da "AURORA" n° 52 (Novembre 1998)

EDITORIALE

 

Una crisi per ricominciare

A. De Ambris

 

Il primo compito del Fronte Antagonista, in questa convulsa fase politica italiana, è quello di analizzare ed interpretare la nuova situazione venutasi a creare dopo la crisi del governo Prodi e la scissione di Rifondazione Comunista, nella consapevolezza che per l'opposizione antisistemica continuano ad aprirsi spazi di azione.

 

Il fallimento del governo Prodi

Le idee discusse negli ultimi mesi di vita dal centrosinistra italiano al governo erano divenute sempre più simili a quelle dei pescecani del liberismo selvaggio. La prima proposta, consistente nel blocco dei salari in cambio di più investimenti, era stata avanzata dal segretario della CGIL, Cofferati agli inizi di settembre. Egli non faceva altro che eseguire la direttiva fornita qualche mese prima (intervista al "Corriere della Sera" del 28 maggio) da Massimo D'Alema, capo del suo partito di riferimento, che aveva dichiarato di preferire «un sindacato che sappia negoziare un salario minore oggi per offrire domani più possibilità di lavoro ai giovani». L'avvocato Agnelli -uno dei grandi elettori dell'Ulivo- aveva lanciato successivamente l'idea di «rottamare» i vecchi operai, licenziandoli per assumere giovani. La trovata, che aveva lasciato assai perplesso perfino Cesare Romiti, non suscitava invece particolari reazioni tra i progressisti, anzi si poteva apprendere da "l'Unità" e dal "Sole 24 ore" che proprio quella era una delle ipotesi «al vaglio dei ministeri», insomma era presa in seria considerazione dagli esperti dell'Ulivo.

La politica economica del governo Prodi, fatta di tasse per Maastricht, di mance alle categorie forti di cui si voleva conservare il consenso (vedasi la nota vicenda della «rottamazione») e di mazzate sui ceti medi, nell'autunno '98, era effettivamente arrivata al capolinea. Essa in due anni e mezzo era riuscita a far aumentare la disoccupazione mentre in tutta Europa tendeva a diminuire; aveva moltiplicato il numero dei poveri (sette milioni di italiani, 20Omila famiglie in più in soli dodici mesi - vedi Aurora n° 50), in discesa fino al '96. Il ceto dirigente liberista di centrosinistra, in quattro anni, aveva inoltre fatto crollare il potere di acquisto delle famiglie di 5 punti percentuali. E ancora, per il terzo anno consecutivo il governo veniva costretto a rivedere al ribasso le ipotesi di crescita dell'economia, come già era accaduto nel settembre '96 e '97. Da una iniziale previsione di un aumento del PIL nel '98 del 2,5 per cento si era passati ad una previsione (anch'essa del resto non sicura) dell'1,8 per cento. Questa minore crescita, peraltro, non era assolutamente influenzata da vicende internazionali, tanto che quasi tutti i Paesi europei registravano un tasso di sviluppo superiore a quello dell'Italia, la quale ancora una volta restava il fanalino di coda della Comunità. Per compensare tali pessimi risultati la macchina propagandistica del governo aveva messo in circolazione una serie di dati dai quali si evinceva che il tasso di disoccupazione sarebbe passato dal 12,5 per cento di aprile all'11,9 per cento di agosto. Il trucco era consistito nel registrare e conclamare il rimbalzo occupazionale che nei mesi estivi deriva dagli impieghi stagionali, illudendosi di dare a bere agli Italiani che Ciampi e Prodi fossero riusciti a compiere il miracolo. Mentre in tutto il mondo, infatti, una crescita dei PIL del 2-2,5 per cento non sempre si accompagna a un incremento dell'occupazione a causa del progresso tecnologico e dell'aumento di produttività, il governo dell'Ulivo voleva far credere di aver scoperto un arcano meccanismo per cui più diminuiva la crescita, più aumentava l'occupazione. Anche la legge finanziaria «per i poveri» prevedeva in realtà altri 15.000 miliardi fra tagli (dalle decurtazioni ai finanziamenti di Poste e Ferrovie alla riduzione dei dipendenti pubblici, dalla diminuzione delle spese per beni e servizi della Pubblica Amministrazione ai tagli sugli straordinari e alla penalizzazione delle Regioni che superavano i tetti imposti per la spesa sanitaria) e tasse («carbon tax», nuovi aumenti del prezzo della benzina, ecc.). Le modeste misure sociali venivano finanziate semplicemente riutilizzando il risparmio ottenuto sugli interessi del debito pubblico, ma delineavano il passaggio dalla cultura dei diritti dei lavoratori a quella dei questuanti (il famoso aumento di 80.000 lire mensili per le pensioni sociali e le 50.000 lire di detrazione IRPEF per gli assegni previdenziali inferiori a 18 milioni annui). In un Paese che in quattro anni aveva perduto oltre un milione di posti di lavoro, la posizione del governo diventava veramente insostenibile e ridicolo risultava il tentativo di accreditarlo come difensore degli interessi degli strati della popolazione meno abbienti. Dinanzi ad una politica così anti-popolare lo scandalo -su "Aurora" lo avevo ripetutamente denunciato- non consisteva nel fatto che Rifondazione Comunista ritirasse la fiducia al governo, ma che gliela avesse concessa fino ad allora. Di ciò ha preso infine atto la parte del PRC guidata da Fausto Bertinotti.

