da "AURORA" n° 18 (Giugno 1994)

L'APPROFONDIMENTO

 

Critica del Federalismo

(seconda parte)

Francesco Moricca

 

V

Si è detto all’inizio delle nostre considerazioni su Cattaneo che sul suo federalismo si esercitò una duplice influenza: quella filosofica del positivismo e quella politica del socialismo utopistico saint simoniano. Con l'analisi del saggio di Corvaia che immediatamente precede, siamo giunti a dimostrare che il risultato cui si perviene spingendo alle estreme conseguenze questo connubio di positivismo e socialismo utopistico -risultato formalmente coerente e inattaccabile se si accettano certe premesse- è una perfetta forma di regime mondialista, ogni suo ulteriore miglioramento non essendo possibile se non su questioni secondarie, cioè tecniche e di dettaglio.
Con questo non vogliamo asserire che Saint Simon, Comte e Cattaneo nella fattispecie siano ideologi dell'usurocrazia. Ma piuttosto che la loro ideologia ne contiene tutti gli ingredienti concettuali ed operativi, i quali furono sistematizzati magistralmente appunto dal Corvaia.
Quanto al Cattaneo in particolare, che come ideologo di un certo federalismo progressivo e scientifico ci sembra anche più notevole di Saint Simon (e molto più concreto dello stesso Comte nell'ideare una razionale e però non cervellotica ingegneria sociale), abbiamo l'impressione che una sua utilizzazione in funzione mondialista sia quanto meno nell'aria. E basti qui citare il Miglio, che non è certo un pensatore di sinistra, ma che a suo modo concepisce anche lui un superamento delle classiche contrapposizioni politiche, in parallelo con quanto cercano di fare pensatori che di sicuro lo sono, come alcune eminenti figure del "pensiero debole" e lo stesso Colletti, già allievo di Galvano della Volpe, il quale -si deve oggi ricordare e senza nulla voler togliere alla Sua illustre memoria- prima di passare al marxismo fu giovane e assai promettente maestro di Mistica Fascista.
Allo scopo di verificare la nostra impressione, ma anche di fornire delle coordinate storiche e teoriche della nostra personale proposta politica, che in altri articoli abbiamo definito populista, ovvero di federalismo populista, è opportuno prendere in esame il pensiero di un altro socialista utopista, il Proudhon, le cui idee son ben diversamente orientate che non quelle del Saint Simon e del Cattaneo, e suscettibili di essere ricondotte -con i dovuti aggiustamenti- nell'alveo di un movimento politico che guardi esplicitamente ai Valori Tradizionali (dobbiamo qui notare che in questo recupero di un certo socialismo utopistico, che fu anche del primo Craxi, siamo stati preceduti da Max Gaozza col suo articolo su Blanqui, apparso su "Aurora" n. 10, novembre '93).
Ciò che qualifica il pensiero di Proudhon è proprio l'intonazione decisamente antimodernista. Proudhon rifiuta l’industrialismo e vi vede l'origine prima delle crescenti sperequazioni sociali che hanno determinato un aggravamento delle condizioni di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Guarda con nostalgia roussoiana alla società contadina e artigiana del passato, la società dei piccoli nuclei urbani e delle famiglie. Vorrebbe conciliare le ragioni del progresso col bisogno di radicamento e di continuità culturale che è proprio alla natura umana. Si può dire che agli occhi del socialista scientifico Marx l'utopismo di Proudhon consista in questa opposizione alla utopia progressista per cui sarà definito «piccolo borghese» dal filosofo di Treviri (con l'avvertenza, comunque, che in Marx la "scienza" non è quella dei positivisti, ma quella della sua personale reinterpretazione di Hegel, nella quale reinterpretazione non è detto sia del tutto assente una componente di positivismo, che è stata da molti studiosi marxisti invece ingiustamente attribuita al solo Engels). Con l'esperienza