da "AURORA" n° 51 (Settembre 1998)

RICORDI

 

Dal «maggio radioso» a «Vittorio Veneto»:

quando la storia intristisce nel ricordo personale

Michele Bianchi

 

 

La Prima Guerra Mondiale la hanno vissuta i nonni degli attuali cinquantenni. I nonni se non sono morti è come se lo fossero in una società come questa. I cinquantenni, afflitti da molteplici problemi, trovano insopportabili i nonni, le loro «fisime», la loro «arteriosclerosi», la loro povertà materiale» e la loro «ricchezza» se sono «ricchi», perché «non si decidono a lasciarla». Se una qualche comunicazione resta possibile coi nonni, è quella molto indiretta della memoria dei cinquantenni. I quali ricordano la propria infanzia e adolescenza, quando il 4 Novembre era festa nazionale, una vacanza nel senso proprio del termine. Allora non esisteva la sindrome da vacanza che distrugge lo spirito della festa, allora andare a scuola era una cosa seria, un lavoro. In qualche modo il 4 Novembre era il Primo Maggio degli studenti, dalle Elementari alle Superiori. Ci insegnavano che la Nazione è come una grande famiglia in cui tutti lavorano per il «bene comune» e che esso non è soltanto il «benessere», che la nazione sono soprattutto i giovani perché da essi dipende in sostanza il suo futuro, il futuro della «grande famiglia». Il fascismo non c'era più, ma c'erano quelli che erano stati fascisti, i genitori, gli zii, i nonni che avevano fatto la Grande Guerra senza cui non ci sarebbe stato il fascismo. I nonni , con la loro affettuosa bonomia, rappresentavano il lato positivo del fascismo quanto genitori e zii ne rappresentavano il lato peggiore. Più o meno consapevolmente ritenevamo che essi non avessero diritto a comandarci perché avevano perso la guerra, e in malo modo. Avevano sprecato la vittoria conquistata con tanto sacrificio dai nonni. Nella durezza con cui ci comandavano vedevamo della cattiveria gratuita che attribuivamo alla loro cattiva coscienza. I nonni, invece, che pure non erano sempre teneri, non erano mai gratuitamente cattivi. Sapevano anche maltrattare i loro figli -i nostri genitori- e questi non si azzardavano neanche a replicare.

Negli anni Cinquanta-Sessanta così noi vedevamo i nonni. Ora, invece ... Solo la memoria del 4 Novembre e di quanto vi si collega secondo la logica della memoria ci lega a loro. E non sappiamo neanche dirglielo. Che essi siano morti da un pezzo non ci consola, forse ci rende più struggente l'amarezza.

Noi non abbiamo conosciuto il fascismo ma ne siamo stati allevati nel bene e nel male; in questo, soprattutto, per quel che se ne diceva, e in modo tale che la nostra considerazione per il fascismo cresceva oltre ogni misura in ragione della pochezza dei suoi detrattori. Vi era poi allora un «nostalgismo», assai diverso dall'attuale, che impregnava di sé tutta la società e che esercitava su di noi un grande fascino. Alle Elementari il Maestro, in aula, ci insegno "Giovinezza". Nella Villa Comunale di Vibo Valentia troneggiava il monumento al fascista sansepolcrista Luigi Razza. In ciò non si ravvisavano gli estremi dell'«apologia del fascismo»... Già, la mia città si trova in Calabria..., l'«arretratezza» e quant'altro si voglia aggiungere sulla nostra «prossimità all'Africa». Ma non si può negare che in questa Città, in questa Calabria, durante il Sessantotto ci si dava convegno da tutta Italia e si trovavano nelle edicole i "Quaderni Piacentini". Quando a Vibo «si sbagliava per arretratezza» si facevano anche «cose giuste per il progresso». Altrove si facevano «solo cose giuste», si era più limitati e la «dialettica» era solo una parola anche quando si trasformava nella «dialettica delle armi», sempre al servizio dei nemici della causa per la quale si asseriva di combattere. Questo però allora nessuno dei combattenti lo sapeva, non lo sapevano né i «fascisti» né i «comunisti». Comunque, a Vibo Valentia, non si ebbero mai episodi di grave e bestiale violenza. «Fascisti» e «comunisti» si bastonavano e si facevano anche un po' male. Ma non avevano intenzione di scannarsi. Tanto è vero che, dopo le botte, riuscivano anche a parlare non solo nell'ufficialità, del pubblico dibattito. E si badi che Vibo Valentia è vicina a Reggio Calabria. È qui, a Vibo Valentia, che nella seconda metà degli anni Sessanta si denunziò -credo per la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana- la collusione di mafia e politica, cui si accompagnò una fra le prime disamine scientifiche del fenomeno sulla rivista "Quaderni Calabresi". Seguì un processo contro la redazione della rivista in cui si trovavano accanto comunisti e liberali, che si concluse con la sentenza del 10/2/70 emessa dal Tribunale di Locri e confermata dalla Corte d'Appello di Catanzaro con piena assoluzione (la vicenda dovrebbe essere ripresa per comprendere, al di là delle correnti mitologie, il ruolo che la Magistratura ha avuto e potrebbe ancora avere nella storia della Repubblica).