 

Il «flop» dell'Ulivo mondiale

Per due anni e mezzo, dunque, il governo dell'Ulivo era riuscito ad attuare, con la complicità di Rifondazione, la sua politica economica liberista «ben temperata» pur non avendo una maggioranza in politica estera. Ma nel momento in cui questa «truffa per il Paese» (così lo stesso Prodi aveva definito i patti di d'esistenza con il PRC che avevano consentito la vittoria del 21 aprile '96) si dimostrava non più sostenibile, il presidente del Consiglio tentava di stringere ulteriormente alleanze ideologiche con Clinton, il leader dello Stato simbolo del capitalismo. Era questa una delle disperate linee di difesa nella prospettiva di un «autunno caldo» che avrebbe potuto portare ad un mutamento della direzione politica a palazzo Chigi.

La giornata dell'Ulivo mondiale celebrata con un incontro a New York il 21 settembre tra Prodi, Clinton e Blair risultava però sproporzionata al ruolo dell'Italia e del suo premier e si risolveva in un clamoroso fiasco anche perché sfortunatamente veniva a cadere nel periodo più delicato del «sexygate», con Bill Clinton tutto intento a difendersi dalle accuse di Monica Lewinsky. La crescente debolezza di Prodi ora confermata dal fatto che, al ritorno dall'infruttuoso viaggio in America, egli si affannava a dichiarare a destra e a manca di essere stato il «precursore» di tutti gli altri leaders progressisti europei, ma continuava ad essere ignorato da loro. Infatti non solo il leader laburista britannico Tony Blair e poi il suo ministro degli Esteri Robin Cook avevano evitato di citare il governo dell'Ulivo, fra quelli che avevano un vero peso politico (ricordando invece Francia, Germania e Gran Bretagna), ma anche il premier socialista francese Lionel Jospin aveva fatto la stessa scelta, identificando la svolta europea «nei tre governi dei tre grandi Paesi» (intendendo indicare Francia, Germania e Regno Unito).

A completare il quadro, il neo-cancelliere socialdemocratico tedesco Schroeder lasciava cadere l'invito di Prodi ad un sollecito incontro, mentre si affrettava a compiere una visita in Francia. La situazione per Prodi era, a quel punto, divenuta molto imbarazzante. Tutti i capi di governo socialdemocratici dei principali Paesi europei lo evitavano, come si fa con le persone poco gradite. Già nei mesi precedenti, per la verità, si era capito che il peso politico, il prestigio internazionale e l'autorevolezza di Prodi erano in rapido declino. Ciò era risultato evidente quando egli era stato impietosamente tenuto fuori dalla lunga trattativa in cui fu decisa la guida della Banca Europea. Crollava così un altro mito dell'Ulivo, i cui esponenti si erano affannati ad affermare che grazie a loro l'Italia aveva acquistato uno strepitoso peso internazionale.