di oggi, è però da vedersi nell'utopismo del misero filosofo piccolo borghese Proudhon una previsione non casuale e perfino lungimirante degli esiti cui avrebbe condotto lo sviluppo delle proudhoniane «contraddizioni economiche»: esse di fatto si sono dimostrate identiche sia nel sistema capitalistico sia in regime di "socialismo reale", e ciò perché, come il pensatore di Besançon aveva intuito, essi funzionano alla stessa maniera e si ispirano a un medesimo modello. Vi è anzi di più e di ben altro: liberalismo e collettivismo marxista intendono nel medesimo modo il Valore della libertà, che viene in ogni caso abbassato alla stregua della libertà di soddisfare i bisogni umani, per cui anche ciò che nell'umanità la trascende viene dogmaticamente negato e dialetticamente ricondotto e ridotto alla sfera naturale dell'immanente.
Di certo Proudhon, che è a suo modo hegeliano come Marx, non riesce a cogliere il Valore della libertà nella sua purezza trascendente e assolutamente inesprimibile in termini razionali se non con un'approssimazione il più delle volte fuorviante. Ciò nondimeno, grazie al suo anarchismo (un anarchismo originario e anteriore all'adesione ideologica e consapevole cui perviene) vi si approssima di molto, come noterà un suo grande e geniale discepolo, George Sorel, il quale ne accoglierà la definizione essenzialmente etica della libertà, contro la definizione economica di Marx e dei suoi continuatori.
Fermo mantenendo il principio trasmesso dai Maestri della Tradizione, secondo i quali l'etica è una metafisica «di ordine inferiore» in quanto l'adesione alla "legge morale" (sia al limite persino quella dell'anarchismo storico) non è ancora un'identificazione senza residuo alcuno, bisogna riconoscere a Proudhon (e a Sorel) di avere meglio di qualsiasi altro pensatore politico moderno riconosciuto nell'etica, e dunque anche nella politica, una radice metafisica che agisce nella storia con la stessa forza dirompente delle leggi economiche; e anzi di più, possiamo affermare, senza allontanarci dal pensiero dei due autori menzionati, considerato il radicalismo anarchico di Proudhon e l'intonazione bergsoniana del sindacalismo rivoluzionario soreliano. A prova della nostra tesi, ricordiamo che non a caso Evola parla del risvegliato come di un "anarca", volendo dire che «l'individuo assoluto» non ha bisogno per essere tale di compiere materialmente gli atti in cui si intrinseca l'esistenza di coloro che si definiscono «anarchici», tuttavia nulla gli vieta di farlo che non sia la sua incondizionata volizione.
In forza del suo anarchismo, così, Proudhon oppone al centralismo statalista marxiano il suo federalismo.
Il pensatore di Besançon, anche qui richiamandosi a Rousseau vede un irriducibile contrasto fra società naturale e lo Stato; lo stesso contrasto che vi è fra la civiltà dei contadini e degli artigiani e la civiltà industriale. Per lui lo Stato non è all'origine della civiltà in generale, ma è il suo mostruoso prodotto, quasi una perversa superfetazione. Similmente la proprietà è una degenerazione del possesso naturale, cioè del frutto del lavoro individuale e comunitario degli uomini, ed è un furto non tanto perché il solo vero lavoro sarebbe quello manuale, ma perché la proprietà esclude di per sé il lavoro, la fatica del lavoro. Proudhon accetta da Smith e Ricardo la teoria del valore-lavoro, ma nega che di fatto venga rispettata, perché se lo fosse non dovrebbe di fatto esistere né la grande ricchezza né la grande povertà che invece esistono. Schumpeter osserva, da economista, che con questo ragionamento, Proudhon ha anticipato la teoria marxiana del plusvalore. Se è così, vogliamo far notare che egli perviene a tanto applicando l'etica (cioè la metafisica) all'economia, e che se ciò non è scientificamente corretto, il risultato è tuttavia esatto.
