da "AURORA" n° 12 (Dicembre 1993)

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Ancora sul socialismo possibile

Gianni Benvenuti

Più i giorni e i mesi passano e più si ha la sensazione, anzi la certezza, che il quadro politico italiano si complichi maledettamente.
Mentre quasi tutti lo invocano il nuovo si allontana sempre di più. Le recenti elezioni lo hanno ampiamente dimostrato, laddove gli Italiani non hanno sicuramente votato per il nuovo, ma contro il vecchio regime corrotto. Punto e basta. Non si sono espressi per, ma contro. E di volta in volta hanno scelto il candidato o i candidati che sembravano essere il meno peggio o quelli che, per ora, risultavano non essere coinvolti nella pratica delle tangenti. Un po' poco per dire che si volta pagina. I problemi sono tutti lì, irrisolti. Nei dibattiti, nei proclami si è sentito parlare quasi esclusivamente di alleanze e di schieramenti. E se ne sono viste di tutti i colori. Niente di nuovo sotto il sole. Anzi molto di vecchio, stramaledettamente vecchio. Ed è un vecchio sempre più vecchio. Ottuso; pesante; soffocante. Vecchi sono i partiti, le aggregazioni da essi pilotate e gli uomini che cercano disperatamente di riciclarsi. Tutti alla ricerca di incomprensibili connubi e ibride ammucchiate che sanno esclusivamente di stantio e mirano alla pura e semplice sopravvivenza dell'attuale sistema consociativo. Vecchi, anzi decrepiti, sono la DC di Martinazzoli, il PDS di Occhetto, il PSI di Del Turco. Vecchio è il MSI di Fini nel momento in cui dichiara di voler costruire un raggruppamento di destra, moderato, conservatore, filo-occidentale, filo-capitalista, e per fare questo si rivolge a personaggi o forze politiche o categorie fino ad ieri perfettamente integrate, anzi pilastri, del vecchio sistema.
Così come fa, se si va a veder bene, anche Occhetto. Pure lui teso alla conquista del centro moderato, pure lui filo-occidentale, pure lui per il libero mercato. Sia Fini che Occhetto, come Berlusconi, guarda caso, si rivolgono all'Italia che lavora, che produce. Ai benestanti e benpensanti. Nella migliore logica capitalista. Ma a chi non lavora perché il lavoro non c'è, a chi non trova casa perché le case non ci sono, chi ci pensa? Nessuno, meno che mai la Lega di Bossi, così come la Rete di Orlando o Segni, già vecchi anche loro.
Tutto questo insopportabile vecchiume è splendidamente sponsorizzato da colui che potremmo definire il «grande vecchio» per antonomasia, e cioè Oscar Luigi Scalfaro. Sempre pronto a frenare, a difendere l'esistente ed un recente passato tutto da dimenticare. 
A fronte di questo quadro non certo edificante e sicuramente poco foriero di sostanziali novità sta la drammatica situazione del Paese. Il dibattito politico e culturale miseramente scaduto nella esclusività delle alchimie elettoralistiche. Il cosiddetto sociale è scomparso. Tutti sono tesi alla forsennata ricerca di una zattera cui aggrapparsi pur di restare a galla. Pronti a rinnegare tutto e tutti. Le origini, la memoria, la propria storia, i valori. Siamo ai saldi di fine stagione. E così il governo Ciampi continua imperterrito a massacrare contribuenti e lavoratori. Il costo della vita lievita paurosamente a fronte di stipendi fermi ormai da anni. 
Tutto viene inesorabilmente colpito: il lavoro, la casa, la sanità. Ogni senso di solidarietà verso i più deboli e i più poveri viene calpestato. Vincono l'usura e l'egoismo più sfrenati. Trionfa un capitalismo selvaggio e bieco che distrugge ogni valore. 
Tramontano le ideologie che per decenni hanno caratterizzato, nel bene e nel male, la scena politica nazionale e internazionale. Le lobbyes e le multinazionali spadroneggiano. Crollano i miti. 
Si frantumano, finalmente, le vecchie terminologie di destra e sinistra. 
Tutto brucia intorno a noi, è tabula rasa
Sembra di vivere in un sogno. Terribile. Terrificante. Dal quale ognuno vorrebbe uscire al più presto, ma non riesce a svegliarsi. Tutti vorrebbero chiudere col più recente passato. Gridano al nuovo, ma esso viene strozzato in gola, sino a soffocare. Vorrebbero scendere in piazza e spaccare tutto, ma mancano di forza e coraggio. Tutti orfani, più che di sacrosanti motivi, di idee trascinatrici. Ognuno, pur se inconsapevolmente oramai, resta legato a vecchi schemi e antichi pregiudizi. Prigioniero di frasi fatte e steccati superati. Centro, destra, sinistra. Comunismo e anticomunismo. Fascismo e antifascismo. Così il vecchio sopravvive; così il nuovo si allontana a tutto vantaggio di quella logica usuraia, egoistica e supercapitalistica a cui più sopra si accennava.