Ciò dovrebbe esser sufficiente per capire in profondità quale era la situazione della Città in cui ho trascorso buona parte della mia infanzia e giovinezza: per capirla al di là delle possibili distorsioni in senso favorevole della mia memoria. Certamente non fu un caso isolato. Ve ne erano di molto simili in Piemonte, e in Lombardia, e una emigrazione giovanile da queste regioni a Vibo Valentia si verificò in effetti nel periodo della «Contestazione». Fu un episodio limitato ma significativo. In qualche caso la permanenza durò anche qualche anno.

 

* * *

Ora io mi sono persuaso che quanto accadde in talune città italiane trent'anni fa fu per iniziativa non soltanto giovanile; i nonni hanno avuto un ruolo invisibile non meno che determinante. Essi hanno trasmesso a noi giovani l'esperienza fondamentale che hanno tratto dalla Grande Guerra; non solo che un Piemontese è molto simile a un Calabrese come aveva acutamente osservato Gramsci, ma soprattutto che vi sono momenti in cui si deve superare ogni considerazione particolaristica e la stessa «lotta di classe», momenti in cui non si può «barare» e il riuscire a non farlo diventa una questione d'onore, l'unica situazione in cui all'individuo è dato di «badare a se stesso» senza cadere nell'egoismo.

È per questo che non pochi Vibonesi assieme ad altri Italiani hanno evitato che la «dialettica» degenerasse in guerra civile, nel '17 e nel '68. Che essi siano stati in buona fede, per quanto «pochi» siano stati, può benissimo compensare le malefatte dei «tanti» che non lo erano, o che, più semplicemente, non erano all'altezza dei compiti.

Il 25 giugno 1916, il Colonnello Comandante del 219° Reggimento di Fanteria indirizzava al Sindaco di Vibo Valentia (allora Monteleone Calabro) una lettera dalla zona di guerra in riconoscimento del valore dei Vibonesi che numerosi si trovavano nel Reggimento. Egli li chiama «soldatini», alludendo alla bassa statura, e dice: «Nulla hanno da invidiare in agilità, resistenza, forza d'animo, sentimento patriottico, in valore e sprezzo del pericolo ai robusti e vecchi soldati delle Alpi; nuovi alla guerra, compenetrati dell'ora attuale, hanno gareggiato e superato i vecchi soldati. (...) Siate orgoglioso di essere capo di simili cittadini; incidete a carattere d'oro nel vostro Albo Pretorio i nomi di questi umili eroi a perenne memoria della loro grandezza e della gratitudine che ad essi deve la Patria. (...) Prego la V. Cortesia di comunicare quanto sopra ai Signori Sindaci del Vostro Circondario che annoverano anch'essi molti giovani nel mio Reggimento».

Su una popolazione di circa 15.000 abitanti, i caduti furono 171, le medaglie d'oro 1, quelle d'argento 7, quelle di bronzo 34 e si sa che, a differenza di quanto si verificherà durante la Seconda Guerra Mondiale, durante la Prima si era piuttosto parchi nel concedere riconoscimenti al Valor militare.

Può darsi anche che in noi vi sia una punta di campanilismo nel citare i dati riportati. Vero è, comunque, che, se non ci resta «altro che la memoria», non sapremmo ad essa abbandonarci senza un qualche fondamento solido nella realtà dei fatti e nell'«arida ragione delle cifre».

