger offrì un fondamentale contributo teorico, sono tutt'altro che espressioni di un retorico ossimoro. Non considerando Jünger, essi si realizzarono nella «prassi» di un von Salomon e nella «teoria» di uno Spengler, il cui brevissimo "Socialismo prussiano" non è altro che l'indicazione lapidaria e il comando (la parola che precede la prassi e senza cui non può «esserci» prassi) conclusivi dello sterminato e «dispersivo» "Tramonto dell'Occidente". Nessuno può negare, infine, che non vi sia un rapporto di causa ed effetto fra le tesi nazional-bolsceviche della «rivoluzione conservatrice» e il «mostruoso» patto Molotov-Ribbentrop; né va dimenticato che Mussolini concepì fin dall'inizio il ruolo strategico dell'Unione Sovietica in maniera molto diversa da Hitler, assai più articolata ideologicamente di quella del più potente collega, il quale, «benché tedesco, aveva capito poco o niente della rivoluzione conservatrice».

Nazional-bolscevismo, e «rivoluzione conservatrice» (che indubbiamente influirono su un personaggio per niente «atipico» come Bombacci) sono in realtà ipotesi di una nuova epistemologia totalitaria (quindi politica) che fu possibile inverare fra le due guerre mondiali sia pure parzialmente e fra contraddizioni anche molto stridenti; ipotesi che è possibile inverare ancora nel Terzo Millennio, in conseguenza delle condizioni venutesi a determinare con la caduta dell'Impero sovietico, col venir meno di uno dei poli su cui si reggevano gli equilibri geopolitici mondiali dopo il 1945.

A meno che non si voglia relegare l'antagonismo fra le anticaglie ottocentesche più o meno «romantiche», ivi comprendendosi quanto di più serio e altresì scientificamente fondato vi è nel marxismo-leninismo (e qualsiasi vera scienza non può ignorare il significato della dialettica nello stesso metodo sperimentale), l'ipotesi nazional-bolscevica sembra proprio essere l'unica valida, quanto meno a correggere le storture innegabili del «trionfo» del capitalismo, storture che possono essere percepite nella loro esatta misura considerando che il ritorno del capitalismo alla sua forma classica settecentesca, nel Terzo Millennio, sarà supportato da una tecno-scienza assai più funzionale alla «pura» legge di mercato che non quella settecentesca.

Secondo la nostra prospettiva, però, questo aspetto essenziale dell'eredità che Jünger ci ha lasciato, è secondario rispetto all'altro della riproposizione dell'ideale eroico come veramente centrale, originario, «primordiale». Abbiamo voluto citare dei passi heideggeriani per dimostrarlo, onde dissipare ogni sospetto che il nostro dire sia ispirato, nonostante la «patina» di compostezza, da una concezione del mondo sostanzialmente «barbarica», «guerrafondaia», sinistramente e irriducibilmente «fascista». La heideggeriana «questione dell'essere», se ingloba i problemi più scabrosi dell'«esserci» come fascisti (che non si camuffano sotto il vello di una pecora), va tuttavia ben oltre, in quanto obbliga moralmente il fascista a confrontarsi con l'«essere», un Essere che egli non può né deve identificare in un Dio confessionale che lo «tranquillizzi», che lo sottragga dalla costante consapevolezza dell'abisso esistente fra «essere» e «tempo», fra «essere» e «storia», fra «essere» e «nulla»: un abisso che noi abbiamo il «compito» di superare se sappiamo «metterci in ascolto», non solo col «sangue», ma anche col «sangue», se necessario. Questo noi vogliamo dire a quanti vedono nella cosiddetta «emigrazione interna» di Jünger, Heidegger, Benn una «manifestazione larvata di antifascismo». Essi rimasero in Germania, in realtà, perché volevano portare avanti e perfezionare correggendola, anche molto decisamente nel caso di Jünger, una rivoluzione che essi ritenevano la loro rivoluzione. Il Tiranno non li schiacciò perché, nonostante tutto, li comprendeva, li onorava, fino a un certo punto sentiva di avere bisogno di loro.

È il caso, a questo punto, di citare lo Jünger del "Manuale del Ribelle", un libro del '51 che alcuni giudicano superato. Quanto di seguito riportiamo va messo in relazione ai brani heideggeriani più sopra riportati, tenendo conto che Jünger, che pure aveva partecipato attivamente alla congiura di von Stauffemberg, non salutò la restaurazione della democrazia in Germania come una «liberazione». Se le "Scogliere di marmo" sono rivolte contro la tirannide (il tralignamento dalle «origini») del nazismo, il "Manuale" è rivolto contro la tirannide delle democrazie occidentali, è un documento importante di una «resistenza» che si collega criticamente a quella che suole definirsi «resistenza nazista» e che diede qualche seria preoccupazione agli Alleati durante il processo di Norimberga.

