da "AURORA" n° 51 (Settembre 1998)

APPROFONDIMENTO

 

Apocalisse
(seconda parte)

Francesco Moricca

 


 

«Furono messi vivi in uno stagno di fuoco fiammante per zolfo. Gli altri furon uccisi dalla spada che usciva dalla bocca di colui che stava sul cavallo; e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni»

Apocalisse, XIX, 20-21

 


 

«La luna e l'anno arrivano e corrono via: E così il giorno, e il vento.
Anche la carne corre via verso il luogo della pace»

Poesia degli Indiani d'America

 


 

Signa Temporis, Simia Temporis

Dopo aver espresso il nostro punto di vista sulla mitologia millenaristica che permea di sé qualsiasi espressione della «civiltà occidentale» -e in maniera più virulenta quelle espressioni che pretenderebbero di essere «antagoniste e alternative» rispetto ad essa-, non ci resta che esaminare alcuni fra i fenomeni che segnalano l'imminente chiusura del Ciclo, dopo il quale se ne aprirà un altro che esso stesso ripercorrerà nella «forma» le vicende dell'attuale volgente al termine, secondo ciò che caratterizza lo svolgimento della vita di ogni uomo dalla nascita alla morte, per una legge di «analogia» che, unico fra i «filosofi» moderni, il Vico ha colto con fedeltà e indichiarata antitesi con l'ermeneutica cartesiana.

E si badi che quando parliamo delle «espressioni culturali» che presumono di essere antagoniste rispetto alla «civiltà occidentale», non ci riferiamo soltanto all'«esoterismo» massonico e marxista, ma anche e soprattutto, a quello nazista al quale ci sentiamo vicini per le ragioni esposte in questo saggio col massimo della sincerità di cui siamo capaci. Il nazismo come «signum temporis» è anzi per noi assai più indicativo del comunismo per il fatto d'esser caduto nel sommo male qui contestatogli, pur essendo animato, almeno agli inizi, dalle migliori intenzioni e sostenuto da quanto di meglio aveva prodotto la cultura europea nell'Ottocento: difendeva infatti, contro la prepotenza usuraia del capitalismo anglosassone, non solo il diritto del popolo tedesco ma anche il diritto degli altri popoli che questa prepotenza subivano, compreso il popolo russo, compreso il popolo italiano che era stato defraudato di una vittoria conquistata a carissimo prezzo. Questo sommo male, secondo la fenomenologia del «risentimento» consiste nell'essere il nazismo un giudaismo rovesciato, il suo tragicomico scimmiottamento con la «teoria della razza eletta» versione speculare e positivisticamente aggiornata della teoria del «popolo eletto». Ed ha evidentemente un carattere apocalittico la «soluzione finale» propugnata dai nazisti e quanto di insopportabilmente crudele vi si connette e che non può non sfuggire agli stessi Ebrei per la logica aberrante del «risentimento». Parimenti suonano come un possibile scimmiottamento del Millenarismo i progetti nazisti di edificare il «Reich millenario», né può esser sottovalutato il fatto che Hitler fosse figlio illegittimo di un ebreo e per giunta il frutto di un «amore ancillare»; che egli, da «Forestaro verace», abbia avuto nei confronti del comunismo e della Russia, un atteggiamento ambiguo quanto quello avuto nei confronti del capitalismo e dell'Inghilterra, e ambiguo, ancora, per effetto delle distorsioni che il «risentimento» induce nelle funzioni logiche.

Vero è in ogni caso che questa dipendenza dal giudaismo risale alla nascita della nazione tedesca al carattere giudaizzante dell'umanesimo tedesco trasposto teologicamente e millenaristicamente esasperato da Lutero. Non si può pertanto imputare ad Hitler e ai suoi «problemi psicoanalitici» ciò che va imputato al protestantesimo. Bisogna invece riconoscere al «Forestaro» il merito di aver riavvicinato i Tedeschi alla Tradizione romana, e non per calcolo machiavellico.

