da "AURORA" n° 49 (Giugno 1998)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

 

Violante-Magris:

un ponte fra le due Italie della guerra civile

(parte seconda)

Enrico Landolfi

 

«Il nazismo e il fascismo hanno come fondamento l'ineguaglianza tra gli uomini. Quindi la violenza contro chi è considerato diverso, ebreo, comunista, omosessuale, zingaro, è la conseguenza "naturale" di quel punto di partenza». Questo concetto cogliamo nel corso, nel corpo, di quell'amplissimo dialogo fra il Presidente della Camera dei Deputati, on. Luciano violante, e un intellettuale di grande livello, Claudio Magris, scrittore ed editorialista de "Il Corriere della Sera", sul quale appunto è stato pubblicato con il titolo "Un nuovo 25 aprile per costruire la Patria comune" (a cura di Paolo Conti).

Come il lettore forse ricorda, ci siamo intrattenuti nel precedente numero su taluni aspetti di questo confronto, cui si è correttamente voluto dare eccezionale rilievo dedicandogli una intera pagina del massimo quotidiano italiano. I due protagonisti vi appaiono effigiati a matita, con ironia lieve e simpatica, da un vignettista la cui problematica grafia ce lo suggerisce come «Sironi». Chissà, forse un discendente, magari scelto non a caso...

Naturalmente, non ci fu possibile esaurire con le nostre analisi e chiose tutta la vasta, impegnativa, avvincente tematica abbordata dai due illustri interlocutori, ragion per cui ci procuriamo l'ulteriore piacere intellettuale di un intervento -modesto, certo, ma sincero ed appassionato- su altri elementi offerti alla nostra riflessione dal testo violantiano-magrisiano. A cominciare, va da sé, dalla affermazione con cui abbiamo aperto il pezzo, che esprime una convinzione del Presidente Violante alla quale abbiamo qualcosa da rispettosamente obiettare.

Anzitutto questo, a livello di antifona: non è realisticamente proponibile un parallelo tra fascismo e nazismo; giusta la lezione defeliciana, che genialmente individua notevolissimi momenti differenziali fra i due regimi e le relative ideologie fondative. Dati irrefutabili, ad onta del termine «nazifascista», troppo irrazionalmente e disinvoltamente adottato a mo' di invettiva demonizzante da una pubblicistica indotta dalla epidemica avversione per il Littorio mussoliniano a trasformare una alleanza in una totale e totalizzante identificazione. Sicuramente, questa distinzione risulta per qualche non irrilevante verso maculata da alcune drammatiche coincidenze. Per esempio: le leggi razziali e la dichiarazione di guerra all'Unione Sovietica, autentiche scimmiottature dell'hitlerismo. Ma, ciò riconosciuto, è equo aggiungere, per quanto concerne la prima, che, a parte la diversa intensità, diciamo così, legislativa-emarginativa, le autorità italiane specialmente durante la guerra e, soprattutto, nelle zone occupate, favorirono in tutti i modi le iniziative per salvare gli ebrei quando, addirittura non le presero esse stesse. Farinacci, il più filo-tedesco dei gerarchi fascisti, aveva una segretaria ebrea e mise in atto diversi marchingegni per salvare, riuscendovi, la comunità ebraica di Cremona dalle grinfie della Gestapo. Ciò a tacer d'altro e d'altri.

Per quel che poi attiene alla sciagurata dichiarazione di guerra all'URSS, Mussolini non tardò a pentirsi di aver acriticamente seguito il Terzo Reich in un'avventura iniqua e suicida; il cui eventuale, problematicissimo successo, avrebbe portato giovamento alla sola Germania e nocumento solo all'Italia, che avrebbe visto dilatarsi a dismisura il gap di influenza politica, di potenza economica, di estensionismo territoriale, di predominio militare, di potestà diplomatica, esistente fra i due Paesi del vero o presunto Asse. E, sulla base di tale autocritica, dal '41 al 25 aprile '45 tentò con ogni mezzo e in tutti i modi di indurre Hitler a concludere una pace separata con l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Tutto fu vano, perché il Führer, nella sua irresponsabile supponenza, ritenne sempre, fino a poche settimane dalla fine, di avere in tasca la vittoria sul fronte orientale.

