da "AURORA" n° 4 (Marzo 1993)

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Popolo sovrano

Attilio Cucchi

È trascorso un anno dall’inizio della cosiddetta inchiesta "mani pulite" che, secondo la retorica ufficiale, ha messo a nudo la partitocrazia, mostrandone il vero volto. Forse, più semplicemente, ha mostrato il vero volto dei mezzadri, dei concessionari di un potere mondialista teso alla distruzione della dignità e dell’indipendenza nazionale.
È certo confortante vedere che i vassalli ed i valvassori, i portaborse -servi dei servi- non possono più agire impuniti, ma è necessario svolgere due considerazioni di fondo.
La prima è che sia, comunque, in atto una gigantesca lotta di potere tesa ad affermare il primato della tecnocrazia sulla politica e dei singoli sui partiti, in sintonia con le tendenze post-ideologiche. 
Questo rientra nella logica del mondialismo, interessato a screditare la politica come scelta autonoma dei singoli popoli al fine di creare un governo mondiale. Si dirà che i partiti hanno fatto a gara nello screditarsi da soli, ma questo è un altro problema, ... è "cosa loro".
La seconda considerazione che, per quanto si è visto nell’ultimo anno, possiamo fare, è la seguente: non si è avuta alcuna concreta reazione, se non sul piano elettorale, da parte del popolo; un popolo informato in modo sempre più preciso sulla natura truffaldina e vampiresca delle forze che, per quasi mezzo secolo, lo hanno rappresentato e governato. 
Bisognerebbe che qualcuno tranquillizzasse il presidente Scalfaro: non c’è un pericolo sfascista e non si rischia di equiparare tutta l’Italia a Tangentopoli, perché ognuno, come sempre, pensa a sé stesso e tira a campare. Eppure la scoperta di Tangentopoli, quali ne siano le cause e gli effetti, è un evento di portata storica, paragonabile al crollo del muro, in quanto segna il trapasso di una classe politica nata dalla resistenza e ligia alla costituzione.
Di fronte ad un tale disastro, e tanto più con l’aggravarsi della crisi economica, la quasi totale mancanza di reazione da parte di quello che non è più un popolo è stupefacente, anche se spiegabile proprio col venir meno di quella qualifica.
Non si tratta, sia chiaro, dell’indebolimento dello spirito di unita nazionale; si può essere popolo e lottare per un unico destino anche riunendo etnie e realtà culturali diverse, purché omogenee.
È inevitabile il paragone non tanto con la "Repubblica di Weimer", come amano fare i gazzettieri, quanto con la Francia nelle giornate del febbraio ’34, quando il popolo scese in piazza, anche se diviso nelle ideologie, gridando "Abbasso i ladri!", sotto la guida delle formazioni nazionaliste o, a sinistra, dell’eretico.
Oggi, per mille motivi, un fatto analogo sarebbe impensabile, ma non per questo ci si può limitare al freddo realismo. Oltre a non essersi avute manifestazioni violente, sono mancate anche quelle pacifiche che avessero come oggetto specifico la questione morale. 
Indubbiamente il voto del 5 aprile e l’ipotesi referendaria hanno consentito una completa canalizzazione della tensione, alimentando l’illusione che il cambiamento sia realizzabile adottando nuovi meccanismi elettorali. 
Può sembrare velleitario ed estremistico ricordare come quelli non possano contrastare, in sé, lo sviluppo del mondialismo capitalista, ma questo resta vero, dato che esso si rafforza in proporzione inversa alla coscienza che ne hanno i popoli.
Prevale il mito del buon governo, il mugugno e l’assuefazione agli scandali si combinano con l’ipotesi leghista, fenomeno per certi versi spontaneo ma che già si configura come una alternativa nel sistema, di cui non contesta le premesse etiche né quelle economiche, l’ispirazione democratica e mercantile.
È necessario riflettere sul fatto che le passioni più forti e la più fiera indignazione sono provocate ormai solo da situazioni effimere, come gli spettacoli sportivi o musicali. Il crollo del muro ha impresso nelle menti di centinaia di milioni di occidentali la convinzione che questo è il migliore dei sistemi possibili e ciò rende difficoltosa, in questo periodo storico, l’affermazione di un idea antagonista, diversamente a quanto avveniva negli anni Trenta o Settanta.