La critica nei confronti di Hitler non può spingersi fino al punto di negare in lui una onestà di fondo, un bisogno intimo di purezza non solo «razziale» e un coraggio a tutta prova che oggi non si trovano più nei politici contemporanei. Questi elementi positivi della sua personalità si svilupparono, tuttavia, in maniera anomala, non già a causa delle nevrosi del soggetto, ma per quelle «contraddizioni» che denotano la destra europea dell'epoca e di cui si è detto, «contraddizioni» che scatenarono la patologia nevrotica in chi vi era predisposto e forse, in circostanze diverse, avrebbe potuto evitarla. Tale ci sembra l'origine della sostanziale avversione di Hitler per la «modernità», che egli confonde quasi sempre con l'attualità non accorgendosi che ciò conduce immancabilmente all'odio della vita. Può accadergli così, quando finalmente prende atto che la guerra è perduta, che il suo odio per tutto ciò che non è tedesco (gli Ebrei e i «sottouomini» slavi) si trasformi in odio per «coloro che hanno perduto la guerra», che non sono stati all'altezza della «razza ariana». Sotto questo punto di vista, paradossalmente, è proprio Hitler a dare il via al processo di Norimberga.

Il che è mostruoso, perché chi ama veramente il proprio popolo non può stare dalla parte di quelli che lo metteranno alla gogna! Un simile amore assomiglia troppo a quello che i profeti biblici asserivano Jahwè nutrisse per il «popolo eletto». Né può negarsi che la «passionalità» ereditata dal padre naturale sia stata in Hitler talmente forte da offuscarne la ragione che non gli mancava di certo, da indurlo in errori madornali come l'attacco all'Unione Sovietica in aperta contraddizione con i molto ponderati giudizi del "Mein Kampf", errori dei quali l'ultimo, (l'odio per chi aveva perduto la guerra) è certamente il più grave, specie sul piano «iniziatico» di cui Hitler si credeva «esperto». Perché la Giustizia è sempre dalla parte di chi perde in questo mondo. Che essa stia dalla parte del vincitore è invece articolo di fede del peggior hegelismo e del darwinismo, non appartiene alla fede trasmessa dalla «iniziazione», ma alla «fede» trasmessa dalla «controiniziazione» massonica e marxista-leninista.

Prescindendo dalle nostre critiche e da quelle del tutto interessate di coloro che hanno demonizzato il Führer proprio laddove noi lo difendiamo a spada tratta, è da notare che la sua «sopravvivenza» come massima «incarnazione del Male» (come l'«Anticristo» cui non può seguirne un altro peggiore) potrebbe celare un significato diverso da quello immediatamente percepibile.

Senza contare che se Hitler è l'«Anticristo» e ciò ha come effetto abbastanza scontato che non può darai una ulteriore e più «perfetta» manifestazione del «Male» a tutto vantaggio di ben definiti centri di potere, potrebbe darsi che vi sia in lui, specialmente nelle sue nevrosi, motivo di «involontaria» identificazione da parte dell'uomo comune come dei cosiddetti «potenti». La demonizzazione è infatti sempre una «evocazione», una «fissazione» che non può prescindere dall'auto-identificazione.

Se il nostro argomentare è riuscito in qualche modo persuasivo, quest'ipotesi meriterebbe un'attenta riflessione nel Lettore.

Volendo tralasciare tutte quelle manifestazioni della «civiltà» contemporanea che richiamano scopertamente il peggior nazismo e su cui la stessa Chiesa si è pronunciata con puntualità ma non con un adeguato spirito di crociata temendo di «passare per fondamentalista», proponiamo di seguito alcune osservazioni e spunti di riflessione e di ulteriore approfondimento.