 

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È proprio nei seicento giorni della Repubblica Sociale Italiana che viene maggiormente in luce -ad onta di ogni apparenza- la fondamentale, inobliterabile peculiarità dell'esperienza fascista rispetto a quella nazista. Ma di quale «ineguaglianza tra gli uomini» parla mai il Presidente della Camera nel fare riferimento a un regime che nella programmatica costitutiva ha collocato la instaurazione dello «Stato Nazionale del Lavoro», destinato, giustappunto, a rendere il «Lavoro soggetto e non oggetto dell'economia»? Uno Stato, cioè, basato sulla socializzazione delle Imprese, vale a dire sull'inserimento dei lavoratori nella proprietà, nella gestione, nella ripartizione degli utili pur senza dar luogo a collettivizzazioni forzose di tipo sovietico, pur senza prescindere dalle competenze tecniche e dalle capacità imprenditoriali.

E come immaginare la perversa volontà di infliggere un vulnus al principio della «uguaglianza fra gli uomini» in un regime che annuncia ufficialmente l'intenzione di convocare appena possibile una Costituente concepita in chiave pluralista -ossia con la partecipazione autonoma di tutti i partiti, ivi compreso quello comunista, che ne avessero fatto richiesta- e anche, mutatis mutandis, «sovietista», vale a dire con il coinvolgimento di rappresentanze dei soldati, degli operai, dei contadini nell'opera di fondazione non di un nuovo Stato, bensì di uno Stato nuovo?

Pensi, signor Presidente, che Mussolini dichiara a Bruno Spampanato, uno dei suoi consulenti per l'elaborazione di decreti relativi alla Socializzazione e alla Costituzione, di essere deciso, per quanto riguarda il suo ruolo nella Repubblica, a sottomettersi al giudizio del popolo legalmente convocato alle urne. Pensi che uno dei più importanti esponenti del Regime -il prof. Carlo Alberto Baggini, mussoliniano di ferro, il quale nel Gran Consiglio del Fascismo del '43 aveva votato contro l'ordine del giorno Grandi- subordina la prosecuzione del suo impegno nella carica di Ministro per l'Educazione Nazionale all'assicurazione che la repubblica sarà innervata su principì democratici e liberali. Al Biggini, figlio di un esponente socialista, il Duce fornì tutte le garanzie richieste e così l'Italia -diciamo l'Italia, ossia non la sola RSI- potè giovarsi di un ottimo governante di cui Norberto Bobbio si compiacque dire che «era un mussoliniano ma non un fanatico». Si era infatti opposto e con successo, ai trinaricciuti del Regime che pretendevano imporre ai docenti il giuramento di fedeltà a uno Stato messo su alla bell'e meglio, ossia in situazione emergenziale in quanto non legittimato da una Costituente frutto del voto popolare. Agli educatori, dunque, egli riservava un trattamento privilegiato neppure sognato dai militari. Di più: tutelò a Genova il professore di matematica Eugenio Togliatti, fratello del leader del PCI, dalle persecuzioni dei fanatici e consentì a Concetto Marchesi, del quale non ignorava l'attiva fede comunista, di fare tutto ciò che gli pareva e piaceva. Ivi compreso, si badi, il discorso inaugurale dell'anno accademico all'Università di Padova di cui era Rettore, tutto in chiave antifascista ad onta delle proteste e degli schiamazzi di un gruppo di studenti allievi ufficiali della Guardia Nazionale Repubblicana.

Orbene, Signor Presidente, cosa ha a che vedere tutto ciò con una perversa scelta ispirata al principio della «ineguaglianza degli uomini»? La stessa deplorevolissima, odiosa, inaccettabile persecuzione ANTI-ebraica risulta -oltre che, di fatto, mitigata e per certi versi disattesa fin dal 1938- circoscritta temporalmente nel «Manifesto di Verona», dove si afferma che gli ebrei sono considerati cittadini di Stati nemici solo «per tutta la durata del presente conflitto».

Per quanto poi attiene agli zingari e agli omosessuali il fascismo, i fascisti non c'entrano niente. Queste discriminazioni furono poste in essere dai nazisti.