«Nessuno contesta che il mondo è cambiato, e che, inevitabilmente, continua a cambiare ma, insieme, cambia anche la libertà: non la sua natura, ma la sua forma. Viviamo nell'epoca dell'Operaio; sono convinto che questa tesi col passare del tempo è diventata più chiara».

Quanto alla «via del bosco», versione rivoluzionario-conservatrice e nazional-bolscevica della «resistenza nazista» come «guerra dopo la guerra» di formazioni di guerriglieri addestrati alla lotta urbana ed extra-urbana (si pensi ai «Lupi Mannari»), Jünger, nella prima parte del "Manuale" che ne costituisce l'impianto teorico, fa delle considerazioni sulle quali la critica ci sembra non si sia sufficientemente soffermata.

«La via del bosco crea all'interno di quest'ordine (dell'era dell'Operaio) il movimento che lo differenzia dai modelli zoologici. Non si tratta (...) di un gesto romantico, bensì di uno spazio d'azione per piccole èlites consapevoli delle necessità del tempo, e non di questo soltanto».

Infatti, chi prende la «via del bosco» -l'obiezione è rivolta ai potenziali «Lupi Mannari»- «ancora non può dirsi un Ribelle. Dal punto di vista storico, egli è anzi in ritardo (...). Solo se domina la partita dall'alto, potrà compiere mosse originali, forse addirittura sorprendenti (per il nemico). Prima di ogni altra cosa, dovrà liberarsi delle vecchie idee sulla maggioranza (ancora sopravviventi presso il nazismo come quelle relative alla zoologia) che ancora non sono scomparse, sebbene già Burke e Rivarol le abbiano sottoposte a una critica minuziosa. In quel contesto una minoranza dell'uno per cento non ha alcun peso».

Tuttavia, nonostante la critica della democrazia rappresentativa sia in Jünger e nei colleghi nazionalbolscevichi assai più agguerrita che non in Burke e Rivarol, Jünger a differenza di Evola ammette che per il Ribelle l'esercizio del «diritto di voto» abbia una sua importante funzione etica. In ciò egli si distingue altresì dai marxisti-leninisti, per i quali l'esercizio di questo «diritto» ha solo una giustificazione «politica» in vista dei suoi effetti «rivoluzionari», non ha valore in sé di testimonianza morale. I marxisti-leninisti non pensano affatto di mettere in discussione la segretezza del voto. Jünger invece la respinge drasticamente, perché è essa a svuotare di eticità l'espressione del voto, che, assieme ad altre forme di pubblico dissenso, si addice al Ribelle per «gridare le ragioni dell'essere», quando altri tipi di «milizia» siano impraticabili ovvero controproducenti. Contro il nazismo in generale e non solamente contro le illusioni cieche e fanatiche dei «Lupi Mannari», come, parimenti, contro le falsificazioni della democrazia rappresentativa, Jünger afferma con chiarezza massima:

«È qui (nell'espressione pubblica del dissenso, anche mediante il voto palese) che dobbiamo cercare se vogliamo trovare quei singoli che, nei periodi, magari anche lunghi, di puro dominio della forza, pur con notevole sacrificio personale conservano la nozione del diritto. Anche quando tacciono, sono scogli sommersi intorno ai quali le acque continuano ad agitarsi. Essi dimostrano infatti che una forza predominante, se pure riesce a modificare il corso della storia, non può creare diritto» (corsivi nostri; cfr. "Manuale", Adelphi, 1994, pp. 1-30).

Un altro passo, infine, sulla precisa definizione dei limiti teoretico-pratici dell'«ossimoro» nazional-bolscevico:

«La Germania di oggi (degli Anni Cinquanta) pullula di spodestati e di diseredati; da questo punto di vista è il paese più ricco del mondo. Una ricchezza che non si può investire bene o male. Ogni movimento che faccia leva sui diseredati ha in sé una grande forza d'urto; ma nello stesso tempo c'è da temere che essa porti soltanto a una diversa distribuzione dell'ingiustizia» (op. cit., p. 122).