L’estraneità della gente alla politica, grazie anche ai tangentomani, è cresciuta, essendo la politica ridotta, ormai, ad un insieme di norme e delibere per la costruzione di stadi, parcheggi, metropolitane. Così l’oscenità di questo potere non sembra coinvolgere più di tanto, come se Tangentopoli fosse un atollo del Pacifico su cui lanciare tranquillamente atomiche o riguardasse una diatriba sul calendario venatorio anziché l’onore della nazione. 
Se dunque ai nostri occhi l’ipotesi di una riforma elettorale in senso maggioritario appare come un espediente gattopardesco, questo non toglie che essa venga tenuta in seria considerazione, come una panacea.
Ci sarebbe, invece, bisogno di una sintesi, di un superamento delle politiche di destra e di sinistra, in funzione antisistema.
Ora, si può discutere se la gente segua o no il dibattito istituzionale piuttosto del campionato di calcio, ma è un fatto che tutta quest’impalcatura riformista conferma come si possa gestire con metodi democratici un sistema assolutamente elitario e antipopolare. Sta infatti accadendo che si vive, giorno per giorno, la caduta di questo muro, ma nessuno, per restare alla metafora, va con il picconcino ad abbatterlo. 
Non si dica che i picconi sono le matite copiative e che le picconate sono state date delegittimando questa classe politica: è tutto delegato ai vari Segni, Bossi e Di Pietro, assurti al ruolo di grandi inquisitori.
È stato già sottolineato da molti commentatori come questo sistema partitocratico abbia soffocato sul nascere, escludendola dalla gestione, una generazione di potenziali quadri politici ed economici restii al metodo della tangente. 
Forse ancor più grave è l’aver ottenuto l’acquiescenza del popolo, che si manifesta anche nell’assenza sia di vere rivolte, quali la Settimana Rossa del ’14 o quella di Reggio, sia di scioperi o assemblee sui luoghi di lavoro o nelle scuole. 
Questa è la vera questione morale: la passività di un popolo disposto, come cinquanta anni fa, ad inchinarsi ai nuovi padroni.
Viene così da chiedersi dove siano finite tutte le lezioni di democrazia e di coscienza politica tanto vantate negli ultimi venticinque anni e che effetto abbiano avuto su una massa che pare in piena balia dei valori e delle idee dell’Alta Finanza. Una massa, oltretutto, enormemente invecchiata, spenta anche in senso biologico. 
Pertanto questo trapasso è completamente gestito da esponenti del vecchio potere, al governo o all’opposizione, e da gruppi di pressione, senza un intervento più diretto, anche solo di reazione, della gente. 
Ipnotizzata dal moderno pifferaio, la televisione, essa si fa raccontare quotidianamente come sia stata derubata per lustri, come debba provvedere a praticare altri fori nella cinghia, come sia stata finora così ben rappresentata e quanto costasse non essere espropriati dai bolscevichi.
Emerge, insomma, un dato attinente alla sfera della psicologia politica: l’affidarsi di una massa inerte alla speranza che i soci dei ladri non rubino più e che i tecnocrati siano i colonnelli del duemila.
Questioni di enorme portata quali l’indipendenza dell’Europa, la gravissima situazione ecologica, la disoccupazione, la condizione giovanile; tutto confluisce nella ricerca di un diverso metodo di voto, di un diverso modo di gestire un sistema che comunque deve restare capitalista, materialista, antieuropeo. 
Questo non è un momento qualsiasi e la situazione è ben più grave di quella dei tempi dello scandalo Lockheed (quando, tuttavia, in Giappone, un pilota si lanciò con il proprio aereo contro la villa di un ministro corrotto!); è, invece, un momento quasi storico, anche se di una storia ingloriosa e gli studiosi di scienze politiche possono già trarre questa lezione: un popolo immaturo, eppur senile, attende dal nuovo capo, magistrato o promotore di referendum che sia, la soluzione dei suoi guai, incapace non solo di farsi giustizia da sé, ma neanche di una vibrata protesta.
Come ai tempi de "L’Asino" di Gelantara, il popolo umile, paziente e bastonato attende ancora di destarsi, o almeno di ritrovare una vera guida rivoluzionaria. 
Sarebbe davvero un paradosso se, sconfitte le utopie marxiste sull’estinzione delle classi, si realizzasse una estinzione ben più grave: quella del popolo ridotto a massa di consumatori acefali.

Attilio Cucchi

 

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