 

Il collasso di Rifondazione Comunista

L'avvenimento politico che ha segnato la fine del governo Prodi è stato il «no» della parte di Rifondazione Comunista guidata da Fausto Bertinotti alla legge finanziaria '99. Come ho cercato di illustrare già nel n° 51 di "Aurora" (Editoriale, "Il nichilismo della sinistra italiana"), Rifondazione e il PDS-Democratici di Sinistra hanno costituito le due facce di una stessa medaglia; hanno formato una sorta di «Giano bifronte».

Il PRC nacque nel '90 anche per calcoli elettoralistici. L'iniziativa dell'allora segretario Achille Occhetto di cambiare denominazione al PCI dopo la caduta del Muro di Berlino venne considerata fortemente rischiosa da un settore dell'apparato, perché spostandosi verso il centro il partito sguarniva l'estrema sinistra e vi lasciava un vuoto che avrebbe potuto essere colmato da nuovi movimenti anti-sistemici. Ma quel vuoto fu subito riempito. La frangia del PCI che non aveva accettato il mutamento di sigla e di indirizzo, abbandonò Occhetto, rimanendo fedele ai simboli originari, sicura che un certo numero di voti su quella posizione sarebbe arrivato. Non era tanto questione di ideologia (come poi la «trasformazione» ministeriale del gruppo che fa capo a Cossutta ha ampiamente dimostrato) quanto necessità di tenere occupata l'area di sinistra prevenendo incursioni di antagonisti estranei alla tradizione social-comunista classica.

Il piano si rivelò perfetto. PRC e PDS-DS piazzati su quel lato hanno sbarrato la strada a qualsiasi movimento antisistemico. Il fatto che il Polo delle Libertà vincesse le elezioni nel '94 fu solo un momentaneo incidente, perché si era all'inizio del nuovo corso italiano e i meccanismi della cosiddetta «seconda Repubblica» non erano ancora stati registrati a dovere. La rivincita avvenne nel '96, grazie alla «furbizia» di D'Alema il quale non solamente inventò l'Ulivo, ma anche i cosiddetti patti di d'esistenza con i finti rivali di Rifondazione.

Questo è il punto. Senza la «d'esistenza» il carrozzone ulivesco mai avrebbe conquistato la maggioranza né, probabilmente, potrà mai conquistarla in futuro. Tornando alla crisi di ottobre, per l'ala del PRC che faceva capo a Bertinotti diventava però insostenibile un prolungamento dell'appoggio al governo Prodi, il più asservito ai poteri economici interni e internazionali che la storia della repubblica italiana avesse mai conosciuto, un governo reazionario con i ceti deboli e indifferente alla sovranità popolare. La vittoria di Schroeder in Germania costituì un ulteriore stimolo per affossare l'Ulivo. La sinistra poteva aspirare in prima persona alla guida del governo. Non a caso quanto stava avvenendo ricordava a molti esperti del Palazzo la ricerca degli «equilibri più avanzati» lanciata dal socialista Enrico Manca fra gli anni '60 e '70 per superare il vecchio centrosinistra inserendo nell'area di governo o del potere il PCI di Enrico Berlinguer. Ma la bomba innescata da Fausto Bertinotti sotto la poltrona di Prodi ne innescò un'altra sotto la poltrona di Bertinotti medesimo: era quella di Cossutta e Nesi, «Guardie Rosse del Capitale», che hanno dimostrato agli Italiani come si può essere utili alla causa del Padrone anche nel nome del Comunismo.