 

Il volto della Gorgone

La resistenza ad oltranza contro la tirannide intesa come un ordine senza diritto, fondato esclusivamente sulle leggi fisiche che governano la natura (la «massa» umana come trasposizione nel campo della sociologia e della politica di un concetto che appartiene alla meccanica e che ha un ruolo assolutamente preponderante nelle democrazie rappresentative occidentali, e maggiore di quanto ne abbia avuto nonostante tutto presso i regimi totalitari del XX secolo), è concepita da Jünger secondo modalità che non si limitò a teorizzare ma applicò come disciplina della sua personale esistenza. Esse non escludono i mezzi violenti: lo dimostra la partecipazione alla congiura di von Stauffemberg in nome della «Prussia eterna» e, prima ancora, la partecipazione volontaria alla Iª Guerra mondiale fra i reparti speciali. Ma sono anche, anzi principalmente, modalità che operano «in interioritate hominis». La guerra stessa, per Jünger e per il prussianesimo, è una prova spirituale che continua ad essere possibile nonostante la meccanizzazione dei conflitti contemporanei e le loro preponderanti finalità economiche. Non lo pensa solo Jünger: basti pensare al bellissimo film del pacifista Renoir, "La grande illusione" i cui principali protagonisti, il maggiore tedesco e il capitano francese, rappresentano appunto la «Prussia eterna» (l'aspetto «trasumanante» più che «umano» della guerra) che all'internazionalismo proletario oppone una sorta di internazionalismo aristocratico sia pure concepito nell'ottica riduttiva, perché troppo realistica, dell'intellettuale borghese (e va ricordato che il film ricevette nel '37 la prestigiosa Coppa Volpi al festival di Venezia, nonostante l'opposizione ottusa di alcuni gerarchi).

Quando Jünger «ripone nell'armadio» l'uniforme di Ufficiale delle Truppe d'Assalto, finita la guerra, si dà allo studio delle materie scientifiche e si laurea in scienze naturali a Lipsia. Viene in Italia, a Napoli, per un corso di specializzazione nel prestigioso Acquario. Questi studi intensissimi permettono a Jünger di comprendere la sua esperienza della guerra, di comprenderla nei termini della «scienza» epperò sulla base di una «conoscenza del primordiale» che gli si era rivelata nelle distruzioni immani del Fronte occidentale, evocatrici dei più sconvolgenti cataclismi che si verificarono in epoche remote, quando la Terra e la natura cominciarono ad assumere l'aspetto che hanno oggi, e che tuttavia è destinato ancora a cambiare per effetto della tecnica più che per l'opera della natura. Sono quindi questi studi, immediatamente precedenti l'impegno politico e l'adesione, assieme al fratello Friedrich Georg, al nazional-bolscevismo, il substrato «scientifico» de "L'Operaio". Non solo l'esperienza bellica del «primordiale» conferirà alla «scienza» un autentico valore gnoseologico, ma trasformerà i contenuti «scientifici» in espressioni artistiche di una classicità dalle «forme» completamente inedite e «futuriste».

Questo collegamento fra «scienza» e arte, vita e politica (politica rivoluzionaria e perciò esente da ogni facile irenismo più o meno quietistico), giustifica pienamente il fatto che alcuni critici abbiano visto in Jünger il Goethe del XX secolo: persino a livello della giovanile adesione di Goethe allo Sturm und Drang, e per quanto al Goethe mancò -e fu una lacuna di entità non lieve- di militare in formazioni come le Sturmtruppen. Fra il goethiano «fenomeno originario» e lo jüngeriano «primordiale» esiste una sostanziale consonanza, come attestano gli studi di Gottfried Benn -altro illustre «emigrante interno»- su Goethe e la scienza.

Alla luce delle sue previsioni di largo respiro che ricordano Goethe, in una delle sue interviste recenti Jünger, ai pessimismi catastrofici rispondeva che, se il XX Secolo era stato il «secolo dei Titani», il XXI sarebbe stato sicuramente quello «degli Dei». Il senso di questa previsione che Evola avrebbe giudicato «incauta», dovrebbe essere che la «possibilità», in quanto pensata e voluta, non è più una mera astrazione dell'intelletto. Se gli uomini, invece di bamboleggiare in divagazioni patetico-edonistiche in cui rientra perfettamente a capello il desiderio di «non giungere alla vecchiaia», sanno tener fermo «col loro elmo ben piantato sulla testa», la «possibilità» finirà con l'inverarsi prima o poi per una necessità che appartiene a un dominio esulante, proprio secondo la visione goethiana del «fenomeno originario», dalla semplice «fede» soggettiva degli individui. E ciò perché costoro, come dice Heidegger, si sono «messi in ascolto».

In questa prospettiva le tesi esposte ne "L'Operaio" potrebbero vedersi come un aggiornamento del concetto di «fenomeno originario», uno studio non solo fenomenologico delle nuove funzioni che esso viene ad acquistare in una civiltà ultra tecnicizzata ma non per questo necessariamente «disumanizzante»; a patto, però, che il supremo comando venga detenuto da un nuovo tipo umano: quello dell'«operaio» inteso come «soldato del lavoro», come uomo prussiano.

E qui siamo ben oltre le ingenuità passatiste e «fisiocratiche» dell'hitlerismo, con tutto il corteggio che ne derivò in ordine a una certa prassi di «selezione naturale» e di «ingegneria genetica».

