da "AURORA" n° 5 (Aprile 1993)

RILEGGENDO

da "I proscritti" 

Ernst Von Salomon


Prendere un (vecchio) libro dallo scaffale, sfogliare le sue pagine e provare a (ri)leggerle. Questa volta la nostra scelta è caduta su un libro (ri)stampato nel 1979, dalle Ed. all'Insegna del Veltro (Viale Osacca, 13. - 43100 Parma). 
L'autore, Ernst Von Salomon, un proscritto, appartenente all'OC (società segreta responsabile degli attentati contro il capo dei cristiani-sociali e contro Rathenau, l'uomo politico d'origine ebraica che nel '22 aveva diretto le delegazioni tedesche alle conferenze di Cannes e di Genova), scrisse questo "libro di straordinaria forza" nel 1930 nel carcere ove era stato rinchiuso quale animatore della rivolta contadina dello Schleswig-Holstein. In questo romanzo, «una delle più affascinanti pagine di storia dell'immediato dopoguerra: l'epopea dei Corpi Franchi», egli narra le vicende precedenti e successive all'attentato a Rathenau ad opera di questo Freikorps che continuava l'attività della Brigata Ehrhardt.
Riportiamo la frase conclusiva della prefazione della terza edizione (1979) di questo libro: «Ci auguriamo che questi lettori, accolgano il libro con lo stesso sentimento che provammo noi allorché, ventenni, rivivemmo in una notte questa splendida epopea, col fiato sospeso e il cuore in tumulto».