La ricchezza e con essa la sperequazione sono dovute non alla maggiore o minore efficienza dei lavoratori (produttori), ma all'invenzione del denaro. È questo che artificialmente e ingiustamente produce la ricchezza e infrange l’armonia naturale, l'autonomia e la libertà dei gruppi sociali originari, del primitivo "essere collettivo" che è nato spontaneamente come una "federazione di produttori" liberi e uguali.
Ricordando quanto si è detto all'inizio del nostro discorso, osserviamo come Proudhon si tenga ben fermo all'insegnamento del contrattualismo giusnaturalistico e quanto possa sembrare distante dal modo di ragionare di un Vico.
Tuttavia, quando egli prospetta le modalità per ritornare roussonianamente al «federalismo delle origini», pone come condizione primaria la soppressione del denaro da sostituirsi con dei «buoni», o certificati di lavoro già effettuato o da effettuarsi che costituiscono la prova di un «credito gratuito». Il sistema dei buoni non è altro che il perfezionamento del primitivo baratto ("mutualismo").
È qui invece che Proudhon è ben distante dai contrattualisti nelle conclusioni, pur essendo partito dalle medesime premesse. Non solo, ma nella misura in cui si allontana da essi, si avvicina a Vico.
La convergenza con le vedute dei Maestri della Tradizione in materia di economia e di politica si fa ancora più evidente quando Proudhon, da anarchico arciconvinto e da sostenitore pugnace della "rivoluzione dal basso" ci fa sapere che non vuole affatto abolire lo Stato e che è contro la collettivizzazione.
Si dice che lo Stato di Proudhon, essendo uno Stato federale, sia dotato di «poteri minimi», e che la sovranità, appartenendo agli organi decentrati della collettività ("Comuni"), sussista nello Stato federale «solo formalmente» In altri termini, il pensatore di Besançon sarebbe nient'altro che un liberale radicale, poiché «il principio federale -egli afferma-, come l'organizzazione municipale, è un corollario, ancora poco noto, della separazione dei poteri, al di fuori del quale non c'è repubblica e nemmeno monarchia costituzionale» (da "Il federalismo", trad. Albertini, p. 133). E però questo "liberale radicale" tanto rispettoso del principio della «separazione dei poteri» non parla mai di «diritto di secessione» e ciò sta ad indicare che, a differenza di Cattaneo come di Kant e Saint Simon, egli è contrario alla confederazione, e quindi deve ritenersi un federalista puro. Né in una simile anomalia è assente la logica. Se infatti la sovranità dello Stato federale è minima ovvero formale, non ha senso prevedere il «diritto di secessione».
Per intendere il pensiero di Proudhon circa la natura della sovranità nel suo modello federalista, occorre riportare il seguente passo del "Progetto di esposizione perpetua": «Lo Stato non deve più comandare il lavoro come non deve farsi industriale e commerciante: il suo ruolo è avvertire, stimolare, e poi astenersi».
Ciò Proudhon scriveva poco prima di morire.
La sovranità ha dunque una natura essenzialmente etica e spirituale, che verrebbe ad essere sminuita laddove vi si associassero i poteri reali menzionati nel testo. Altro che una concezione dello Stato dai poteri minimi, altro che visione formalistica e utopistica della sovranità! Se la visione che Proudhon ha dato dello Stato non assomigliasse tanto a quella che il Cristianesimo attribuisce alla Chiesa, sarebbe lecito vedervi un'adesione allo Stato Etico. Il che potrebbe anche concedersi, qualora si ammettesse che Proudhon abbia interpretato Hegel in chiave cristiana, e anzi, più precisamente, giansenistica.
Col che mi pare di avere dimostrato la rilevanza del federalismo di questo "socialista utopista" e la piena legittimità della sua utilizzazione. Solo nel segno di Proudhon, e non già di Cattaneo, possiamo aspirare a presentarci credibilmente come "nazionalpopolari".