Con la scissione del PRC il gruppo di Cossutta si è ridotto ad appendice del PDS-DS, mentre probabilmente il gruppo raccolto attorno a Fausto Bertinotti si proietterà nel panorama di una sinistra fatta di movimenti, associazioni e centri sociali innamorati del subcomandante Marcos. La scissione non è convenuta a nessuno, tuttavia l'alternativa era quella della convivenza in un partito paralizzato dalle divisioni. C'era, infatti, fra le analisi di Bertinotti e di Cossutta una differenza inconciliabile: Bertinotti non credeva alla «svolta riformatrice» promessa dal governo dell'Ulivo e temeva che Rifondazione, alla lunga, avrebbe finito per subire il logoramento di una politica sempre più impopolare. Cossutta, invece, da vecchio uomo di apparato non aveva alcuna fiducia in una resistenza di tipo movimentistico e immaginava un partito messo al bando e accusato dai progressisti di «fare il gioco della destra». Ma Cossutta è un modesto uomo politico. È riuscito prima a farsi sconfiggere quando venne data vita al PDS e poi persino da Fausto Bertinotti, addirittura in un partito che si era costruito su misura. In compenso Cossutta, con la sua famiglia (la moglie Emy traduttrice dal russo, la figlia deputata Maura, il figlio funzionario di Bankitalia, Dario) ha come modello quello del focolare meneghino tutto raccolto intorno al patriarca e all'azienda. La Chiesa cattolica dovrebbe valorizzare il prototipo della famiglia cossuttiana, perché è una delle poche ove le «antiche tradizioni» ancora prevalgono. Prima la ditta era rappresentata da un colosso come il PCI. Quando il patriarca è stato cacciato dal management del PCI, la famiglia si è stretta intorno a lui. Si è così fondata un'altra aziendina: ma anche questa gli è stata sottratta dal responsabile del marketing, Fausto Bertinotti. E adesso si è arrivati ad un esercizio pressoché familiare (PCdI) con pochi soci, tutti amici del patriarca -frequentatori come lui delle bocciofile della Resistenza- che oltrettutto ora deve pensare a sistemare anche la Maura in qualche buon posto di governo. Più importante è chiedersi quale sia stata fino ad oggi la strategia culturale dei vari spezzoni di Rifondazione Comunista. Due le linee fondamentali: il ritorno a Marx saltando e superando gran parte del marxismo successivo (è questa l'ispirazione di fondo della parte che fa capo a Bertinotti) oppure il recupero selettivo della tradizione del comunismo storico novecentesco, italiano in particolare nella sua versione togliattiana (è questa la scelta della parte guidata da Cossutta). Entrambe le linee, soprattutto alla luce delle ultime vicende, si sono rivelate fallimentari senza possibilità di appello. Il ritorno selettivo alla tradizione politica del comunismo storico novecentesco ed alla tradizione dei marxismi più noti e consolidati ha rimosso in realtà una resa dei conti autentica con le ragioni che hanno portato storicamente all'implosione e alla dissoluzione politica e sociale del comunismo storico novecentesco in tutte le sue forme. È facile comprendere perché questa resa dei conti sia stata evitata. Essa sarebbe risultata incompatibile con la riproduzione delle strutture di partito, basate sul doppio binomio appartenenza-rappresentanza e settarismo-opportunismo. Anche la linea portata avanti dal gruppo di Bertinotti è, purtroppo, a mio giudizio, largamente illusoria. Credo che Marx resti per tutti gli appartenenti al Fronte Antagonista un grande e per molti aspetti ancora insuperato classico del pensiero storico, economico, filosofico, ma un «ritorno» al suo pensiero è impossibile, per il semplice fatto che Marx non ha mai elaborato un «sistema», una «dottrina» cui si possa «tornare». Si può certo tornare al suo metodo, alla sua intenzionalità anticapitalistica, ma sarebbe altrettanto indispensabile individuare, ed ammettere, gli errori ideologici, epistemologici e filosofici di Marx. Questo compito, ossia effettuare un bilancio critico di Marx, è stato sistematicamente eluso dagli ambienti che gravitano attorno a Bertinotti. La doppia linea ricostruttiva di Rifondazione Comunista non si è rivelata dunque in grado di competere neppure sul terreno culturale per l'egemonia con la visione del mondo coerentemente capitalistica degli intellettuali di regime di area PDS-DS. Constatata l'irrilevanza di Berlusconi e dei suoi sodali, converrà quindi concentrarsi sul sorrisino sprezzante di D'Alema. Se è impossibile pretendere che i comunquisti e gli almenisti (cioè i sostenitori della nota teoria per cui «comunque ed almeno il centrosinistra è meglio di Bossi, Fini e Berlusconi») comprendano questo enigma della politica italiana contemporanea, ciò non toglie che sia attualmente invece uno dei compiti principali del Fronte Antagonista tentare di decifrare la situazione, soprattutto alla luce degli ultimi avvenimenti.

