da "AURORA" n° 52 (Novembre 1998)

ECONOMIA E SOCIETÀ

 

L'apocalisse sociale nell'epoca
del totalitarismo neoliberista

(2ª parte)

Filippo Ronchi

 

Radici

Il quadro che emerge con sempre maggiore evidenza è oggi quello di una trasformazione storica del capitalismo e di una disfatta delle promesse che esso aveva alimentato nella sua fase di maggiore espansione. Si assiste infatti ad un generale arretramento nelle condizioni di vita e di lavoro per fasce maggioritarie di popolazione negli stessi Paesi dell'Occidente industrializzato. Questa caduta precede nel tempo di gran lunga (i primi segnali risalgono alla seconda metà degli anni Settanta) la catastrofe del «socialismo reale». Le radici di una simile situazione vanno individuate nell'operato delle èlites economiche e di governo (a livello nazionale e internazionale), alle loro decisioni consapevoli, prima fra tutte quella -risalente al '71- della non convertibilità del dollaro in oro. In tal modo si decretava, di fatto, la fine del sistema monetario internazionale nato un quarto di secolo prima a Bretton Woods. Con quell'atto, gli Stati Uniti non si limitavano a scaricare deliberatamente all'esterno le proprie debolezze economiche, ma innescavano una reazione a catena di ampia portata, le cui tappe saranno:

1) La rottura del sistema di rapporti di cambio organico tra le diverse valute ruotanti attorno al dollaro e l'assoggettamento tendenziale di ogni valuta alla quotazione mobile, flessibile, discrezionale del mercato finanziario internazionale;

2) la conseguente, drastica, irresistibile deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati finanziari e valutari, attraverso la riduzione dei sistemi di controllo statali sui movimenti di capitale e la stipulazione di una serie di accordi bilaterali e multilaterali volti a favorirne la libera circolazione. Si può quindi affermare che la cosiddetta «globalizzazione» è stata un prodotto americano ed è stata la forma specifica e principale con cui gli Stati Uniti hanno trasferito sul piano «globale» le proprie difficoltà interne, dando inoltre la base materiale per la riconversione delle classi dirigenti mondiali al credo neoliberista;

3) la contemporanea drammatizzazione della questione della «inflazione» la quale sostituisce, nel dibattito politico, il tema della «piena occupazione» che, a partire dalla «Grande crisi» del '29, aveva stabilmente costituito la prima preoccupazione dei governanti. Dal '71 in poi, infatti, la stabilizzazione della moneta mediante il perseguimento rigoroso della parità di bilancio, senza alcun interesse per le sue ripercussioni sociali, diventò a livello mondiale il primo imperativo nel quadro di un'economia fondata sulla competitività globale.

Le èlites di governo, liberaldemocratiche o socialdemocratiche, si riveleranno sempre più incapaci di sfuggire all'assolutizzazione dell'«economico» e di pensare un modello di società sostenibile, di fronte alle pressanti direttive delle grandi agenzie economiche «globali»: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, antiche «custodi» degli accordi di Bretton Woods ora totalmente riconvertite a un ruolo di vera e propria «internazionale neoliberista».

 

Effetto Maastricht

Per quanto riguarda l'Europa, in particolare, si devono aggiungere gli strumenti specifici con cui è stato pensato il processo di unificazione, attraverso una via «monetaria» (in piena subalternità al dogma neoliberista prevalente) intesa come sincronizzazione dei circuiti finanziari e bancari più che come connessione tra società civili tutelate e vitali. Le modalità con cui venne ideato e messo in pratica, alla fine degli anni Settanta, il Sistema Monetario Europeo (SME) fu, così, una delle cause principali della violenta impennata della disoccupazione nel Vecchio Continente nei primi anni Ottanta (9,6% in Italia, 9,9% in Olanda, 10,3% in Francia, 10,8% in Belgio, 11,1% in Gran Bretagna) e degli spaventosi livelli della disoccupazione di lungo periodo che la caratterizzò. Allo stesso modo i cosiddetti «parametri di convergenza» di Maastricht sono, in buona misura, all'origine della «seconda ondata» di crisi occupazionale che ha colpito l'Europa negli anni Novanta, dopo la breve ripresa dei tardi anni Ottanta.

 

«Ricchi di tutto il mondo unitevi!»