[...]
Quella notte Kern ed io disputammo su molti argomenti. 
Era sempre così. 
Prima di poterci intendere eravamo costretti a risalire ai concetti. 
Una cosa sentivamo con forza: non poteva più bastare che ci riconoscessimo fra noi dal semplice atteggiamento. 
Non poteva bastare il vedere che così ci si distingueva dagli altri. 
Ora chiedevamo il perché. 
E sapendo che quella stessa domanda sorgeva ora in tutti i campi dei giovani dalla confusione, credevamo, avendo vissuto più aspramente quell’atteggiamento, di doverla formulare con maggiore intransigenza. 
Questo significava tuttavia solo mostrarsi radicali anche di fronte a quella domanda, spingersi fino alla radice. 
Ci sottoponevamo così alla tirannia della parola e del resto eravamo pronti a sottoporci ad ogni tirannia in cui potessimo irrobustirci.
«A una sola tirannia,» disse Kern «noi non potremo sottoporci mai, a quella economica, perché, completamente estranea com’è alla nostra natura, sotto di essa non potremmo rafforzarci. La tirannia economica diventa insopportabile perché il suo livello è troppo basso. Su questo criterio dovremmo essere d’accordo, anche senza chiedere dimostrazioni. Il rango si sente, e non è possibile intendersi su quest’argomento con coloro che lo negano.»
«Quelli che parlano d’intesa,» dissi esitante «mettono molto in alto il rango della tirannia economica.»
«Quelli che parlano d’intesa parlano anche di riconciliazione. Ma una riconciliazione può avvenire, quando la barriera del sangue versato divide i partiti, solo se gli avversari si riconoscono nell’attimo del più alto valore. Come possono due avversari rispettarsi se non sono coscienti del loro valore e della reciprocità del loro valore?»
«Chi parla di riconciliazione ha fede in un valore assoluto.»
«E questo ci divide da loro. Su quale sostanza che appartenga loro veramente, possono contare gli uomini che partono ora così seri e indaffarati per Genova? Parlano la lingua del l’avversario, pensano nei suoi concetti. Il loro argomento più forte è sempre lo stesso: che danneggiando l’economia tedesca si danneggia l’economia di tutto il mondo. La loro ambizione più grande è sempre di potersi introdurre legittimamente nel sistema delle grandi potenze d’Europa, dell’Occidente. E quando dico Occidente, alludo alle potenze che si sono assoggettate alla tirannia economica perché sotto quel giogo potevano diventare forti.»
«Se mi hanno bene informato, anche Cicerin va a Genova.»
«Se ti hanno bene informato, Cicerin va a Genova per avanzare le pretese nazionali della Russia nello stesso campo delle potenze occidentali, per la prima volta dalla fondazione dell’Unione Sovietica.»
«Il bolscevismo ha pretese nazionali? Domani mi faccio bolscevico.»
«Fallo, e ti considererò russo. Questo è quel che mi dà la certezza dell’ascesa della nazione come concetto direttivo. Combatti contro una nuova idea e incontrerai un paese.»
«Come noi, anche la Russia di Cicerin lotta per la sua libertà, che si compie nella scoperta di un atteggiamento proprio. In tutta la loro storia i russi, come i tedeschi, si sono sempre dovuti difendere dalla sopraffazione dello straniero. Solo, secondo me, la forza di volontà dei tedeschi ha sempre mantenuto l’immagine mondiale della Germania al centro della lotta, mentre entro i confini del mondo russo, elementi stranieri combattevano gli uni contro gli altri. Che sarà se per difendersi dall’Occidente i russi sfrutteranno l’aiuto di una componente creatasi entro l’Occidente stesso? Questo significherebbe combattere il diavolo del capitalismo con il belzebù del marxismo. Bene, è importante che questo belzebù si calzi sul cranio il berretto da cosacco e che sotto la sua tirannia la Russia diventi più forte che mai. È anche importante che un attacco al bolscevismo sia ora un attacco alla libertà nazionale della Russia. I contrasti che sono stati delineati laggiù più nettamente sono anche stati combattuti più aspramente. Così dunque l’Unione Sovietica, un’unione di repubbliche nazionali con una forte architettura gerarchica, ha trovato nel bolscevismo la forma di espressione statale che le era adatta, come non l’ha trovata a Weimar la Repubblica Tedesca.»
«Ma questi stravaganti nazionalisti dicono: rivoluzione mondiale.»
«Dicono rivoluzione mondiale, ma credono nella Russia. Un popolo giunge fin dove giunge la sua forza, e lo stesso limite ha anche la sua idea. L’idea russa della rivoluzione mondiale ha avuto comunque la forza di spazzare dal paese gli eserciti stranieri, di osare un attacco contro la Polonia, di tormentare con incubi paurosi l’Occidente e di far marciare in tutti gli stati del mondo un esercito pronto ad agire, pieno di buona fede e che non le costa niente.»
«Uniamoci a quest’esercito d’irredenti.»