E i comunisti?, chiederà Lei, che nel PCI-PDS da sempre milita con grande, lodevolissima dignità e senso della misura. È verità storica, purtroppo: ria sorte volle che con questo partito, il più grande della Resistenza, erresseisti in genere e fascisti in particolare -la RSI non fu, sic et simpliciter, il meccanicistico prolungamento dell'esperienza del Ventennio littorio- si scontrassero nella guerra fratricida. Lacrime e sangue scorsero copiosi, spargendo lutti e tristezze, inondando le contrade del Bel Paese che era veramente bello, oltre che umano, ridente, gentile, e con tutti i suoi abitanti agglutinati -pur mediante il pugno di ferro di una dittatura dal guanto di velluto- in centurie, coorti, legioni tese al conseguimento di eccezionali fini in pro di una Nazione votata ad un destino eminente. Eppure, allorché il summentovato Spampanato inviò al Solitario di Gargnano, tramite il Ministro dell'Interno Guido Buffarini Guidi che faceva da trait d'union fra lui e i consulenti, un quesito circa i partiti da ammettere alla Costituente egli rispose che, ove ne facessero richiesta, tutti indistintamente i partiti antifascisti, ivi compreso il partito comunista, avevano il pieno diritto di concorrere alla costituzione delle tavole fondative della Repubblica.

 

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Ulteriore asseverazione del Presidente Violante: «La scelta dei valori comuni "non negoziabili" deve essere frutto di un processo culturale e politico, di una serie di discussioni. Non può nascere improvvisamente. Tuttavia bisogna cominciare. Uno di questi valori è la lotta di Liberazione dal nazifascismo che deve portarci alla lotta contro ogni forma di totalitarismo e di sopraffazione dell'uomo sull'uomo, anche nelle sue forme più moderne».

Ci consenta, anzitutto, il Presidente della Camera, un modesto suggerimento, che scaturisce anche dalla stima e dalla simpatia che da sempre, ossia anche da quando non era ai Vertici dello Stato, nutriamo per Lei: si liberi da questa ambigua, orrenda, mendace, demonizzante e dunque frenante parola «nazifascismo». Gli è che i «nazifascisti» non sono mai esistiti; casomai venne in evidenza, soprattutto nella RSI, una corrente estremamente ed estremisticamente minoritaria del fascismo filo-nazista. Mussolini la detestava, perché la sentiva non a sé legata, bensì all'alleato-occupante; e ne aveva in uggia e in dispetto quei suoi membri che alle uniformi grigioverdi tradizionali dell'esercito italiano preferivano le divise della Wehrmacht e delle SS. E che avevano negato il giuramento di fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana onde prestarlo al Terzo Reich e a Hitler.

Del resto, Onorevole Presidente, se davvero quelli che Lei chiama i «ragazzi di Salò» fossero stati, e a tutt'oggi restassero, indistintamente «nazifascisti», proprio non vedo come sarebbe possibile quel «processo culturale e politico», quella «serie di discussioni» da Ella tanto rettamente e correttamente auspicati.

E veniamo alla «lotta di liberazione». L'uomo politico torinese afferma: «La Repubblica e la democrazia nascono su. Il suo valore va esteso il più possibile anche agli indifferenti e agli eredi dei vinti. La trasmissione di quel valore avviene innanzitutto per via verticale, generazionale, di padre in figlio. Spiegare ai giovani cosa significa liberarsi da chi, da cosa. Spiegare il senso dell'uguaglianza. Ma deve avvenire anche tra contemporanei, per via orizzontale». E ancora: «Ci vuole il rispettoso confronto con chi la pensa diversamente, altrimenti le forze non si spostano. Questa Repubblica deve avere un fondamento più ampio di quello originario».

Certo, l'allargamento delle basi storiche, spirituali, culturali, ideali della Repubblica è operazione fondamentale, da mandare in porto con sollecitudine nei tempi e costanza nell'impegno. Tanto più che alle sue radici non ci sono soltanto iniziative e valori incarnati dagli uomini di una Resistenza più proclive a manifestarsi in chiave creativa anziché repressiva, ma anche quelli evidenziati dai «ragazzi di Salò» -fra i quali «ragazzi» con sulla groppa anagrafi ben più pesanti- espressivi della parte che ci piace definire alla creativa, pacificatrice, passionale, popolare della Repubblica Sociale Italiana.

