da "AURORA" n° 50 (Luglio - Agosto 1998)

EDITORIALE

 

A volte ritornano

A. De Ambris

 

Le vittorie perdute dell'Ulivo

Nel nostro Paese le vicende politiche appassionano ormai poche centinaia di addetti ai lavori. È, anche questo, uno degli effetti del totalitarismo neoliberista dominante, che, approfondendo le ingiustizie, crea una sfiducia acutissima della società civile verso quella che, a ragione, viene ritenuta una ipocrita «democrazia formale». Tuttavia ciò che è avvenuto in Parlamento e nei partiti durante la seconda metà di quest'anno è degno di analisi per chi non abbandona l'idea di costruire l'alternativa al Sistema.

La coalizione di Centrosinistra ha sì superato l'ennesima «verifica» resasi necessaria dopo il contrasto sorto sull'ampliamento della NATO, ma per la prima volta è apparso chiaro come il governo dell'Ulivo appoggiato da Rifondazione Comunista, passata la sbornia per «l'ingresso in Europa», si trovi in una situazione di grande difficoltà sul terreno dei contenuti, più che su quello dei rapporti politici. In quest'ultimo campo, le schermaglie tra i vari leaders del Centrosinistra costituiscono infatti un gioco delle parti, che poco o nulla ha a che fare con la vita dell'Italia reale.

I fallimenti della maggioranza sul terreno programmatico sono, invece, clamorosi: occupazione, Mezzogiorno, servizi (dalle ferrovie agli ospedali, alla scuola, alla protezione civile). Questo accade, in sostanza, perché Prodi ha preso l'impegno, a livello di Comunità Europea, di realizzare ogni anno un 6% di avanzo primario e ciò implica l'adozione di politiche sociali ed economiche durissime. Perciò non è un caso che il presidente del Consiglio, nei suoi interventi al Senato e alla Camera a luglio, abbia continuato a proporre, per il prossimo triennio, gli stessi 36mila miliardi di investimenti per le infrastrutture che sono stati messi sul tavolo un'infinità di volte e di cui un'infinità di volte Carlo Azeglio Ciampi non ha consentito l'utilizzazione neppure in minima parte.

Un ceto politico mediocre nei suoi protagonisti così come nei suoi caratteristi si lascia dunque costringere nel binario strettissimo che gli è stato assegnato da centri di potere internazionale, Fondo Monetario, Banca Mondiale, Banca Centrale Europea di Francoforte, Commissione di Bruxelles. Prodi appare capace soltanto di lanciare slogans («è un momento decisivo», «gettiamo le basi per un nuovo sviluppo», «comincia il rilancio», «entriamo nella fase due», ecc.), mentre in concreto c'è l'impossibilità di agire nel merito delle questioni aperte.

Tante parole, insomma, ma pochi riscontri effettivi.

 

Guerra per bande

Per quanto riguarda lo scenario politico, alcune considerazioni di carattere generale sono, però, possibili. Sotto l'incalzare dei processi di globalizzazione dell'economia, la situazione italiana è stata resa particolarmente critica, negli ultimi anni, dallo scatenamento di una specie di «guerra per bande» tra gruppi capitalistici rivali, che fanno riferimento rispettivamente a Silvio Berlusconi con la sua catena mediatica e al duo Agnelli-De Benedetti. Si tratta, nel secondo caso, delle grandi industrie tardo-fordiste in via di ristrutturazione, delle grandi banche (Mediobanca in testa) e delle reti manageriali controllate dalle tradizionali famiglie del capitalismo italiano e dai boiardi di Stato del capitale pubblico.