 

Iª osservazione

La psiche dell'uomo contemporaneo appare «dissociata» prima ancora che per effetto dello «stress» indotto dall'accelerazione illimitata dei ritmi lavorativi, propri alla globalizzazione, a causa della destrutturazione dei valori sociali iniziatasi già con le primitive forme del capitalismo, che adesso finisce con lo sconvolgere in profondità l'unità psico-fisica del soggetto alterandone la fisiologia. In regime di globalizzazione avanzata, l'hobbesiano «homo homini lupus» è ormai insufficiente a significare la solitudine risentita e aggressiva dell'uomo, sulla base della «dissociazione psichica» descritta. A parte le significative turbe della sessualità, è frequente riscontrare una incapacità a cogliere la propria identità e quella del mondo circostante (incapacità aggravata dalla onnipresente mediazione della «realtà virtuale» del computer) a un di presso come la si riscontra nella sintomatologia della «demenza senile» (in specie per come, in questa malattia, si esprime il rapporto col denaro, una «avarizia» dai connotati sostanzialmente infantili).

Quando si trapassi dal piano psico-sociologico a quello «filosofico», è dato osservare come le teorie popperiane sulla «società aperta» siano perfettamente funzionali a coniugare la «solitudine risentita» dell'individuo col modello klagesiano dell'«uomo pelasgico», ripropostoci da Cacciari ne "L'Arcipelago" nei termini pseudo-etici del «vagabondo per scelta». Siamo così giunti sul piano della «nuova moralità» del «villaggio globale» e della «società multirazziale». La filosofia del «nuovo diritto» teorizza un «diritto alla libera deambulazione» come compimento necessario dei "Diritti dell'uomo e del cittadino", proclamati dalle rivoluzioni americana e francese, diritto che si pretende «fondamentale» di una società «cosmopolita» veramente «aperta» in termini popperiani. Il che a noi sembra una speciosa legittimazione di una nuova schiavitù con cui l'anarco-capitalismo pretende di sacralizzare lo sradicamento dei popoli dei cinque continenti dopo averli «pelasgizzati» con le seduzioni della «liberazione dalla povertà» e della «civiltà del benessere», nonché con l'ostentazione, complici certe gerarchie del Vaticano, di un «nuovo umanesimo cristiano» del Terzo Millennio i cui «Santi» sarebbero Madre Teresa di Calcutta e Padre Pio, personaggi che furono certamente sinceri e a cui pertanto non si rivolgono le nostre «maldicenze»; che, specialmente nel caso del Frate di Pietralcina, furono osteggiati e quasi perseguitati da quegli stessi che ora propongono di santificarli.

A costo di essere pedanteschi, vogliamo precisare che la deformazione della psiche con quanto si è detto seguirne, non sono per noi da imputarsi solo al costituirsi storico e allo svilupparsi del capitalismo fino alla forma attuale. La loro vera causa, come quella dello stesso capitalismo, è da ricercarsi nell'insorgere non precisamente «storico» nel senso corrente dello storicismo, del «risentimento» e dell'«ideologia» che ne è il necessario prodotto in termini propriamente «storici».

Dobbiamo, in altre parole, risalire all'inizio dell'«Età Oscura» che per i Paesi dell'area mediterranea (qui se ne hanno le prime avvisaglie presso gli Ebrei, quasi un secolo prima che in Grecia, all'epoca della «cattività babilonese», mentre, sempre nel VI secolo, se ne prende coscienza nell'area indo-cinese con Buddha e Confucio), il suo avvento non può ritenersi determinato in alcun modo dalla «perversa influenza» esercitata sugli Indoeuropei dall'«elemento semitico», ha piuttosto un carattere endogeno e cosmico. Anzi, secondo gli antichissimi "Veda" e "L'Avesta", testi sacri della Tradizione Ariana, l'«Età Oscura» risalirebbe ad epoca di parecchio anteriore al VI secolo: precisamente all'ultima glaciazione che rese necessario l'abbandono della «sede artica», e che fu causata dalla sensibile inclinazione dell'asse terrestre indotta da «una malvagità umana oltrepassante il segno». È da dire, in aggiunta, che i Greci ebbero contatti coi semiti Fenici prima che con gli Ebrei, e avrebbero potuto sottrarsi alla «fascinazione punica» come fece Enea, capostipite della Romanità. (cfr. Virgilio, "Eneide", IV, 353-413)