Consenta a noi, Signor Presidente, di estrapolare da una selva di materiali pubblicistici di innegabile validità documentativa e testimoniale alcuni brani di autori della più varia ispirazione ideologica e collocazione politica. Cominciamo con Paolo Bucchignani che da par suo dà luogo ad un interessante pot-pourri, sul filo di una ricerca molto accurata, nelle prime pagine di un interessantissimo saggio storico, "Fascisti rossi", che proprio in questi giorni ha raggiunto le vetrine delle librerie di tutta Italia dopo aver fatto gemere i torchi prestigiosi della Mondadori (collana "Le Scie"). Dice lo scrittore lucchese, a proposito del contributo erressista alla fondazione della Repubblica «nata dalla Resistenza»: «Secondo Paul Sérant, i comunisti, proprio in vista del referendum istituzionale e delle elezioni per la Costituente, presero contatto con i responsabili del movimento fascista clandestino, a cui avrebbero promesso la liberazione della maggior parte dei loro militanti in cambio del voto a favore della Repubblica. Questa tesi è confermata da Giovanni Artieri, secondo il quale, tuttavia, non solo il partito di Togliatti, ma tutte le forze politiche antifasciste promossero iniziative in tal senso: tutti direttamente e indirettamente, egli sostiene, trattarono coi fascisti, capeggiati per l'occasione dall'ex-vice segretario del PFR, Pino Romualdi, personaggio che in quella vicenda avrebbe ricoperto un ruolo centrale. Anche una testimonianza di parte comunista, quella di Fidia Gambetti, conferma che sul tema dell'amnistia il PCI ebbe contatti (i primi) tanto con i rappresentanti dell'Uomo Qualunque, quanto con i fascisti: con Alberto Giovannini, direttore del settimanale neofascista dal significativo titolo "Rosso e Nero", ma soprattutto, con l'estremista di sinistra, che si definisce «ex-fascista di sinistra non neofascista», Stanis Ruinas.

 

* * *

Prima di proseguire nelle inevitabilmente poche citazioni attiriamo l'attenzione del Bucchignani su di imprecisazione innocente ma rilevante, pur se non macula minimamente il suo bellissimo testo frutto di seria e rigorosa documentazione. Gli è che il "Rosso e Nero" non fu affatto un ebdomadario neofascista, ma venne in evidenza quale foglio, per così esprimersi, «conciliazionista», come lampantemente dimostrato dal fatto che i suoi soli tre numeri ebbero due direttori: il "Nero" Alberto Giovannini e il "Rosso" Ugo Zatterin, redattore de "l'Avanti", organo del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. L'iniziativa, pensata e benedetta da Ignazio Silone -da sempre avversario della epurazione e favorevolissimo alla pacificazione nazionale-, partita con il tacito ancorchè scettico e «neutralista» consenso di Pietro Nenni, venne impietosamente silurata dai soliti pappafascisti di mestiere, scandalizzati per la contaminatio fra il Bene e il Male, fra il Diavolo e l'Acqua Santa, fra la Verità e l'Errore. E dire che tutti codesti imbecilli si professavano marxisti laicisti! Come, ad esempio, gli azionisti, per i quali fino all'ottavo millennio dopo Cristo il pianeta, se ancora esisterà, non potrà che dividersi fra fascisti e antifascisti.