Imprese come l'Olivetti e la Fiat, pilastri del fordismo in crisi dominante nel Nord-Ovest, sono troppo grandi per accontentarsi di mercati di nicchia, ma troppo piccole per «navigare» da sole nel mare in tempesta dell'economia mondializzata. Rivendicano retrovie protette, mercati interni sicuri per poter affrontare la competitività esterna. Il che significa che questa fazione del capitalismo italiano ha ancora bisogno di usare strumentalmente per i suoi fini le vecchie strutture dello Stato-Nazione e del suo ceto politico-amministrativo. Per essa, la dimensione «nazionale» del territorio è ancora determinante. E il vecchio ceto politico, quale che sia la sua provenienza (dall'antico partito cattolico o dall'ex-partito comunista), purché sensibile alle nuove esigenze, costituisce ancora l'interlocutore irrinunciabile. A esso si chiede di riconvertirsi dal tradizionale ruolo di mediatore verso l'interno (di mediatore cioè del conflitto tra capitate e lavoro) al moderno ruolo di mediatore verso l'esterno (ossia di mediatore tra l'economia «nazionale» e le agenzie economiche mondializzate, dalla nascente Banca Europea al Fondo Monetario Internazionale).

È su questa base che è nato l'asse politico-economico che ha permesso prima la nascita del governo Dini, e che ha portato poi una parte consistente del mondo imprenditoriale italiano ad appoggiare elettoralmente l'Ulivo nelle ultime elezioni politiche. È su questa base, d'altra parte, che il governo Prodi ha condotto le complesse trattative per il re-ingresso della lira nell'Unione Monetaria Europea: utilizzando la forma-Stato come strumento di governo del processo di mondializzazione dell'economia nazionale e di ridefinizione degli equilibri sociali interni in forma adeguata alla domanda di «riallineamento verso il basso» che le nuove condizioni della competizione globale richiedono.

Questo governo e la sua maggioranza hanno, inoltre, costruito un sistema di convenienze con i gruppi economici sopraccitati e con alcune lobby informative ad essi collegate (si pensi alla maggiore catena di quotidiani e settimanali nazionali da "Il Corriere della Sera" a "la Stampa", da "la Repubblica" a "L'Espresso", per non parlare della lottizzazione sistematica avvenuta nella RAI).

I contenuti del patto di alleanza si sono estrinsecati dalla chimica alle telecomunicazioni pubbliche, dalla telefonia mobile all'energia. In tali ambiti le privatizzazioni sono andate nella direzione di quei gruppi economici che controllano i media impegnati nel sostegno all'attuale maggioranza politica. I più importanti fra quelli che denunciano il «conflitto d'interessi» di cui è responsabile Berlusconi sono in realtà o concorrenti diretti delle imprese del Cavaliere (mercato pubblicitario) oppure in altri casi fanno capo a gruppi industriali in aperta inimicizia con il leader del Polo.

L'antropologia di riferimento di quest'ultima aggregazione politica è, quindi, evidentemente dissimile da quella dell'Ulivo. Il «popolo» cui Berlusconi, Fini, Casini si appellano è la moltitudine degli individui competitivi che intendono «uscire» dalla comunità pubblica, costituita attraverso la forma della rappresentanza politica o sindacale e il sistema delle leggi che la sostanziano, per «fare da sé», per partecipare senza l'aggravio di tasse, lacci e lacciuoli al gioco delle merci e del mercato. «Uscire» dalla comunità pubblica significa, in altre parole, uscire dalla regolamentazione del mercato del lavoro, dalle leggi sulla tutela ambientale, dai vincoli antinfortunistici, dalle normative sociali, dai regolamenti edilizi, da tutto ciò insomma che separa la vita umana dalla nuda operatività del mercato.

Una simile «fuoriuscita» dallo Stato è sostenuta dal punto di vista, diciamo così, culturale attraverso una americanizzazione sfrenata e servile del costume. Si pensi, in proposito, al familismo consumistico proposto dalla Fininvest, in cui la «famiglia abbiente», identificata con un'unità di consumo, è esplicitamente collocata come fondamento filosofico, economico e sociale del rapporto fra l'individuo e il mondo circostante. In questo contesto, i tentativi di Gianfranco Fini (Fiuggi, Verona) di dare alla «Destra» italiana un profilo culturale «moderno» sono stati interessanti nella misura in cui hanno portato Alleanza Nazionale a divenire un doppione di Forza Italia.