È comunque vero -e va sottolineato- che la Bibbia pone ai primordi il fratricidio di Caino, fratricidio inequivocabilmente dettato dal «risentimento» e che in alcun modo è riconducibile alla dottrina tradizionale dei Cicli storici. È oltremodo sintomatico, poi, che nel libro profetico di Isaia, primo esemplare della letteratura apocalittica, il «risentimento» acquisti una valenza addirittura «teogonica», con la descrizione della ribellione di Lucifero e della sua successiva «caduta». (cfr. IS, 14, 12 e segg.),*

A proposito della «caduta» degli Angeli e dell'irruzione del «Male» sul piano metastorico prima che storico, è degno di rilievo ricordare che nel libro di Enoc essa avrebbe, in perfetta coerenza con la mentalità ancora «primitiva» dell'Autore, una causa sessuale, avendo alcuni Angeli avuto rapporti con bellissime donne dando luogo alla razza «maledetta» dei Giganti. Questa idea dell'Apocrifo vetero-testamentario la si trova però anche nel "Genesi" (cfr. 6, I-7). Il problema della «caduta» di Lucifero trova la sua soluzione teologica definitiva nella Patristica del IV secolo, che ne individua la causa nella ribellione dell'Angelo a Dio dettata dall'intenzione di prenderne il posto e ispirata da ciò che potremmo chiamare la quintessenza del «risentimento», trattandosi di un «risentimento» totalmente immotivato in quanto fra gli Angeli Lucifero era il prediletto. Così nella teologia cattolica ancora non sottoposta a revisione, a quanto ne sappiamo, il «risentimento» acquista una valenza «teogonica» molto articolata che non si trova nemmeno in Isaia e che, a nostro modo di vedere, risale alla "Apocalisse" giovannea, non a caso accolta come canonica fra le varie apocrife del "Nuovo Testamento". S. Agostino non solo vede l'origine dello Stato (la «seconda Città») nella ribellione di Lucifero e il fondatore dello Stato nel fratricida Caino, ma afferma che il fondatore di Roma è egli stesso un fratricida. Viene così a stabilirsi una significativa equazione fra Caino e Romolo, fra Babilonia e l'Impero romano, proprio nel senso della "Apocalisse" giovannea (cfr. "La città di Dio", Firenze '74, pp. 75-90). Ma circa il fratricidio di Romolo che indubbiamente fa pesare sulle origini di Roma l'ombra del «risentimento», può essere di qualche utilità confrontare lo stato d'animo di S. Agostino (che resta un «passionale» anche dopo aver smesso i panni del «viveur» ed essersi convertito) con quello di Tito Livio, orientato ben diversamente a una impassibile lucidità e a un superiore senso di giustizia. A differenza dell'Autore del "Genesi", Livio non ci presenta i due fratelli l'uno «buono» e gratificato dal favore divino, l'altro «cattivo» perché non comprende e rifiuta che i suoi sacrifici non siano ben accetti alla divinità. Per Livio, Romolo e Remo sono ambedue cattivi perché ambedue affetti da «quel male ereditario che è la cupidigia di regnare», per cui ne «nacque l'indegna contesa originata da motivi piuttosto futili» per cui Remo, che avrebbe potuto comunque riuscire vincitore, rimane ucciso (laddove, invece, Abele doveva in ogni caso soccombere perché «buono», predestinato a spargere il proprio sangue come Isacco che però in extremis viene salvato, come Gesù che al contrario non viene risparmiato), Ma nella sua ricostruzione del fratricidio di Romolo, Livio riferisce la «leggenda» secondo cui Remo sarebbe stato ucciso perché, non avendo accettato il responso degli Auguri e l'espressa decisione degli dei a favore del fratello, avrebbe oltrepassato «con un salto» le mura di Roma, credendo scioccamente di burlarsi di Romolo, mentre in effetti offendeva Roma, offendendone il Re. Pertanto Romolo -sembra suggerirci Livio col racconto di questa «leggenda» che rispecchia una consolidata persuasione della coscienza popolare romana- non uccide il fratello, ma il ribelle nonostante sia suo fratello.