 

VI

Il lettore avrà notato lo scarso rilievo che la nostra trattazione ha dato alla corrente federalista cattolica ottocentesca, che per noi si riduce al solo Gioberti per le ascendenze vichiane che ne caratterizzano l'impostazione filosofica generale e di cui ci sembra si sia dato conto a sufficienza. Non abbiamo parlato del Rosmini -benché sarebbe stato il caso di analizzare le ragioni del suo rifiuto, sulla scorta del Tocqueville, del sistema partitico parlamentare in cui si denuncia tanto il «dispotismo delle Camere» quanto il «dispotismo della società civile, che il più radicale e il più fatale di tutti». Non abbiamo parlato del Minghetti, e nemmeno di Sturzo.
La ragione, ove non la si fosse già intuita, è la seguente: il federalismo cattolico ottocentesco, al quale si ricollega quello dello Sturzo, è troppo pesantemente condizionato dal liberalismo, tanto, ci sembra, che esso finisce con lo smarrire se non addirittura pervertire ogni connotazione cattolica genuina e cioè tradizionale. La quale invece permane viva e quasi intatta, in positivo come in negativo, piuttosto nell'anarchico Proudhon, o nel Conte Bakunin che tanta parte ebbe nella storia delle origini di un certo socialismo italiano: quello intendiamo di Carlo Cafiero e soprattutto di Andrea Costa; un socialismo che condizionò la formazione politica di Mussolini e in cui bisogna cercare, al di là dei luoghi comuni della scienza ufficiale, la vera causa -insieme storica, ideale e vorremmo dire perfino caratteriale- del suo distacco dal marxismo. È qui il caso di aggiungere che abbiamo escluso di prendere in considerazione certe aperture gramsciane nei confronti del federalismo contenute nei "Quaderni" dedicate al Risorgimento, perché anche il Gramsci si lascia -e non è un caso- condizionare dal liberalismo. Gramsci apprezza il saggio di Cattaneo su "La Città" di cui abbiamo parlato denunciandone senza mezzi termini il limite per non dire le patenti falsificazioni. Quello che sorprende è che ancora oggi Gramsci possa essere ritenuto fra i maggiori, se non il maggiore dei "meridionalisti". Non solo dai comunisti, ma anche da certi cattolici che vanno per la maggiore e passano per progressisti. D'altra parte stranamente gramsciano appare lo stesso Miglio quando afferma: «Affascinati dal mito meschino del giusto mezzo fra le opposte istanze del federalismo e del centralismo, i legislatori dell'Unità non seppero decidere fra le due sole coerenti soluzioni possibili, e, col proposito di non escludere nettamente per il futuro né l'una né l'altra, consolidarono il compromesso provvisorio e finirono per combinare, stabilmente, i difetti di entrambi i sistemi».

 