 

Organizzazione del consenso

Tuttavia oggi, senza dubbio, è la fazione capitalistica risultata vincitrice nelle elezioni del 21 aprile '96 mediante il referente politico dello schieramento Ulivo-Rifondazione Comunista a controllare la quasi totalità delle posizioni di potere disponibili nel Paese, appoggiata da tutte le istituzioni che contano. Ogni giorno, da due anni e mezzo a questa parte, una genia numerosissima di scrittori, professori, giornalisti, cantanti, poeti -in passato fiancheggiatori del PCI e talvolta anche di sinistre extraparlamentari- si adoperano per convincere l'opinione pubblica che sta vivendo nella migliore delle Italie possibili.

L'opposizione è stata dipinta o come ricettacolo di ladri e mascalzoni di ogni risma (Polo delle Libertà) o come arca di raccolta per psicolabili, per persone con turbe psichiche che si ostinano a non andare in terapia (Fronte Antagonista). Da ultimo, perfino i disoccupati organizzati al di fuori dei sindacati confederali, dopo essersi presa la loro razione di manganellate, sono stati offerti al pubblico ludibrio come emanazione diretta del mondo della malavita. Ciò è stato provato «oggettivamente» attraverso una ricca documentazione fornita ai cronisti de "Il Corriere della Sera" e de "l'Unità" dalla DIGOS. È un fatto, insomma, che nell'Italia del '98 la «gente per bene», nella stragrande maggioranza, sta -pur con gradi variabili di convinzione e di giudizio- con il governo dell'Ulivo.

La cappa di conformismo politico che la gran parte dei media e delle istituzioni che contano ha steso sul Paese è riuscita finanche, paradossalmente, a dare un minimo di stabilità per un certo periodo alle relazioni sociali, nel senso che moltissimi Italiani hanno creduto, o hanno fatto finta di credere, che al Potere ci fossero «uomini nuovi», che quando le cose funzionavano era merito dell'Ulivo e di Rifondazione e quando non funzionavano ciò era dovuto a decenni di malgoverno democristiano e craxiano, che la corruzione, fosse stata debellata. Il Centrosinistra, detenendo il potere, avendo dalla sua parte la schiacciante maggioranza degli intellettuali, dei magistrati, dei burocrati e godendo di una posizione di vantaggio nel sistema mediatico ha potuto permettersi fino all'estate del '98 una marea di chiacchiere, demagogia europeista, slogans elettorali che coprivano autentiche politiche neoliberiste.

Ma proprio a partire da quel periodo, alcuni nodi concreti hanno cominciato a venire al pettine, dall'aumento dei livelli di disoccupazione al diffondersi della povertà, alle tensioni sociali culminate negli incidenti fra polizia e senza-lavoro a Taranto, Milano, Napoli. Per una strana coincidenza proprio nello stesso periodo è riesplosa la campagna giudiziaria contro Silvio Berlusconi, che ormai deve fronteggiare ben 13 diversi procedimenti penali e sul quale sono cominciate a fioccare le prime condanne.

Non saranno certo questa rivista né il Movimento Antagonista - Sinistra Nazionale di cui essa è espressione a prendere le difese di un simile personaggio. Soltanto ci si pone una domanda: come mai, in occasione dei passaggi critici per il governo dell'Ulivo, quando con più evidenza emergono le responsabilità e i fallimenti suoi e di Rifondazione Comunista, ricominciano con virulenza inusitata le polemiche sulla Fininvest e sul «conflitto di interessi»? Molti, d'altronde, sono a chiedersi perché le inchieste si concentrino solo sul gruppo industriale del Cavaliere, perché certi processi siano molto rapidi e altri -che coinvolgono i padroni amici dell'Ulivo- siano lentissimi e si avviino alla prescrizione o addirittura alla non-esecuzione delle condanne.