Epperò questo Livio non dice. Ciò che dice è la condanna del fratricidio, anzi dell'assassinio che proviene dal risentimento e in cui gli dei non possono avere alcuna parte, né come promotori secondo il loro «piano provvidenziale», né, tanto meno, come «testi a favore» invocati dagli assassini.

 

IIª osservazione

Ove si accetti la conclusione che traiamo dal confronto fra S. Agostino e Livio, si potrebbe anche condividere che la « dissociazione psichica» propria all'uomo contemporaneo abbia radici molto lontane; e che se questa «dissociazione indotta dal risentimento» non può attribuirsi all'azione dell'ebraismo e del cristianesimo come tali, tuttavia essi non hanno contribuito certo a sanarla in quanto, per le loro caratteristiche e per la loro interdipendenza sia pure «dialettica», non lo potevano.

Ciò è particolarmente grave per il cattolicesimo romano dati gli stretti rapporti che ha avuto, a differenza delle altre confessioni cristiane, con la tradizione del «paganesimo» la quale, con la sua concezione dei «Cicli storici», è ancora vivissima, in un autore cattolicissimo come il Vico. Se la presenza di una retta coscienza come quella di un Virgilio e di un Livio, era ancora vitale fino al Settecento non solo presso qualche «filosofo» isolato ma nelle medesime tradizioni popolari, gli insuccessi del cattolicesimo devono essere totalmente ascritti alle improvvide decisioni delle gerarchie ecclesiastiche. Non è azzardato sostenere che la sconfitta del cattolicesimo, anche quando le decisioni delle gerarchie erano nella direzione giusta (in non pochi casi al tempo della Controriforma e della Restaurazione), dipenda da un vizio di fondo, contro cui si appuntavano già gli strali del migliore francescanesimo, di Dante, del Savonarola, prima ancora che di Lutero.

E questo vizio di fondo del cattolicesimo è ciò che eufemisticamente si potrebbe definire una «eccessiva attenzione per la materia», per quel suo aspetto «peccaminoso» che S. Paolo chiama «carne» e oggi si chiama «corpo». Le stesse prescrizioni repressive che riguardano la «carne», la sua stessa «demonizzazione» che accomuna S. Paolo, S. Agostino e S. Antonio l'Eremita, denunciano la debolezza sostanziale del cattolico verso le «forze della natura», la sua estrema fragilità a fronte della tentazione di risprofondare nel Caos primigenio che gli deriva dalla componente giudaica. Le storture della scienza cristiana e del «progresso», che agiscono tanto più fortemente negli scienziati sedicenti «atei», hanno questa causa e non altra.

Pertanto la contemporanea «idolatria del corpo» vale quanto la sua «mortificazione» praticata specialmente e coerentemente dal «popolo cristiano» nel Medioevo.

Oggi i cristiani praticano l'«idolatria del corpo» con lo stesso mistico fervore con cui ieri ne praticavano la «mortificazione». È questo il significato «teologico» della «società opulenta». Se la Chiesa rifugge dalle «crociate» e si limita alle semplici denunce contro quello che a suo dire, sarebbe il «nuovo paganesimo», non è soltanto per «opportunità» e anzi opportunismo, ma perché si è finalmente accorta che non può farlo senza contraddire la sua vocazione più profonda e «originaria». In ciò occorre renderle atto di una certa coerenza, in ciò bisogna riconoscere il fondamento etico (ovviamente dal punto di vista cristiano) della sua «apertura al dialogo» con gli altri cristiani, con tutte le «confessioni religiose» compresa quella dei Boscimani, perfino con gli «atei» negatori di qualsiasi trascendenza. Lo stesso «buonismo» che oggi distingue i cattolici e in cui gareggiano i loro «fratelli separati» bolscevichi ed ex-bolscevichi, ha una sua motivazione «etica», il riconoscimento della quale da parte nostra non dovrebbe da loro esser ritenuto soltanto offensivo, visto che essi invitano tutti al «dialogo sincero». Il disaccordo va certo espresso con «urbanità» e senza ledere il «rispetto che si deve a tutti», ma non fino al punto di scadere nell'ipocrisia che è maschera del «risentimento» e indice di «dissociazione psichica».