 

Fra gli «umili eroi» vibonesi di cui si dice nella lettera del Comandante del 219° Reggimento, ve ne fu uno cui toccò una sorte può darsi peggiore della morte e che non ebbe, né poteva avere, alcuna medaglia al V.M. Era un anziano Professore di Storia e Filosofia del Liceo "Michele Morelli", che a seguito di una ferita all'inguine aveva subito una grave mutilazione per la quale aveva dovuto rinunciare al matrimonio. Non ne faceva un mistero di essere «monocoglione» ed era la prima cosa che dichiarava quando si presentava a una nuova classe. Allora, quando non si era sposati e si conduceva vita solitaria, era bene dirne il perché per evitare «pettegolezzi». Il Professore era un eccentrico. Quando non si sapeva avere considerazione per la sua nobile menomazione, veniva quasi spontaneo metterla nel novero delle sue eccentricità. Era dei Professori del Liceo fra i più amati se non il più amato per queste sue eccentricità. Lo si amava non solo perché non era un burocrate e un «orrido rompicoglioni» ma perché era «divertente», per le sue trovate e per quello che trasmetteva attraverso esse. Era saggio come un vecchio e leggero e giocherellone come un bambino, fino al punto di sfidare impunemente il ridicolo. Aveva nominato capoclasse il meno meritevole e il più inadatto solo perché «di buona famiglia» e perché «il sangue non mente mai». Poco gli importava se questo capoclasse fosse piuttosto il «capochiasso», l'orditore di scherzi memorabili di cui qualche volta era vittima lo stesso Professore. Lui faceva finta di non accorgersene e forse non se ne accorgeva davvero, perché le cose in classe «filavano lo stesso per il verso giusto» come diceva lui, né mai ebbe «rimproveri dall'Autorità perché non sapeva mantenere la disciplina». Il Preside metteva nel suo Corso i più «turbolenti» per sistema e lui, lungi dal lamentarsene, se ne faceva un vanto.

Nelle sue prolusioni era solito dire: «Ho dato un coglione alla Patria e non ho potuto darle dei figli; i miei figli sono Aristotele e Platone, i miei due gatti. Il primo è un po' birichino, l'altro molto sensibile. Se lo volete, potreste anche voi essere miei figli». Ci veniva da ridere per essere messi sullo stesso piano dei gatti, ma oggi so che noi allora, avevamo proprio la natura di questi intelligenti mobilissimi e ancor più volubili felini. Avevamo una natura volubile soprattutto perché eravamo disorientati, fuorviati dalla propaganda «progressista» che trovava un terreno fertile in un «bisogno atavico di riscatto» che allora, diversamente da oggi, trovava risposte concrete e a loro modo anche coerenti. Ma quel che mancava già da allora ai «progressisti» era il cemento di una vera fede. Si navigava già allora nei mari insidiosi del relativismo e imparammo a identificare, appunto, il «progresso» con questo relativismo e con la spregiudicatezza che faceva di noi dei «felini». L'unico fra i nostri Insegnanti liceali che aveva una vera fede era il Professore. Ma era la fede di un principe decaduto, rigidamente monarchico e incapace di confrontarsi con la modernità in altra maniera che non fosse quella della sua individuale e melanconica individualità con un anticonformismo che si esercitava sui due poli della sua mutilazione e dell'amore sviscerato per «gatti figli». In realtà, io credo, egli amava i gatti perché ne invidiava la volubilità e spregiudicatezza essendone del tutto incapace. I suoi allievi erano perciò «gatti» che egli avrebbe voluto educare a non eccedere in spregiudicatezza. In questo non potè che fallire, perché la sua bontà era naturale, egli non conosceva il male, non era capace di farlo e quindi la sua bontà non veniva da una «scelta». Se ne rideva della «morale» e più ancora della pretenziosa «etica kantiana».

Per lui il «nobile» altro non era, né poteva essere, che un «animale di razza»; un uomo che non si vergogna della sua «animalità», ma la esalta. Essere «speculativi» era per lui riconoscersi e volersi fino in fondo per quel che si è. Questa la chiamava «fierezza». La sua mistica della fierezza lo portava e credere nella «santità del duello». La guerra era per lui un «duello fra popoli» e asseriva, non del tutto a torto, che così anche la pensava il «buon Clausewitz». Il «bene» era la fierezza e l'andare fino in fondo a qualsiasi costo «se il Re lo comanda». Marx era per lui un «volgare filibustiere» perché tutto subordinava alle ragioni economiche, e in effetti «truffava» i cosiddetti «diseredati», perché li aveva convinti, non credendoci lui per primo, che la loro sostanziale mancanza di fierezza fosse una virtù che si potesse ottenere con l'espediente di «coalizzarsi contro i pochi veramente fieri».