Al riguardo, dobbiamo denunciare, con la massima decisione e non concedendo attenuanti di sorta, il comportamento inqualificabile del Parlamento europeo, il quale, servo del Mercato e docilissima marionetta di gruppi multinazionali di industrie farmaceutiche e alimentari, ha votato una legislazione disciplinante i brevetti delle «nuove tecnologie genetiche» e del «trapianto di organi umani», i quali ricordano molto e non tanto ricerche effettivamente condotte dagli scienziati nazisti, quanto la demonizzazione strumentale con cui esse sono state presentate da cinquant'anni a questa parte. Non solo oggi non esiste uno Jünger e un «partito prussiano» che osi opporsi sia pure solo con la parola al Nuovo Tiranno, ma questi sicuramente non avrebbe per costoro -soprattutto per gli ideali che essi incarnerebbero- il rispetto che certamente ebbe il Vecchio Tiranno (ma non il suo collega sovietico e i suoi successori).

Ciò è incontrovertibile, ed è penoso che l'Europa stia nascendo anche sotto questi «auspici». La protesta è debole e soffocata. Purtroppo anche quella della cristianità che ancora una volta «mostra la corda».

Ma quel che è «deplorevole» ha in sé celato un destino di giustizia che bisogna saper cogliere.

Ne "Il nodo di Gordio" (1953) vi è qualche indicazione illuminante.

«Il rapporto -dice Jünger- dell'uomo col libero arbitrio risale alle sue origini. Per questo gli rimane per lo più celato: bisogna dedurlo dalle sue azioni ed opinioni. Ciò che l'uomo pensa della persona, del destino, in qual modo da e riceve ordini, che cosa considera morale o immorale, come si pone dinnanzi alla morte: tutto ciò dipende dal rango che assegna al libero arbitrio. Anche se non è un filosofo, in questo caso sa distinguere con grande acutezza, anche se i risultati si rivelano poi non già nel suo pensiero ma nel suo agire».

Per Jünger, dunque, la percezione del libero arbitrio è assolutamente primordiale e nella sua pienezza si manifesta prima della «Zivilisation» e della medesima «Kultur» che, in qualche maniera, più che roussoianamente «corromperla» la devitalizzano. È da rimarcare come notevolissimo che, a causa di questa recisa affermazione del libero arbitrio, Jünger si pone fuori dal cristianesimo e, nella fattispecie, dal luteranesimo. Il che significa che il suo prussianesimo risulta essere ben diverso, in quanto proiettato verso il futuro, da quello storicamente definito e conservatore che sussiste ancora nel prussianesimo «illuminato» di Kant, e per cui la "Critica della ragion pratica", tutto sommato, appare assai meno «critica» di quanto vorrebbe essere.

Questa radicale costitutiva libertà, per l'uomo che «si pone in ascolto», deve essere sperimentata, con coraggio e in sprezzo di qualsiasi remora «evoluzionistica» ovvero «progressista», in prima persona. Per il Ribelle, per l'Anarca jüngeriano, non è precisamente vero quello che è vero per Nietzsche: perché il Bene è esso stesso «primordiale» e non può esser «superato», come si illusero di poter fare i nazisti e lo stesso Nietzsche che in ciò fu effettivamente il loro principale «maestro». Il Bene, per Jünger, non è nemmeno la tensione vitalistica verso l'«essere» heideggeriano, ma l'approssimazione umana ad esso che non deve tuttavia mai sbagliare. La distinzione, di matrice cristiana, fra «intenzione» dell'azione e il suo effettivo «valore universale», per Jünger semplicemente non esiste che nella casistica giuridico-religiosa. Giammai nel dominio dell'etica, dove gli errori devono essere pagati con la vita. Per quanto ciò sia terribile da accettarsi, crediamo che sia vero: che, se non lo fosse o lo fosse solo in parte, l'uomo non avrebbe diritto alla libertà, quella che non può che prendere a modello la libertà di un «dio».

Bisogna dunque tagliare quel «Nodo di Gordio» che «si è annodato», oppure «è stato annodato ad hoc» perché non potesse mai essere sciolto.

L'immagine jüngeriana del «Nodo di Gordio» evoca così quella, consacrata dal mito di Perseo, dell'uccisione della Gorgone. Occorre fare in modo che la «Gorgone della tecno-scienza» veda la sua immagine pietrificante «riflessa nel nostro scudo», rimanendone essa e non noi «pietrificata». È questa in pochissime parole la tesi de "L'Operaio", dove si prospetta la «possibilità» di una riappropriazione umana della tecno-scienza come «suprema astuzia» è non dell'uomo come «genere» o «classe sociale», ma di alcuni uomini che osano «mettersi in ascolto».

Francesco Moricca

 

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