 

Regolamento di conti

La trama che ha segnato la morte dell'Ulivo è stata, infatti, architettata da Massimo D'Alema. Tre anni fa egli aveva insediato Prodi ritenendolo suo ostaggio. Col passare del tempo il rapporto, però, si era rovesciato, Tra la fine di maggio ed i primi del giugno scorsi, si è infine verificato il fatto politico decisivo. Berlusconi ha mollato la «Bicamerale», lasciando il segretario del PDS-DS solo. Il leader del maggior partito della coalizione di centrosinistra aveva sopportato un governo presieduto da un uomo senza partito a due condizioni: l'emergenza europea del risanamento dei conti pubblici (finita con l'ingresso nell'Europa di Maastricht) e un equilibrio in cui a lui stesso toccava una parte notevole, quella del presidente della «Bicamerale», dello Statista che faceva la grande politica e le grandi riforme mentre il governo gestiva gli affari correnti. Dopo l'interruzione del dialogo con l'opposizione, avvenuto tra l'indifferenza -se non proprio con la segreta soddisfazione- di Prodi e Veltroni, quell'equilibrio si ruppe. Da allora D'Alema cominciò a pensare alla staffetta con Prodi a Palazzo Chigi e Prodi a come impedirla o ritardarla. In questo senso, il tentativo di fondare l'«Ulivo Mondiale» non fece che esasperare la tensione, perché era evidentemente un modo per relegare ulteriormente D'Alema alla retroguardia. Nel frattempo Prodi, impaurito dalle minacce di Bertinotti, favorì le posizioni scissioniste di Nesi e Cossutta, contando su un effetto di deterrenza per ridurre Bertinotti stesso a più miti consigli o addirittura per fatto defenestrare dalla segreteria del PRC. Ma Bertinotti, trovata una sponda silenziosa e complice in quell'abile dissimulatore che è il leader del PDS-DS, e a sua volta impaurito dalla manovra che mirava a scalzarlo dalla segreteria di Rifondazione, assunse i toni dell'oppositore totale e andò fino in fondo. D'Alema intanto si ritirava nella sua barca a vela e programmava un'intensa attività turistico-politica all'altro capo del mondo (Cile, Argentina), lasciando a Bertinotti la funzione dell'ariete. L'obiettivo, insomma, era quello di far saltare l'Ulivo, anche se probabilmente non in tempi così rapidi come è poi accaduto a causa del precipitare degli eventi. La formula dell'aprile '96 e la leadership di Prodi oggi non esistono più, ma la soluzione data alla crisi ha salvato comunque alcuni elementi di continuità con il progetto dell'Ulivo determinando al tempo stesso qualche novità programmatica in senso socialdemocratico, nell'accentuazione, per adesso soprattutto verbale, del tema della lotta alla disoccupazione. D'Alema ha sicuramente l'appoggio del più forte sindacato (la CGIL) e di settori estesi della borghesia imprenditoriale. Si vedano in proposito le favorevoli aperture del "Corriere della Sera", di Romiti, l'ostentata noncuranza della Borsa per la crisi politica con records stabiliti nei momenti più bui del naufragio del governo Prodi, la tranquillità con cui è stata accolta a Washington la notizia del cambio della guardia alla presidenza del Consiglio, tranquillità dovuta sicuramente alla presenza di uomini come Cossiga (NATO-Gladio) e Giuliano Amato (ASPEN) come garanti presso le centrali mondialiste dell'intera operazione di ricambio al vertice. Un altro aspetto interessante di questa crisi politica, benché trascurato dai mass-media, è la sconfitta palese subita dalla «nota lobby» con l'arrivo di Cossiga al governo. La «nota lobby» è quel gruppo di interessi finanziari, editoriali, giudiziari, politici, culturali e burocratici coagulato intorno all'asse De Benedetti-Repubblica-Espresso. Cossiga è sempre stato trattato da loro come un nemico (anni fa De Benedetti, proprietario de "l'Espresso", diede il via e una devastante campagna personale contro Cossiga «pazzo e malato») e ha sempre risposto per le rime. Vedremo se e come sarà ricomposto questo contrasto nei prossimi mesi. Si dovrà anche valutare l'esatto significato del ridimensionamento del super-ministro dell'economia Ciampi, che sembra delinearsi nei primi atti del nuovo governo.