Si fa largo spazio la sensazione che esista una tendenza ad adottare il criterio dei due pesi e delle due misure: lo stesso agire meritevole di riprovazione diventa un macigno per alcuni (Berlusconi) e un peccato veniale per altri (Romiti, De Benedetti). I reati commessi da alcuni vengono inseriti in un «contesto» che concede le attenuanti generiche, mentre quelli commessi da altri vengono scolpiti a caratteri indelebili nella memoria collettiva. Non meraviglia perciò che nei vari ambiti sociali finisca per proiettarsi l'ombra del «doppiopesismo», in quanto la magistratura -forse non potendo fronteggiare tutte le occasioni di reato- si concentra su quelle a suo avviso più rilevanti.

In tal modo sono «filosofie politiche» a stabilire chi deve essere inquisito e chi non deve esserlo.

 

Agnelli e Cossutta uniti nella lotta

Com'è noto, il governo Prodi ha, fino ad oggi, potuto sopravvivere grazie all'appoggio determinante di Rifondazione Comunista. All'interno di questo partito, l'ala che fa capo a Bertinotti è l'ultima espressione di un massimalismo che non smette, a parole, di denunciare i vizi e i peccati del capitalismo italiano. Ma a differenza del massimalismo socialista dei primi decenni del Novecento, che non si era mai compromesso collaborando con i governi liberali, l'odierna versione bertinottiana del massimalismo ha permesso per due anni e mezzo la realizzazione di politiche neoliberiste che hanno minato le basi dello Stato sociale. Il presidente del Consiglio sa, oltrettutto, che il massimalismo di una parte del PRC è marcato a vista dall'ala ministerial-comunista che fa capo a Cossutta e che non esclude la possibilità, se le posizioni dovessero radicalizzarsi, di una scissione.

In questo contesto, l'appello di Gianni Agnelli: «Siamo nelle mani di Cossutta», lanciato a mo' di battuta durante l'assemblea dell'IFI ad un auditorio composto dagli azionisti di una delle più rinomate società del capitalismo italiano, ha avuto un valore altamente simbolico ed è stata la conferma della tradizionale «alleanza competitiva» -tipica della seconda metà del Novecento ma ormai sulla via dei tramonto- tra la dirigenza di ciò che resta della grande industria fordista ed i settori più organizzati politicamente e sindacalmente di quelle che un tempo sarebbero state definite «aristocrazie operaie», le quali attraverso tale alleanza ancora si illudono di salvare il salvabile del Welfare State.

Nel momento in cui scriviamo queste note, la politica italiana si avvia così ad una fase i cui esiti ultimi nessuno conosce. Con certezza si sa solo che la crisi economico-sociale sta sprigionando tutta la sua carica dirompente e le conseguenze per l'Ulivo e per Rifondazione Comunista potranno essere dolorose. Come riusciranno a conciliare le politiche economiche dettate dal FMI e dalla Banca Centrale Europea con il malessere del Mezzogiorno? E i tagli della spesa pubblica, previsti anche nella Finanziaria '99, con il rilancio dell'occupazione?

Il timore delle elezioni anticipate funziona però da deterrente per il Centrosinistra, così da scoraggiare eventuali colpi di testa. Nei Comitati Politici di RC, Cossutta evoca lo spettro della rottura della coalizione di governo con ricorso alle urne senza desistenza. Rifondazione Comunista in quel caso verrebbe ridotta ad un terzo della sua forza attuale e il Paese sarebbe riconsegnato al Polo delle Libertà (secondo alcune stime, l'attuale schieramento di governo perderebbe 97 parlamentari). A rendere il quadro ancor più fosco per l'«apparato» di RC contribuisce forse la prospettiva (oltre alla perdita di decine di deputati e senatori) del licenziamento dai sindacati, dalle Coop, dall'ARCI di migliaia di compagni impiegati negli «organismi unitari» della Sinistra. Proprio per una simile serie di ragioni nessuno vuole suicidarsi. Spezzare la corda non è nell'interesse delle formazioni scaturite dal vecchio PCI.