Di Mussolini diceva che «si era provato di dare fierezza ai miserabili». Nobile iniziativa che però «non poteva che fallire», almeno nei tempi comunque brevi della vita di un uomo per quanto longevo lo si possa immaginare. Era un uomo «d'onore» sebbene di «bassa estrazione». Fu fedele sempre al re «né può pretendersi che dopo il fattaccio del 14 luglio e dell'8 settembre facesse la Resistenza agli ordini di Cadorna». Il re non era affatto un «fellone» ma un uomo troppo prudente, fino al limite della «spregiudicatezza». Se non fosse stato un re sarebbe stato un «mascalzone». Ma aveva saputo fin troppo bene essere re. Quando aveva voluto l'intervento dell'Italia nella Grande Guerra, quando divenne l'anima della riscossa dopo Caporetto, quando sostituì col napoletano Diaz il piemontese Cadorna, quando diede fiducia a Mussolini che era di gran lunga il migliore dei pretendenti alla carica di Primo Ministro. È troppo presto diceva il Professore per esprimere un giudizio imparziale su Vittorio Emanuele III. Benedetto Croce, che come «vero storico» il professore giudicava «inesistente», ha distrutto questo sovrano ricorrendo all'espediente di attribuire a lui i suoi personali, vizi e difetti. Allora Croce era ancora un'autorità, culturale, ma il Professore non si peritava di sprezzare come «peggiore del peggiore comunista, questo pretenzioso intellettualoide che ha avuto l'unico merito di possedere ventimila pecore».

In effetti il Professore odiava più i «liberaloni» che i comunisti. Senza la rivoluzione francese e senza Robespierre non ci sarebbe stato Marx e soprattutto Lenin». Per lui Croce aveva in sé qualcosa dei tre, e «il miscuglio e anzi la miscela lo rendeva pericoloso e spregevole come non lo erano ognuno di loro; che egli non abbia versato sangue dipendeva solo dal fatto che gliene mancò l'occasione; con gli uomini aveva un rapporto peggiore che con le sue pecore, perché agli uomini non perdonava di non lasciarsi tosare». A chi gli faceva notare che anche lui aveva un rapporto particolare cogli animali che influenzava quello cogli uomini, rispondeva candidamente: «Ma io non toso i gatti, e do loro da mangiare pesce fresco di giornata». In effetti il Professore, prima di venire a scuola, passava al mercato a comprare il pesce («merluzzetti») per Aristotele e Platone, e lo metteva nella borsa dove riponeva religiosamente anche un ordinatissimo registro. Il «principe del sangue», che vantava un antenato ucciso all'assedio di Palermo, da una freccia saracena, nel X secolo, era perennemente circondato da un'aura maleodorante di pesce e gatto. Non poteva accorgersene e nessuno se la sentiva di dirglielo. Questa era vera tolleranza e si spiega perché l'ironia di cui era oggetto il «principe del sangue» non degenerasse mai nel sarcasmo voltairiano, benché i Vibonesi ne fossero capaci quasi come i Fiorentini. Si possono non condividere le sue vedute anche prescindendo dalla loro intenzionale eccentricità, ma è difficile negare al Professore il merito di sapersi rendere «rispettabile», nel senso migliore del termine. Sapeva farsi «accettare». Il che dimostra che, nonostante tutto, non gli mancava il senso della realtà. In una città di provincia, «arretrata» ma toccata dall'illuminismo -e dal relativismo- in profondità fin dai tempi dell'Ottocento durante l'occupazione francese. Il Professore rappresentava il contraltare del «dogmatismo», senza essere né un bigotta né un codino. Per questo era un sicuro punto di riferimento, e quanti ebbero la fortuna di averlo come insegnante furono senza dubbio meno esposti al disorientamento generale di cui soffrì in gioventù la generazione degli attuali cinquantenni. Va detto che noi non siamo stati suoi allievi. Tutto quanto riferiamo lo abbiamo appreso dalle cronache giornaliere dei «turbolenti» nostri amici o semplicemente conoscenti.