 

Prospettive per il Fronte Antagonista nell'attuale fase politica

Ci sono comunque già oggi molti margini che il Fronte Antagonista può sfruttare per incidere sulla situazione, molto più di quanti non ce ne fossero nella soporifera condizione in cui Prodi era riuscito ad immergere il Paese. L'Ulivo ha preso un gran brutto colpo, il centrosinistra ne subisce le conseguenze. Anche se l'alto grado di professionismo politico dei vari D'Alema, Marini, Cossiga potrà ridurre i danni nell'immediato, resta tuttavia quale elemento ormai ineliminabile la diffusa indignazione nella società italiana. Le forme attraverso le quali è stato varato il governo D'Alema sono infatti francamente deplorevoli, con il ritorno alla grande del vecchio metodo del trasformismo, con annessa cooptazione di singoli personaggi eletti a «destra» nelle file della «sinistra». Le forzature istituzionali e contro la moralità della politica pesano su D'Alema. È stato tolto di mezzo un governo che risultava pienamente legittimato dal voto degli elettori dell'aprile '96; è naufragata un'alleanza strategica, il nuovo ministero si è presentato in Parlamento come il minore dei mali, il prodotto di uno stato d'eccezione, riconoscendo di non avere una diretta investitura elettorale. Così, se i governi nascono quasi sempre con un coro di apprezzamenti che li lusinga, questo di D'Alema è uno dei pochi che sa già di non avere di fronte a sé una «luna di miele» con il Paese reale e che è consapevole di quanto dura e precaria sarà la sua sopravvivenza. La recita di infimo livello offerta dal ceto politico nei giorni della crisi non verrà dimenticata tanto facilmente. Prodi prima dimissionato, poi risorto per breve tempo, fino all'umiliante uscita di scena; capriole, dichiarazioni astute e ambivalenti, dette e contraddette; la simulazione più plateale, spesso la bugia più scoperta o la piroetta verbale dietro la quale -in un clima di congiura da corte del Rinascimento- si scorgeva il trasformismo più sfacciato. Non ci ha messo molto Prodi nel passare dal triplice e urlato «no» della manifestazione di Bologna al «si» al reincarico di Scalfaro, dal sospetto ben fondato di un tacito incoraggiamento di D'Alema all'azione dissolvente di Bertinotti fino all'investitura con tanto di baci e abbracci quale suo successore del segretario del PDS-DS. E Cossiga, infine, ha sancito una sorta di compromesso storico 25 anni dopo. In questo modo è stato definitivamente seppellito il bipolarismo e sono sprofondati in una palude di trasformismo gli stessi meccanismi «democratici» della seconda Repubblica, visto che l'Italia si ritrova con un governo che rappresenta un terzo dell'elettorato, mentre i due terzi (Polo, Lega e Rifondazione di Bertinotti) restano all'opposizione. È stato perfino peggio del ribaltone del '94, perché la crisi ha avuto come protagonista anche una banda di mercenari come quella degli ex-democristiani eletti nel Polo e arruolati da Cossiga per appoggiare il centrosinistra, ma il loro momento di trionfo tattico è coinciso con una definitiva perdita di dignità politica e di decenza. Ad essi vanno aggiunti i popolari e i «comunisti di Cossutta» che, senza battere ciglio, ne hanno approvato l'ingresso nella maggioranza e nel governo. In fondo, l'unico che può vantare una sua coerenza resta proprio Bertinotti, il quale aveva sostenuto di voler aprire la crisi per arrivare ad un nuovo quadro politico «più di sinistra». Ma Bertinotti è stato costretto dalle circostanze a far valere le sue ragioni troppo presto e ora deve pagarne il prezzo. La rappresaglia è già scattata. Gli è stato impedito, con un cavillo, di conservare il gruppo parlamentare, e ciò lo condanna al silenzio del gruppo misto; il suo volto e la sua voce sono spariti da un giorno all'altro dal circuito mediatico. In un simile contesto, l'opposizione antisistemica del Fronte Antagonista può graduare i suoi colpi e le sue battaglie nelle forme di una lucida iniziativa politica.

A. De Ambris

 

 

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