da "AURORA" n° 51 (Settembre 1998)

ECONOMIA E SOCIETÀ

 

L'apocalisse sociale nell'epoca
del totalitarismo neoliberista

(1ª parte)

Filippo Ronchi

 

La situazione attuale

Sotto la superficie della nostra società, incomprensibili allo sguardo fatuo dei mass-media, mimetizzati sotto le immagini retoriche della modernizzazione e del progresso, sono in atto processi profondi di ristrutturazione produttiva. Essi stanno sconvolgendo il «modello di civiltà» che aveva caratterizzato nell'ultimo mezzo secolo l'Occidente industrializzato ed il suo sistema di relazioni sociali. L'aspetto più devastante di questa apocalisse è, senza dubbio, quello della disoccupazione incontenibilmente in crescita, o comunque non riducibile al di sotto di percentuali ad alto rischio per la tenuta complessiva degli Stati. Si tratta di un processo di lunga durata se è vero che, solo per limitarci al caso italiano, i senza-lavoro sono passati dal 5,9% del 1933 al 12,5% del 1998, con un aumento costante nel corso dei vari decenni. Veramente drammatici sono oggi inoltre i dati sulla disoccupazione giovanile: 20,6% su base europea, 33,7% in Italia con punte che superano il 50% in alcune regioni del Sud. Il nostro Paese detiene un triste primato anche per quanto riguarda i «disoccupati di lunga durata», cioè in pratica coloro che hanno perso la speranza di trovare un lavoro.

 

La menzogna americana

In merito a questo problema, la retorica neoliberista, a partire dagli anni Ottanta con le presidenze Reagan, ha sempre vantato negli USA successioni numeriche di segno positivo. Il tasso di disoccupazione, che aveva raggiunto in precedenza il 9,7% (corrispondente a oltre 13 milioni di persone) sarebbe andato declinando seppur con alterne vicende e avrebbe fatto segnare, in particolare nell'ultimo quinquennio, apparenti trionfi su cui non ha mancato di ricamare una fitta letteratura apologetica del «modello americano» (flessibilità, mobilità, libertà di licenziamento, cancellazione dei diritti sindacali, abbattimento delle retribuzioni, ecc.) di cui in Italia si sono fatti portavoce specialmente gli economisti del Polo delle Libertà. Secondo queste stime, nell'estate del '97, ad esempio, la percentuale dei disoccupati si sarebbe ridotta al 4,8%, pari a circa 6 milioni e mezzo su una forza lavoro complessiva di circa 135 milioni di persone. Sarà bene, allora, aver chiaro che questa rosea descrizione si basa su dati deformati. Negli Stati Uniti, prima di tutto, le statistiche sulla disoccupazione sono elaborate in base a «sondaggi», cioè a questionari sottoposti a un campione che si ritiene rappresentativo della popolazione, anziché su rilevazioni ufficiali e sistematiche sulla popolazione reale. Come se non bastasse, i suddetti questionari classificano come «occupati» anche coloro che svolgono lavori del tutto precari, effimeri o intermittenti e che in Europa finirebbero nell'elenco statistico dei disoccupati. Alcuni osservatori più attenti della situazione americana quali Hans Peter Martin e Harold Schuman sostengono che negli USA vi siano in tutto quasi 35 milioni di persone spinte ai margini della società e del mercato del lavoro, al di fuori delle aree «stabilizzate» del rapporto di lavoro dipendente duraturo e regolato. Altri studiosi d'indiscutibile prestigio come Barry Bluestone e Stephen Rose sono giunti a conclusioni analoghe. Aggiungendo alla massa dei disoccupati che ancora cercano un lavoro, quella degli scoraggiati (che non figurano come disoccupati perché ormai il lavoro neppure più lo cercano), quella dei marginali e infine quella di chi non sceglie il part-time ma lo subisce, si otterrebbe anche negli Stati Uniti una percentuale di sottoccupazione (che in Europa sarebbe classificata senz'altro come disoccupazione) quasi doppia rispetto al tasso riconosciuto dal governo: per il '95 il 10% contro il 5,6% dichiarato; attualmente il 9% contro il 4,8%, ossia una massa di circa 13 milioni di persone. Ci troviamo di fronte, dunque, ad un panorama non così lontano da quello europeo, con percentuali di disoccupazione effettiva comunque molto più alte, quasi doppie, rispetto alle stime considerate «reali» dal governo. Ma anche a voler prendere per buone le statistiche ufficiali americane, è tuttavia evidente che esse non costituiscono un indicatore del grado di benessere, coesione e integrazione sociale che si accompagnava, invece, al vecchio concetto di «piena occupazione».

 