«Non possiamo unirci ai comunisti tedeschi, perché secondo il volere russo essi non debbono vincere. Non devono vincere perché dopo la vittoria non sarebbero più degli irredenti russi, perché dovrebbero subire lo stesso processo dello sviluppo di forze elementari, che per mezzo del bolscevismo ha trasformato la Russia in una nazione. Non possono nemmeno vincere secondo il nostro volere perché si negano alla nazione.»
«Ma si tratta della lotta contro l’Occidente!» dissi eccitato, «della lotta contro il capitalismo! Diventiamo comunisti! Io sono pronto a venire a patti con chiunque combatta dalla mia parte! Non ho interesse a difendere uno stato di cose col quale non ho rapporti.»
«Non siamo noi, ma i bolscevichi che si preoccupano di interessi. E noi non li avversiamo perché il loro interesse non è il nostro, ma perché non riconosciamo assolutamente altri interessi fuori di quello della nazione. Sostituisci alle parole società e classe la nazione, e capirai quello che voglio dire.»
«Ma questo è socialismo nella sua forma più pura!»
«In pratica è socialismo, sì. E solo nella sua forma più pura, cioè in quella prussiana. Un socialismo in tutti i campi, per mezzo del quale, con l’unione più stretta, con l’estremo sacrificio possibile per la comunità non si spezzerà soltanto la tirannia economica, un socialismo che ci farà anche ritrovare l’intima disciplina, la fermezza che il diciannovesimo secolo ci tolse. Noi combattiamo per questo socialismo, e chiunque si sottrae a questa lotta ci è nemico. Sí, sono tutti eccellenti tedeschi, tutti patrioti fervidi. Quando dicono con tutto il loro sentimento tedesco intendono esattamente ciò che dava il tono al secolo passato; esattamente ciò che scatenò la grande guerra, certo in nessun caso ciò che fa da leva alla nostra azione. Il contrario, del resto, sarebbe assurdo! Tra loro e noi non è possibile una riconciliazione; essi sono incapaci dell’estremo coraggio. Se esiste una forza che è nostro compito distruggere con tutti i mezzi, è l’Occidente, è la classe tedesca che si è lasciata estraniare da esso. Costoro dicono tedesco e tendono alla loro patria, l’Europa. Gemono perché sono oppressi e ambiscono l’oppressione. Vogliono che noi si viva e si sia pronti a valorizzare l’ultimo resto della sostanza tedesca per amore di quell’unica tirannia che essi possono comprendere. E si meravigliano che i tedeschi possano ancora essere temuti. Ma non sono temuti questi uomini pronti a sottomettersi, perché i loro atti e le loro ambizioni, la loro volontà e il loro atteggiamento siano pericolosi; i tedeschi sono temuti perché ci siamo noi. Perché in noi e in centomila altri la guerra e il dopoguerra hanno fatto nuovamente sbocciare ciò che veramente ci rende pericolosi per l’Occidente. E così è bene; così è tre volte bene; così la nostra epoca opera per noi e noi operiamo per la nostra epoca. Così noi potremo forse ancora pagare il nostro debito, espiare la colpa che commettemmo macchiandoci della più spaventosa assenza di solidarietà della storia mondiale verso i popoli schiacciati dall’Occidente che ora si stanno risvegliando, e non iniziando, noi, popolo schiacciato dall’Occidente, la nostra propria guerra di libertà. Rimanendo passivi, noi che avremmo dovuto essere attivi in qualsiasi circostanza!»
[...]
«Non lo sopporterei,» riprese Kern «che dal materiale fracassato, marcito di quest'epoca, sorgesse ancora una volta qualcosa di grande. Rathenau insegue forse ciò che i chiacchieroni chiamano una politica di adempimento. A noi non importa; noi ci battiamo per cose più alte, non già perché il popolo sia felice, ma per spingerlo sulla strada del suo destino. Ma se quest'uomo donasse ancora una volta al popolo una fede, se lo sollevasse ancora una volta fino a una volontà, fino a una forma -volontà e forma di un tempo che morì con la guerra, che è morto, tre volte morto,- questo io non lo sopporterei.»
«Allora,» dissi «il nemico è smascherato. Il problema è: come si può attaccarlo nei suoi elementi più vitali?»

Chiesi a Kern:
«Tu, ufficiale dell'esercito imperiale, come hai potuto sopravvivere al nove novembre 1918?»
«Non sono sopravvissuto» rispose Kern. «Il nove novembre del 1918 mi sono sparato, come ordinava l'onore, una pallottola in testa. Sono morto; quello che vive in me non sono io. Da quel giorno non conosco più un io. Non voglio essere da meno di quei due milioni di morti. Sono morto per la nazione, e dunque ogni cosa in me vive solo per la nazione. Non sopporterei che fosse diversamente. Faccio quello che devo. Poiché dovevo morire, muoio ogni giorno. Poiché tutto quel che faccio è dedicato a quell'unica forza, tutto quel che faccio viene da quella forza. Quella forza chiede distruzione ed io distruggo. Finora ha chiesto solo distruzione. Chi viene a patti con la morte deve poter dire compare al diavolo. Se quella forza non mi tenesse più al suo servizio, so che cadrei, sarei distrutto. Non mi rimane che ciò che mi è imposto con la piena adesione. Non mi rimane che consacrarmi al mio bel destino implacabile».

Ernst Von Salomon

 

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