Da questo punto di vista, si può affermare che il «semestre bianco» è cominciato già durante l'estate '98, nel senso che non sono prevedibili stravolgimenti del quadro politico per il solo fatto che l'Italia entra, a partire da novembre, nel periodo in cui per 6 mesi non potranno essere sciolte le Camere in attesa dell'elezione del nuovo Capo dello Stato. Tanto più che, a pensarci bene, la «verifica», dal maggio '96, è andata avanti tutte le settimane tra Ulivo e Rifondazione, con una serie di «ultimi scontri» che si sono poi sempre rivelati i penultimi: sull'inflazione programmata nel primo Dpef, sulla manovra '97, sul patto del lavoro, sui ticket farmaceutici, sull'intervento nella ex-Jugoslavia, sulla riforma delle pensioni, sull'Albania, sulle 36 ore, sull'allargamento della NATO, sulla scuola, sui Dpef dell'aprile scorso. Ma, nel campo dei tatticismi, il gruppo dirigente di Rifondazione Comunista, ed in particolare il suo segretario, sembrano arrivati all'esaurimento delle loro risorse. La ventilata astuzia di aprire la crisi durante il «semestre bianco» per rifarsi una verginità di oppositori radicali e antagonisti in attesa di rinegoziare successivamente un nuovo accordo con l'Ulivo è il segno di una continuità nel modo di far politica in Italia che resiste a tutte le logiche proporzionali, maggioritarie e bipolari, ma che ormai è completamente screditata.

 

Truppe cammellate

D'altra parte il primo a sapere che la maggioranza di Centrosinistra potrebbe scricchiolare paurosamente è il presidente del Consiglio, che da tempo si sta attrezzando per ogni evenienza, salvo quella di dover abbandonare il governo. La cosiddetta «rivoluzione italiana di Mani Pulite» ha fatto le sue vittime come le rivoluzioni vere, ma non ha prodotto nulla di buono per le classi subalterne, come le rivoluzioni finte. Ci sarà un motivo se alla fine la scena politica risulta dominata sempre più spesso dai democristiani doc rimasti su piazza, nonostante la dichiarazione di morte presunta della DC: Scalfaro, Prodi, Mancino, Cossiga, Marini. Ci sarà un motivo se mai dagli anni Sessanta in poi tante caselle chiave del potere italiano sono occupate da (post)democristiani, che le hanno guadagnate mentre tutt'intorno si discuteva delle sorti del bipolarismo, dell'opportunità o meno di eleggere direttamente il capo dello Stato, della riforma del sistema elettorale.

Gli affanni del governo Prodi sono, perciò, affanni da teatrino, perché una ciambella di salvataggio è sempre pronta: l'UDR sembra nata apposta e destinata a questo compito. Cossiga ha in pugno le redini di un partito di una qualche consistenza, con i suoi 32 deputati e 17 senatori, che peraltro non si è mai misurato con una verifica elettorale: quando si dice la «democrazia formale»... L'ex-capo dello Stato e i suoi accoliti tenteranno di istituzionalizzare, non solo in politica estera, le «maggioranze variabili» in un susseguirsi di «trasformazioni parlamentari» neoliberiste per soddisfare le attese dei mercati finanziari riguardo allo smantellamento degli ultimi pezzi dello Stato sociale. La fantasia non manca per sostituire l'attuale equilibrio se sarà necessario e porre eventualmente fine alla petulanza di Rifondazione Comunista: governi tecnici, istituzionali, di grande coalizione, con o senza Prodi alla guida poco importa. Anche il personale di servizio non manca.