Può essere indicativo del carattere del Professore, il fatto che nella classe del «capoclasse-capochiasso» di cui si è detto, vi era un «derelitto» che del capoclasse era, sotto tutti gli aspetti, l'immagine diametralmente opposta. Si chiamava Otello, ma del personaggio shakespeariano aveva solo il colorito piuttosto scuro della pelle, anzi nemmeno quello -secondo il Professore- perché il vero Otello «doveva essere decisamente ancora più scuro di carnagione». Con la cattiveria mista di bonomia «tipica dei Vibonesi», si intercalavano i discorsi rivolti a lui e quelli che a lui si riferivano con un «Otello, cacatello merdosello, in una mano hai la zappa e nell'altra Omero». Sembra che così una volta lo abbia apostrofato il «principe del sangue». Sta di fatto che questa specie di filastrocca veniva pronunciata imitando il modo di parlare, a denti stretti e sibilante, del Principe del sangue». Nonostante Otello fosse una «rapa» non fu mai rimandato in Storia o in Filosofia, per premiare -diceva il Professore- il suo essere «sempre presente, molto diligente e molto volenteroso». E proseguiva: «Tu saresti stato un buon soldato durante la Grande Guerra. Peccato che di guerre così terribilmente belle non ce ne saranno più. Ne più ci sarà un Ufficiale che sappia apprezzarti. Ricordatelo, Otello: non lasciarti mai incantare dalle cazzate dei liberal-bolscevichi; tu per loro sei la pecora giusta da tosare. Per me, invece, sei un gatto, come Aristotele e Platone».

Il 5 novembre di un anno che non saprei precisare, il «capoclasse», per scherzo, comunicò al Professore che la classe chiedeva il permesso di osservare due minuti di silenzio per commemorare i Caduti della Grande Guerra. Il Professore, alquanto sorpreso, acconsentì. Si slacciò dal polso l'orologio e lo mise sulla cattedra per controllare il tempo. A un certo punto, gli occhi celesti parvero più appannati del solito e due lacrime gli colarono lungo le guance. Il «capoclasse» mi confidò poi che avrebbe voluto «sprofondare».

 

Il Professore non interrogava mai nessuno al modo tradizionale allora ancora in voga. Non spiegava nemmeno la lezione, si limitava ad assegnarla. Parlava sempre lui, perché, diceva, «l'insegnamento è come un fenomeno elettrico di tipo induttivo; ha proprio ragione il buon Gentile». Seguiva l'«estro» dei suoi pensieri, oppure prendeva spunto dall'occasione, «come Goethe che aveva teorizzato la poesia d'occasione». A volte si interrompeva e chiedeva a qualcuno quella parte del programma «letto e meditato» che aveva riferimento con quanto andava dicendo. Dopodichè metteva il voto sul registro dopo averlo espresso palesemente. Se non si era d'accordo, venivano fatte altre domande. Ma nessuno si arrischiava. La valutazione doveva essere accettata «come un vaticinio». Se qualcuno «sfidava e superava la prova del vaticinio» poteva avere anche 10, un voto che allora in pratica non esisteva (il massimo era 8, ma solo come voto finale). Si diceva che qualcuno, illo tempore, avesse superato la prova. Ma non si sapeva niente di sicuro, il Professore restava «abbottonatissimo», e si aveva modo così di gustare con lui anche il sapore delle leggende.

Non di rado raccontando le sue esperienze di guerra, di «ragazzo del 99», si soffermava sul significato della guerra e del ruolo che in essa gioca l'imponderabile. Passava da Alessandro a Napoleone per poi disquisire di Cesare. Vi era del favoloso e del grandioso nelle sue rievocazioni, e quando al poetico si aggiungeva la considerazione filosofica, si arrivava alle vette «del sublime», se si riusciva a seguirlo. A volte sembrava che dicesse delle castronerie. Alcuni ne trassero la lezione «salutare» che la filosofia e più ancora la storia fossero delle «castronerie». Erano gli «spiriti matematici» che all'Università non avrebbero scelto Matematica perché «rendono di più l'Ingegneria e la Medicina». Altri -quelli destinati a «grandi cose» o a «grandi fallimenti»- da queste strane lezioni impararono che l'intelligenza e il suo contrario sono separate da un velo sottilissimo e quasi impercettibile, che su questo limite si gioca tutto, nella vita dell'Universo, nella più piccola particella atomica, nella storia dei Popoli e in quella dell'individuo.