Ed eccoci alla testimonianza di Pier Giuseppe Murgia, classico esempio di resistenzialismo degenerato tra il lusco e il brusco in trinariciutismo. Costui, pur in illimitata e limitativa malafede come tutti i settari che si occupano di questa materia, finisce per coonestare quanto asseverato da gente intellettualmente onesta che sempre rese testimonianza del contributo elettorale degli erresseisti al successo di una tesi repubblicana in chiara difficoltà di fronte allo straordinario recupero di quella monarchia grazie soprattutto al «Vento del Sud». Ma è da "Il vento del Nord", l'opera murgiana più «incazzata» sotto il profilo resistenziale, che espungiamo le seguenti righe: «La prima mossa per l'operazione amnistia, in riferimento al Partito comunista, viene in realtà dai neofascisti, o meglio da quel gruppo di fascisti che aveva vissuto in chiave critica l'esperienza di Salò illudendosi realmente di una trasformazione sociale del fascismo e che aveva invece assistito, ad un certo punto perfino con sgomento e ripugnanza, a un epilogo torbido e sanguinoso di un itinerario politico che non poteva avere altri sbocchi. Chi ha un ruolo non secondario in questa vicenda è Stanis Ruinas, l'irruento autore di "Pioggia sulla Repubblica", che darà poi vita ad un gruppo eretico definito dei «fascisti rossi», raccolto intorno al periodico "Il Pensiero Nazionale". Assieme a lui, assumono l'iniziativa Orfeo Sellani (...) Giorgio Pini (...). In un primo tempo Ruinas e gli altri emissari del suo gruppo cercano di prendere contatto con Nenni che però non ne vuole sapere. Ruinas riesce allora ad arrivare allora a Pajetta e tramite lui ottiene un incontro con Longo. Prima di questo incontro ci sono molte riunioni fra i capi del fascismo clandestino e praticamente tutti sono favorevoli a questi contatti di pacificazione. Alcuni, come Ruinas, sono in buona fede, propensi a rientrare nella legalità e a staccarsi dal fascismo, molti altri giocano a bluffare». Insomma, all'antipatizzante Murgia piacerebbe che all'epoca tutto fosse stato nelle mani di un bel pezzo di rinnegato, di uno stakanovista della palinodia tipo Gianfranco Fini. Comunque, pur con la penna intinta nell'odio e la favella imbrattata di malanimo e malevolezza, egli finisce con l'ammettere, sia pure a denti stretti e a frase larga, che i voti «repubblichini» niente affatto irrilevanti -ormai tutto faceva brodo!- per far vincere la «Repubblica nata dalla Resistenza» ci furono. Del resto, l'on. Giorgio Almirante sempre disvelò -urbi et orbi- di aver votato per la Repubblica, diversamente, per esempio, dall'ing. Renzo Lodoli il quale mai fece mistero di avere concesso, e sia pure obtorto collo, il proprio suffragio ai Savoia.

Signor Presidente, Le rifiliamo una ulteriore testimonianza del summentato Stanis Ruinas (nome di battaglia del giornalista e scrittore sassarese, di Usini per la precisione, Antonio De Rosas) e poi smettiamo di tediarla con ulteriori discorsi su questo argomento. Ma non si faccia illusioni: il dialogo fra Lei e l'ottimo letterato ed editorialista Claudio Magris è documento di tale importanza da meritare altre glosse e analisi, alle quali, Direttore permettendo, ci dedicheremo nel prossimo numero.

Ella avrà compreso, dato e non concesso che ci onora di una sua attenzione, che il confronto in tandem Violante-Magris è fatto da noi oggetto di un saggio che veniamo pubblicando a puntate su questa rivista. Naturalmente, e proprio per dotare di una qualche efficacia la nostra iniziativa, pensiamo di non spingerci fino alle calende greche. Riteniamo, cioè, di poter concludere con un terzo contributo. Ma, detto ciò, giudichiamo saggio non mettere limiti alla Divina Provvidenza...

Dice dunque il Ruinas -siamo nel dicembre 1952-: «Nel 1946, mentre noi eravamo intenti a lavori letterari e storici non volgari, decisi a non rimetter più becco in politica, ci telefonò il Sellani (1): si era fatto intervistare da una rivista comunista, "La Settimana", e voleva ci facessimo iniziatori d'una alleanza con i comunisti. Egli prese accordi con i fratelli Puccini per un incontro con l'on. Luigi Longo. Ci furono altri incontri numerosi, promossi sempre da lui, in casa del prof. Giacinto Cardona, presenti Mario Spinella, Tullio Vecchietti e altri».

Dunque, ancora una volta dalla polla elettorale dei tanto vituperati «repubblichini» sgorgano i voti per far vincere non la Repubblica Sociale Italiana, ma quella «nata dalla Resistenza». Uno dei tanti paradossi del processo storico...

 

Enrico Landolfi

 

(1) Orfeo Sellani, fascista di sinistra, ex-vice comandante della «Gioventù Italiana del Littorio» durante il Ventennio, diventato Segretario Federale di Roma del Movimento Sociale Italiano, si dimetterà dalla carica per protesta contro lo slittamento a destra della Fiamma Tricolore.

 

 

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