Da tempo andiamo predicando che occorre una radicale inversione di tendenza e mentalità. Abbiamo più volte ipotizzato, con puntuali e precisi riferimenti storici e culturali, quello che di volta in volta è stato definito «socialismo possibile», «socialismo tricolore», «socialismo nazionalpopolare», «nazionalizzazione del socialismo», «socialismo fascista». Non sono però la definizione e la forma che ci devono interessare, ma la sostanza e i contenuti. I punti di convergenza e di approdo. Le idee forza e i valori. Il progetto politico. Le vie da seguire per coniugare il sociale con il nazionale. Per riprendere quell'affascinante discorso iniziato ai primi del secolo, riaffiorato negli anni trenta e poi quaranta, e quindi bruscamente interrotto. Quell'idea di socialismo e nazione che trovò entusiastici consensi in Sorel, Corridoni, Missiroli e tanti altri ancora, per arrivare fino al non mai troppo ricordato Nicolino Bombacci. Una idea che è sempre stata viva e presente nello stesso Mussolini che, volenti o nolenti, non ha mai cessato di essere socialista. Mai va dimenticato quanto egli ebbe a pronunciare, rivolto proprio ai socialisti, il 7 giugno '24: «Cercate di studiare, voi che fatte dell'opposizione, se non sia il caso di trarre una sintesi, di non fermarsi in queste due posizioni antagonistiche, di vedere se queste esperienze possono essere feconde, per dare una nuova sintesi di vita politica».
Poi, non a caso, vi fu il delitto Matteotti. Quel cadavere buttato tra la nazione e il sociale fermò la storia. Cambiò la storia. L'incontro tra socialismo e nazione si allontanò tragicamente, con le conseguenze a tutti note e che ancora ci stanno di fronte agli occhi. Ma quella «nuova sintesi di vita politica» è possibile oggi proprio nel momento, e non sembri paradossale, in cui ha fine il tragico equivoco del socialismo reale ed in cui, un po' ovunque, i falsi socialisti di sempre sono presi con le mani nel sacco. È la storia che si ripete. Basti rileggere quanto veniva scritto su "Utopia", la rivista socialista diretta da Mussolini, nel dicembre '14: «L'attento osservatore non può non essere colpito dal carattere spiccatamente borghese e conservatore che il partito socialista è venuto assumendo (...) il partito è divenuto un comodo mezzo per farsi una notorietà per staccarsi dalla massa, a tutto vantaggio di ambizioni e interessi assolutamente personali».
Per circa ottanta anni il termine socialismo è stato usato e sfruttato per edificare sistemi politici e modi di vivere ignobili e perversi. E questo non è un caso. Vi è una lampante giustificazione che non sta soltanto nel fatto, pur determinante, di aver confuso e colluso il socialismo con il marxismo. Essa è in gran parte dovuta alla scellerata frattura, mai ricomposta, tra socialismo e nazione. Tra valori sociali e valori nazionali. 
Oggi è indispensabile eliminare tale frattura. Ricomporre. Il nuovo passa proprio attraverso questa fusione.
Fino a qualche anno fa si parlava di "terza via" per indicare l'alternativa al sistema comunista ed a quello capitalista. Oggi con la fine del socialismo reale, il crollo del marxismo e l'evento di un capitalismo prepotente e corruttore non resta che «il socialismo possibile». Portatore di autentici valori quali la solidarietà, la giustizia sociale, l'identità nazionale, l'onestà, la competenza. Creatore di quell'uomo nuovo che può e deve opporsi allo strapotere del capitalismo e del mondialismo imperanti. Il socialismo possibile si pone, in un sistema partitocratico sempre più drammaticamente investito da una crisi strutturale, funzionale e disaffezione, idealmente come unica via d'uscita. Esso può assumere l'ambizioso compito di rinnovamento. Deve però crescere la tensione. Devono caricarsi la convinzione e la passione, fino a trasformarsi in una prospettiva trascinatrice. Deve nascere quell'entusiasmo progettuale che può trasmettersi e contagiare un Paese in oramai spasmodica attesa di un reale e radicale cambiamento.
Riportare il socialismo alla nazione e viceversa significa, oltre a tanto altro, anche evitare il definitivo sprofondamento nel vassallaggio rispetto all'unica superpotenza esistente e alle grandi holding multinazionali. Ma significa anche non sprofondare nel caos dei particolarismi localistici, capitalistici e settoriali. Qualche tempo fa Enrico Landolfi sosteneva a proposito di quella che lui chiama "nazionalizzazione del socialismo": «È una battaglia tutta da combattere (...) e per fare ciò non c'è alcun bisogno di occuparsi degli interessi più o meno partitocratici, più o meno elettoralistici, di questa o di quella sigla partitica. C'è bisogno, invece, di costruire poco alla volta una nuova area culturale con il contributo di tutti, specialmente di tutti coloro che a qualunque filone ideologico appartengano, in qualunque dottrina o esperienza storica si siano riconosciuti, manifestino disponibilità per un lavoro comune, per una ricerca comune, per un'opera volta ad una definitiva e totale nazionalizzazione del socialismo».
Gli antagonisti di oggi possono e debbono assumersi questo difficile ed affascinante compito. Vi riusciranno? Vi riusciremo? Lo speriamo.
Comunque vale quanto lo Shurè ha scritto nella sua prefazione ai suoi "Grandi iniziati": «L'essenziale in questo mondo non è di riuscire, ma di avere una volontà. Se noi non possiamo essere giocondi mietitori, siamo almeno seminatori confidenti e arditi».
Il che equivale ad un'altra bellissima affermazione di una persona a noi particolarmente cara, Beppe Niccolai:
«Non è importante la vita. È importante ciò che si fa della vita».

Gianni Benvenuti

 

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