La tendenza prevalente, innescata dalle scelte e dai meccanismi che nei paragrafi precedenti abbiamo delineato, è quella della crescita delle disuguaglianze tra Paesi diversi e all'interno di ogni singolo Paese tra classi più ricche e classi più povere. Si assiste alla rottura sistematica di quei patti che, sul modello del «New Deal» americano -per certi versi anticipato dallo Stato corporativo fascista- erano stati siglati all'interno dei rispettivi ambiti nazionali, e all'emergere di inedite alleanze trasversali sulla base del censo. Attualmente i ricchi stanno sviluppando legami a livello internazionale tra loro piuttosto che con i poveri delle proprie società. A questa involuzione economica e sociale, fa riscontro -sul piano dell'elaborazione intellettuale di valori condivisi- la sconfitta delle culture della nazionalità e della solidarietà, degli orientamenti fondati sull'idea della «cittadinanza sociale». Si afferma, per contrasto, una dura «cultura della competizione» che reinterpreta la povertà come una colpa e la disoccupazione come il prodotto di un eccesso di protezione sociale. Sembra, in questo campo, di essere tornati alle sanguinarie ideologie che supportarono le origini della rivoluzione industriale. Rientrano in questa involuzione le diverse teorie che hanno indicato la causa principale della disoccupazione odierna nell'eccesso di regolazione del mercato del lavoro con connesse «rigidità» nello sfruttamento della forza-lavoro, oltre che nel livello troppo alto dei salari e in un «Welfare» troppo «generoso». Simili teorie, ampiamente smentite dai fatti e sistematicamente criticate con argomenti convincenti in sede scientifica, sono tuttavia entrate a far parte stabilmente di quel «senso comune giornalistico», tanto superficiale quanto impermeabile al ragionamento, cui è demandata ormai l'elaborazione dell'immaginario popolare.

 

I trenta gloriosi

Viviamo, in realtà, nell'epoca del tramonto del «fordismo» inteso come «regime» strutturato su più livelli tra loro interconnessi:

1) un particolare «processo di lavoro», caratteristico della «produzione di massa» incentrato sull'uso massiccio di tecnologie di concatenazione (catena di montaggio, elevata parcellizzazione delle mansioni), sulla separazione tra mansioni esecutive e funzioni ideative e sull'uso di una forza lavoro ampiamente dequalificata e massificata;

2) un «modello sociale» fondato sulla combinazione di economie di scala sul piano produttivo e di consumi di massa su quello distributivo (salari crescenti legati alla produttività, domanda massificata crescente legata agli alti salari, profitti crescenti basati sulla piena utilizzazione delle capacità produttive e investimenti crescenti in innovazione tecnologica e nuovi impianti):

3) un assetto istituzionale incardinato sul riconoscimento delle organizzazioni sindacali e sulla negoziazione collettiva, su politiche orientate al sostegno della domanda e su un sistema pubblico di sicurezza sociale ispirato a princìpi universalistici e attuato mediante la tassazione progressiva dei redditi.

Questi tre livelli hanno raggiunto la loro piena integrazione solo in una fase specifica dello sviluppo industriale e sociale novecentesco, ossia nel lungo dopoguerra di sviluppo accelerato che va dal '45 al '75: i «trente glorieuses», come li hanno definiti alcuni studiosi francesi. Per poter elaborare una strategia antagonista all'altezza della nuova fase attraversata dal modo di produzione capitalistico, è arrivato il momento di prendere atto che quel ciclo risulta definitivamente concluso. Si tratta di capire con che cosa il Capitale lo ha sostituito.

 

Il tramonto del «fordismo»

Le cause che hanno provocato la fine del sogno fordista di uno sviluppo illimitato, e con esso la crisi irreversibile della sua filosofia produttiva incentrata sull'idea dell'«assenza di limiti» (illimitate disponibilità di forza-lavoro, illimitata disponibilità di materie prime, illimitata disponibilità di consumo) sono ben individuabili. Alla crisi del modello fordista hanno, infatti, contribuito da una parte il lungo periodo di lotte operaie internazionali dei tardi anni Sessanta e dei primi anni Settanta (con i freni posti all'uso incondizionato della forza lavoro); dall'altra i sempre più evidenti problemi sorti con l'emergenza ecologica rispetto all'utilizzabilità delle risorse naturali e con la saturazione dei mercati opulenti rispetto all'espandibilità dei mercati. Grazie ad una serie di circostanze maturate nel secondo dopoguerra (l'affermazione della mediazione sociale e della redistribuzione del reddito, una domanda crescente sostenuta dalla spesa pubblica e dalla crescita costante della produttività) si erano create effettivamente nell'ambito dell'area privilegiata che costituisce il «primo mondo» condizioni tali da alimentare l'idea di assenza di limiti allo sviluppo. Ma di colpo il «cerchio magico» si spezzò. Dopo il primo shock petrolifero, alla metà degli anni Settanta, ci si illuse di trovarsi di fronte ad un fenomeno puramente congiunturale, mentre nel decennio successivo i tassi di crescita dell'economia mondiale continuarono a scendere ancora e da allora non è sostanzialmente cambiata, questa condizione di «rallentamento». La soluzione trovata dal sistema capitalistico per fronteggiare la nuova fase sarà, appunto, l'argomento che tratteremo in un prossimo intervento su questa rivista, cercando di mettere in luce tutte le devastanti conseguenze che tale soluzione ha avuto sul piano sociale.

Filippo Ronchi

 

 

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