 

Noi e loro

I cinque paragrafi precedenti di questa analisi sono stati scritti per predisporre materiale utile alla discussione di una serie di interrogativi che intendiamo proporre a coloro che si riconoscono nelle posizioni della Sinistra Nazionale.

1) Nella situazione italiana attuale, ha senso -per un movimento che si definisce antagonista- «schierarsi», pur con tutte le distinzioni, le critiche, i dubbi, ecc., con uno dei vari gruppi capitalistici che, proponendo grosso modo le medesime ricette economico-sociali neoliberiste, si contendono il controllo del Paese attraverso i propri referenti politici, Ulivo, Polo delle Libertà, Lega Nord?

2) Ripensando in prospettiva alle scelte compiute e alle indicazioni fornite dal Movimento Antagonista - Sinistra Nazionale in occasione delle elezioni del 21 aprile '96 e alla luce di quanto è accaduto nei due anni e mezzo successivi, si può:

a) considerare l'Ulivo ancora «il minore dei mali»? In particolare, allo scrivente le due posizioni del comunquismo e dell'almenismo, che si sintetizzano nella celebre formulazione: «Comunque ed almeno l'Ulivo con Rifondazione è migliore di Bossi, Fini e Berlusconi», sembrano forme di pigrizia del senso comune e di pensiero autoreferenziale, che non permettono l'apertura di nessun dibattito, ma rimandano soltanto a se stesse;

b) considerare il Polo delle Libertà un pericolo reale? E ciò anche dopo aver valutato i seguenti dati di fatto:

* le disavventure giudiziarie che porteranno (in quale maniera e in quali tempi non è per adesso dato sapere, né interessa più di tanto) all'estromissione di Silvio Berlusconi dalla scena politica;

* l'ostilità dichiarata nei confronti del Polo da parte dei centri di potere internazionali (a tale riguardo, oltre alla campagna lanciata in occasione dell'ascesa al governo del Cavaliere nel '94 da "New York Times", "Le Monde", "Times", ecc. è da rilevare come anche in coincidenza dell'ultima campagna giudiziaria l'"Economist", settimanale letto dagli investitori di tutto il mondo, abbia sostenuto in un editoriale durissimo intitolato "The Berlusconi problem", che l'Italia non è una democrazia normale, né lo sarà fintanto che il leader dell'opposizione continuerà ad essere un «criminale condannato tre volte»;

* l'impossibilità del Polo, in mancanza di un accordo con la Lega Nord, di ottenere la maggioranza dei voti nelle prossime elezioni politiche generali;

* l'incapacità del Polo, anche nel caso di una ipotetica vittoria, di mantenere il potere per più di sei o sette mesi, come hanno dimostrato le oscure vicende del '94;

* il ruolo di supporto all'Ulivo svolto dalla Lega Nord, la cui base è in gran parte di origine operaia ed è o è stata legata alla CGIL, come hanno rivelato con evidenza empirica analisi effettuate sul campo (l'«ethnos», il riferimento mitico a un'identità di territorio radicata nella natura, è pura ideologia, risorsa d'immagine da spendere sul mercato dei media con tutto il ciarpame delle ampolle celtiche, del dio fiume, delle camicie verdi, ecc.).

3) È possibile aprire realmente, invece, un discorso sulla costruzione di una forza antisistemica operativa sul territorio, rompendo l'incapacitante contrapposizione Destra-Sinistra per uscire nel mare aperto di una nuova esperienza che raccolga i vari nuclei antagonisti tuttora inesistenti nel nostro Paese? Ciò partendo da due punti essenziali, solidi e stabili:

* il giudizio etico-politico negativo sulla globalizzazione imperialistica del capitalismo della terza rivoluzione industriale;

* l'attenzione verso l'idea di Nazione e verso la sua possibile valenza anticapitalistica.

A. De Ambris

 

 

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