Anche noi, da parte nostra, siamo per il «dialogo». Ma intendendolo nel suo significato radicale di confronto delle varie posizioni e in uno spirito di sincerità che non pone «cristianamente» i limiti delle «umane capacità» e di pretesi «superiori interessi», sia pure concepiti «teologicamente» in ordine ai «piani imperscrutabili della Provvidenza». Né ci si può accusare di «superbia». Perché l'«umiltà» non può esimere nessuno -e a fortiori chi si professa «cristiano»- dall'obbligo di essere sincero, obbligo che gli uomini riconoscevano sacro assai prima dell'avvento del cristianesimo e che è tuttora fondamentale presso le religioni diverse dal cristianesimo.

È poi nostra fermissima convinzione che ciò che i cristiani chiamano «Provvidenza» sia comunque in grado di riparare agli «errori umani», che la Divinità possa ben ridersene della «superbia umana» e non certo, secondo noi «in ultima analisi». Pertanto non ci si può affatto rimproverare di «mancanza di umiltà! Semmai nella nostra posizione si dovrebbe vedere un eccesso di umiltà. Che tuttavia non è affatto un vizio poiché, in un certo senso, è la conseguenza di quella suprema forma di «superbia» che consiste nel saper vincere la paura levandosi in piedi contro ingiustizia e prevaricazione, contro ciò in cui veramente consiste la «superbia umana» e che non è una esclusiva dei cosiddetti «potenti» essendo propria altresì al «risentimento» dei sedicenti «deboli» e «poveri di spirito», in definitiva alla concezione errata della «potenza» che noi abbiamo mostrato essere alla base dell'ebraismo profetico e post-profetico, nonché del cristianesimo in quanto ne rappresenta una componente essenziale.

Siccome il «risentimento» è ineliminabile dal cristianesimo, la sua estinzione, principiata con la comparsa delle «teologie moderniste» e resa «ortodossa» in ambito cattolico dalle decisioni del Concilio Vaticano Il, potrebbe essere il sintomo della imminente fine del cristianesimo. Secondo noi, l'estinzione del «risentimento» che abbiamo colto come fatto a suo modo «etico» al di là degli innegabili tatticismi di marca gesuitica, è un fenomeno assai più significativo, in ordine all'«apocalisse del cristianesimo», della stessa cosiddetta «secolarizzazione». La quale per noi, invece, non è altro che la occulta vocazione del cristianesimo manifestatasi fin delle sue lontane origini e nei modi in cui fu descritta acutamente dagli Autori della tarda «paganità», in specie negli scritti di Giuliano imperatore detto l'«Apostata».

Queste affermazioni -è bene ricordarlo- possono suonare «anti-cristiane» solo ove provengano da chi si illude di essere fuori dal cristianesimo e pretenda di essere «antagonista» rispetto ad esso. Ma noi, non solo in questo scritto, abbiamo sempre affermato, in toni fortemente polemici e persino sprezzanti nei confronti della «scienza sperimentale» e delle sue derivazioni marxistiche e «cristiano-bolsceviche», che non nutriamo tali illusioni e pretese.

Noi ci sforziamo di porci al di là del «risentimento». Non siamo affatto «originali» per questo. Riprendiamo una via che fu già battuta da Giuliano imperatore. Non importa che Egli sia stato sconfitto. Facciamo in modo di non esserlo noi. In questo modo, e soltanto in questo, rivendichiamo la nostra «arianità» senza paura di «cadere in errore».

Francesco Moricca

 

 

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