 

* * *

Noi, caro Professore, viaggiamo ormai a grandi passi verso l'età che avevi Tu quando noi eravamo i tuoi «gatti». Come vorremmo conservare fino alla fine quella natura «gattesca» che Tu, sia pure indirettamente e nel racconto dei «turbolenti», hai saputo «coltivare» perché non la esercitassimo sulla via «facile» del successo, ma su quel limite impercettibile dove si gioca tutto e dove, forse, «il Tutto gioca con se stesso, l'Essere col Nulla». Noi non possiamo accettare il tuo modo di «essere di destra» per quanto potremmo anche condividere certi tuoi convincimenti sulla Monarchia, e persino su un Vittorio Emanuele III (ed è il massimo che possiamo fare per il rispetto e non solo per l'affetto che ti sei saputo conquistare con quelle che Tu chiamavi le tue «fisime» e che non lo erano affatto). Ci siamo persuasi che il tuo destrismo conservatore aveva le medesime radici di quello del tuo re, sebbene in te si manifestasse in forme rivoluzionarie perché Tu eri un puro e un estroverso nonostante la tua menomazione, mentre il tuo re era proprio il contrario e tale sarebbe stato anche se non fosse somigliato, per via delle gambe, al pittore Lautrec senza barba. Voi eravate conservatori a causa della vostra concezione pessimistica della natura umana. Eravate chiusi a ogni cambiamento radicale, specie in ordine alla questione sociale, perché convinti che la «massa» avrebbe finito per mandare tutto in malora se non fosse stata militarizzata. Concepivate l'organizzazione solo come organizzazione burocratico-militare (Tu, caro Professore, col tuo metterti sotto i piedi la burocrazia, in realtà opponevi alla burocrazia dell'«Italietta repubblicano-resistenziale» un altro modello di burocrazia, quello scaturito dall'incontro fra il dispotismo illuminato settecentesco e quello militare napoleonico del primo Ottocento). Ignoravate, credo del tutto, che è possibile un altro tipo di organizzazione sociale, non esclusivamente militare, e tuttavia non in contraddizione con lo spirito militare persino nelle attività che sono più distanti dalle attività proprio all'esercito. Per essere veramente esaustivi, bisognerebbe dire che voi lo ignoravate intenzionalmente, non per gretto egoismo -e non può essere il Tuo caso-, ma perché temevate che le «masse» avrebbero finito per distruggere l'edificio che l'aristocrazia aveva costruito e che voi, non a torto, identificavate con la Civiltà. Non mi dire, Professore, che la storia vi ha dato ragione a vergogna della «cricca liberal-clericobolscevica» che in versione sempre e comunque «progressiva» continua a sgovernare quest'infelice Paese. Perché se voi non aveste avuto paura di mettere a repentaglio le sorti della «Civiltà» non è detto che noi saremmo ancora qui, assieme ai vostri spettri, a condolerci delle nostre sciagure che sono a un di presso identiche a quelle che lamentava il Petrarca nel Trecento.

Tu, Professore, hai servito il tuo re e la tua Patria a un prezzo superiore alla stessa vita. Hai saldato il conto col tuo errore e sei ancora in credito col tuo re e con la tua Patria che ha cancellato la data del 4 Novembre. Ora sei nella Morte, ma io so che il tuo errore ancora ti brucia, e che non pensi neanche lontanamente a «fare i conti». Dio, quello vero sconosciuto alla pochezza umana ammantata di paramenti in vario modo «sacerdotali», non chiede «conti» né può riparare al tormento della retta coscienza. Egli umilierebbe lo spirito, umilierebbe se stesso. Il che è una contraddizione in termini. La Guerra continua anche nell'Al di là, come dicevi Tu, ci vogliono «più di due coglioni».

Ecco, la Prima Guerra Mondiale, la «Grande Guerra», potrebbe essere simbolo per tutti i Popoli che l'hanno combattuta di questa altra guerra. Per noi Italiani più che per gli altri. Perché essa ci ha rivelato come Nazione a noi stessi e al mondo. Averla rimossa dalla coscienza collettiva è stato come un voler distruggere la Nazione. L'averla poi sostituita col ricordo martellante quanto totalmente distorto della Seconda Guerra Mondiale, con quanto ne segue in termini resistenzial-antifascisti, è stato come distruggerla una seconda volta. Forse definitivamente.

Nei cinquantenni possa rivivere lo spirito dei nonni, senza nostalgia e senza malinconia. Chi, se non i cinquantenni, sono i naturali depositari di quelle forze che creano la Storia, in cui può perpetuarsi o intristire la Nazione?

Michele Bianchi

 

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