da "AURORA" n° 8 (Luglio - Agosto 1993)

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Sporchiamoci le mani

Renato Pallavidini

Qualche anno orsono si cianciava, all'interno del mondo intellettuale e della stessa sinistra, sulla fine della classe operaia. Erano i mitici anni '80 -quelli degli yuppies e dei ladroni dichiarati al governo!-, i grandi gruppi industriali avevano ristrutturato la loro organizzazione produttiva, introducendo la robotica e riducendo la forza lavoro; proliferavano le più dissennate, grandi e piccole, speculazioni finanziarie.

Le grandi lotte sociali del '69 e degli anni 70 sembravano già lontane, il sindacato viveva i postumi della sconfitta strategica alla FIAT.

In questo clima si diceva che era inutile parlare agli operai, cercarne il consenso, perché erano destinati a sparire. Meglio spendere il tempo a inseguire i nuovi bisogni e i nuovi soggetti di massa, in una logica non più sociale ma quasi metasociale: le donne, i giovani, i culattoni, ecc.

Poi successe -se la memoria mi sorregge, nel 1988- che la CGIL e il PCI scoprirono all'improvviso che operai ce n'erano ancora e che avevano salari da fame. Non lo riscoprirono solo i comunisti, ma anche la galassia nazionalpopolare guidata da Pino Rauti, che impostò la sua proposta strategica su cattolici e classi lavoratrici.

Purtroppo che esistano ancora gli operai, lo hanno capito anche le forze padronali, che hanno imbastito quella porcata che ha condotto all'abolizione della scala mobile, lo scorso anno, e all'accordo sul costo del lavoro in questi ultimi giorni.

Ora, in ambienti anche molto vicini a noi, si viene addirittura, a sapere che non solo non esistono più operai, o quanto meno che sono in avanzata via di estinzione, ma che sono venute meno persino le classi sociali, per cui vivremmo in una società che è tutta un omogeneizzato.

Le differenze che emergerebbero all'interno di questo corpo sociale, così uniforme e grigio, sarebbero al massimo regionali o territoriali, i nordisti contro i sudisti.

Evviva le etnie! Evviva Bossi!

Ne consegue che una strategia rivoluzionaria non deve più individuare i gruppi sociali e le aree culturali alle quali dirigersi, con i cui interessi e orientamenti mettersi in sintonia.

Una strategia rivoluzionaria deve dirigersi a tutti, in modo interclassista -riemerge il vecchio interclassismo!-. Chi ci sta ci sta, chi non ci sta -disoccupato, operaio e magazziniere- è solo un borghese, complice delle forze mondialiste!

A parte i problemi teorici sollevati da simili considerazioni -dall'idealismo deteriore nella definizione delle classi sociali, sino ad un'analisi sociologica improvvisata e dilettantesca- vi è un problema politico da porre.

Mettiamo il caso di trovare adesioni fra i commercialisti lombardi e gli industriali tedeschi ad un discorso di tutela della specificità lombarda e bavarese -ammesso che esistano ad un livello che non sia folcloristico- cosa si fa? Questa diventa la base sociale della nostra strategia rivoluzionaria!

Ma alla fin fine, saldandosi il rapporto fra noi e gli industriali tedeschi occorrerà tenere conto dei loro precisi interessi economici nella nostra azione politica, ed ecco che si diventa lentamente una forza politica che, magari difende le feste popolari lombarde e bavaresi, ma si fa anche interprete di istanze capitalistiche e s'impegna a difenderle contro chiunque le attacchi, sindacati in testa.

Non è successo così nel 1921? Anche allora elites e dirigenti rivoluzionari come lo stesso Mussolini hanno trovato consensi di massa medio borghesi, appoggi conservatori e ne sono stati ingabbiati al di là delle loro intenzioni.

E quando hanno fiutato il pericolo e hanno cercato di manovrare per arrivare ad un accordo con il partito socialista, nel 1921, la componente più reazionaria della base sociale del Fascismo, guidata guarda caso da Grandi, è insorta per far fallire tutto!

Purtroppo se non individuiamo con precisione i settori sociali con i quali porsi in sintonia, o si fa questa fine -che tarpò le ali al Fascismo e al Nazionalsocialismo- o si attende la mitica grande crisi, lo sconvolgimento epocale, la guerra di bande per costruire la confraternita d'armi e divertirsi a tagliar la gola ai nemici o presunti tali.

Ma questa cosa c'entra con il nostro ideale socialista e nazionale? Cosa c'entra con il nostro ideale di emancipazione delle masse popolari dalla schiavitù del profitto? Può al massimo rientrare in qualche truce mito barbarico che si perde nella notte dei tempi, ma non con una seria lotta sociale e politica per portare i lavoratori italiani alla comproprietà delle aziende in cui operano e lavorano.

Su! Smettiamo di fare i superuomini, i pectore pronti a scatenare.

Sporchiamoci le mani con i problemi quotidiani della gente che lavora e paga le tasse, e troviamo lentamente quelle radici di massa che non abbiamo, e senza le quali, come insegnò Antonio Gramsci, neppure in presenza di chissà quale crisi epocale, non si fa né il movimento politico né la rivoluzione.

A meno che non si scambi la tragedia di Sarajevo per una Rivoluzione!

 

Renato Pallavidini

 

 

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