La rovina dei ceti medi

Le condizioni finanziarie del lavoratore medio americano, peggiorate costantemente dalla fine degli anni Settanta e nel corso dell'era reaganiana, continuano tuttora a deteriorarsi. Tra il '90 ed il '96 i salari reali della maggioranza dei lavoratori sono caduti nella stessa misura del precedente ciclo economico (1979-89) e si sono approfondite le disuguaglianze tra gli americani più ricchi e il resto della popolazione. La diminuzione media dei salari reali tra il '73 ed il '95 si aggira sul 13% circa. Questo dato è tanto più sconvolgente se si pensa che tra il '47 ed il '72 i salari erano invece cresciuti di ben il 79%. I lavoratori impiegati a tempo pieno, negli USA, vengono ormai considerati un'aristocrazia del lavoro, ma il minimo salariale è sceso al livello storico più basso dal dopoguerra: 4,75 dollari all'ora, il 41% in meno rispetto al '69 (a prezzi costanti). Sul versante opposto della piramide sociale, al vertice, la remunerazione dei ristretto top management è cresciuta vertiginosamente (del 66% negli anni Ottanta). Per chiarire: oggi lo stipendio di un massimo manager d'impresa americano è tra le 100 e le 120 volte superiore a quello dei suoi dipendenti. E la divaricazione continua ad allargarsi. Contemporaneamente, l'orario di lavoro si è costantemente allungato. Oggi il lavoratore medio americano sta in ufficio o in fabbrica quasi un mese in più all'anno rispetto ai primi anni Settanta (1949 ore contro 1786). I lavoratori multipli, cioè coloro che decidono di tentare la strada del doppio lavoro, crescono anch'essi in maniera significativa. Erano poco più di 4 milioni una quindicina d'anni fa, oggi sono quasi 8 milioni e mezzo, stretti nella tenaglia di un lavoro sempre più precario e di un salario sempre più basso.

 

Scoiattoli

L'attuale modello americano -preso ad esempio dal Polo delle Libertà, dalla Lega Nord e, al di là della retorica solidarista utile in occasione delle campagne elettorali, anche dall'Ulivo- è dunque quello che è stato definito «capitalism squirrel cage»: «la gabbia dello scoiattolo del capitalismo», in cui ognuno deve correre sempre più forte unicamente per non precipitare indietro augurandosi di riuscire a restare sempre allo stesso punto. Due famiglie su cinque, così, sono state costrette negli Stati Uniti, durante gli anni Novanta, a mobilitare un proprio membro in più sul mercato del lavoro, o a far assumere un lavoro aggiuntivo ad un proprio componente già occupato, semplicemente per far fronte, con un'entrata extra, alle «esigenze quotidiane». Gli USA, fortezza del capitalismo globalizzato, si stanno insomma trasformando nel luogo dove vive ed opera il «working poor», il «povero al lavoro», o meglio «il povero nonostante il lavoro», l'«occupato» il cui salario non garantisce un livello di vita superiore alle soglie della sopravvivenza. Di questi lavoratori poveri ne erano stati individuati più di 9 milioni alla fine degli anni Ottanta, 2 milioni dei quali titolari di un lavoro a tempo pieno per la totalità dell'anno. In generale, sempre per lo stesso periodo, le statistiche censivano 27 milioni di poveri.

 

Nuovo modello di «sviluppo»

Le cifre che abbiamo fornito finora delineano, nella loro arida oggettività, il quadro tipico del «nuovo modello di sviluppo» che si vuole imporre anche nel nostro Paese. Dietro a tutte le chiacchiere e gli slogans sulla «modernizzazione», si profila in realtà il ritorno di aspetti, pratiche, figure tipiche del lavoro servile: lavoro privo di diritti, ridotto alla disponibilità «personale» incondizionata, lasciato totalmente nelle mani dell'imprenditore e dell'impresa, privo di socialità che non sia quella attribuitagli dall'apparato gerarchico che via via lo sottomette. È stato detto, non a torto, che la società del XXI secolo sarà la società dei quattro quinti, o dei 20 e 80: un 20% di lavoro stabile e indispensabile, un 80% di lavoro precario, incerto, temporaneo, irrilevante. Un quinto della popolazione mondiale composto di «vincenti», uomini necessari per far funzionare la «mega-macchina» del capitalismo globalizzato, e quattro quinti di «perdenti», «eccedenti», «effimeri», che costituiranno la «massa» su cui scaricare i capricci del mercato. Tutto questo è già attualmente accompagnato dalla dissoluzione delle istituzioni tradizionalmente chiamate a strutturare il mercato in modo tale da proteggere la società dai suoi effetti disgreganti. La crisi delle rappresentanze sindacali è ovunque evidente nell'Occidente industrializzato. Negli Stati Uniti, in meno di un ventennio, le grandi organizzazioni sindacali su base nazionale hanno perduto quasi la metà dei propri iscritti dinanzi all'emergere di un pulviscolo di micro-occupazioni a basso livello salariate, a elevato tasso di volatilità e di informalità. Anche in Gran Bretagna, l'altro catalizzatore della «rivoluzione neoliberista», i nuovi posti, creati in sostituzione di quelli tradizionali (produzione di massa, miniere, industria pesante) si concentrano nell'immensa area delle occupazioni a basso salario e a elevato ricambio (i cosiddetti «Mcjobs», in riferimento all'occupazione precaria dilagante presso i Mc Donald's). Cresce, cioè, la massa dei lavoratori «atipici», precari disseminati territorialmente, «invisibili» dal punto di vista organizzativo e normativo, quindi difficilmente sindacalizzabili e inquadrabili in un contesto riconducibile alle classiche «figure contrattuali» e a pratiche negoziali collettive di tutela. Tra i grandi paesi dell'Occidente si salvano, con tassi di sindacalizzazione ancora relativamente elevati, solo la Germania e l'Italia dove CGIL-CISL-UIL continuano a raccogliere quasi il 45% della popolazione attiva grazie soprattutto alla tenuta del pubblico impiego, ossia dei lavoratori dello Stato, e alle massicce adesioni dei pensionati.

Concludo qui questa prima parte della ricerca sulle dinamiche innescate dal totalitarismo neoliberista a livello economico-sociale nell'Occidente. In un prossimo intervento mi ripropongono di passare dalla descrizione del degrado che la deregulation e la connessa globalizzazione capitalistica stanno provocando, alla individuazione delle cause che tale situazione hanno generato.

Filippo Ronchi

 

 

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