VII

Ma se le cose andarono così come sostiene il Miglio, è ragionevole trovarne l’unica ragione nella meschinità di coloro che comunque fecero ciò che i federalisti ottocenteschi non riuscirono a fare? Se non si fosse scelta la via del compromesso che cosa sarebbe accaduto? Avremmo continuato ad essere, noi italiani, quello che eravamo prima del 1861 e che siamo tornati ad essere nel dopo il 1943: delle mere pedine del gioco di forze estranee, per non dire straniere. E non si tratta di considerazioni patriottarde. Perché, con buona pace del prof. Morra, il fascismo non identificò affatto «lo Stato con la Nazione» (questo lo fecero semmai i nazionalsocialisti, ma non mi sentirei di affermarlo con certezza). Il fascismo pose al contrario lo Stato al di sopra della Nazione, e l'Impero dell'Italia fascista avrebbe dovuto essere, come l'Impero Romano, un Impero sovranazionale. E non erano parole, visto che la cittadinanza italiana fu concessa senza distinzione anche ai "non-ariani". Cosa che non fecero se non in extremis le altre potenze colonialiste. In questo senso -e solo in questo- lo Stato Etico può essere inteso quale Stato educatore. Ma sembra che per i liberali come i prof. Miglio e Morra ogni modo di intendere l'educazione che sia diverso dal loro, non possa non comportare una prevaricazione. Poco importa loro se il peggiore colonialismo fu esercitato proprio dalle democrazie occidentali, e che i loro maestri illuministi non furono soltanto razzisti ma anche antisemiti, che il «maestro di umanità e tolleranza», il mai troppo lodato Voltaire, si creò una fortuna grazie alla tratta degli schiavi.
Levando certe accuse nei confronti di coloro che fecero l'Unità d'Italia e che peraltro erano essi stessi liberali, non solo i neo-liberali federalisti mostrano di essere privi di qualsiasi senso della Storia, ma peccano di ingenerosità e di slealtà nei confronti dei loro padri. Di questo li si potrebbe accusare e noi personalmente usiamo una mano alquanto pesante. Ma di meschinità, questo no. 
Forse che noi stessi non siamo scesi mai a compromessi o che non sappiamo distinguere fra compromessi e compromessi?
Vero è che il compromesso fra centralismo e federalismo che caratterizzò la storia dell'Italia unita non nacque, come afferma il Miglio, dalla fascinazione del mito del giusto mezzo, ma da una precisa necessità storica: dal fatto che l'Italia pervenne troppo tardi all'unità nazionale, vi pervenne, precisamente, nell'età dell'imperialismo avanzato. Nell'epoca dei grandi conflitti generati dall'insaziabile voracità del nazionalismo borghese e capitalista, era indispensabile la scelta accentratrice e se vogliamo persino autoritaria, se non si voleva non solo perdere ciò che tanto faticosamente e quasi miracolosamente si era conquistato, ma cadere in una condizione anche peggiore di quella che precedette l'unificazione. Il grande merito che ebbero gli artefici dell'Unità, a qualunque parte politica appartenessero, non fu solo di aver compreso a fondo la necessità storica che noi col senno del poi non abbiamo difficoltà alcuna ad individuare nella sua obiettività, ma di aver saputo trovare il coraggio di superare tutte le preclusioni ideologiche e di aver saputo escogitare soluzioni politiche realisticamente acconce, che anche se non ottimali hanno comunque funzionato.
È giunto il momento di dire a chiare lettere che lo Stato accentratore pre-fascista, fascista e post-fascista ha concesso spazio alle autonomie locali per quanto era possibile in funzione dei tempi, da Crispi a Giolitti allo stesso Mussolini e ai governi dell'Italia repubblicana. Se il massimo dell'accentramento statalistico si ebbe senza dubbio sotto il fascismo, ciò fu dovuto al fatto che proprio sotto il fascismo l'Italia dovette sopportare il peso delle contraddizioni che caratterizzarono la fine dell'età dell'imperialismo e di un certo tipo di capitalismo ancora ottocentesco: alludiamo alla grande crisi economica degli Anni Trenta e a quella che il Nolte ha definito la «guerra civile europea», segnata da due grandi eventi epocali, la Rivoluzione d'Ottobre e la Seconda Guerra Mondiale. Si potrebbe anche concedere che il regime fascista affrontò la "questione meridionale" non discostandosi nei fatti da una certa "politica di compromesso" che il Salvemini aveva rinfacciato a Giolitti e ai primi governi repubblicani. Ma se si fosse optato per i metodi coerenti e duri auspicati da Miglio, la conseguenza sarebbe stata un'altra guerra civile come quella che insanguinò le contrade meridionali all'indomani della "conquista piemontese". E si badi che non solo l'azione della mafia accelerò la caduta del fascismo determinandone la prematura sconfitta militare, ma che agli albori della Repubblica assistiamo ai fenomeni del separatismo siciliano del Finocchiaro Aprile e alla gesta dell'EVIS e del bandito Giuliano (per quanto riguarda la storia calabrese si potrebbe segnalare il precedente episodio della cosiddetta Repubblica di Caulonia nel reggino, e i più recenti fatti della Rivolta di Reggio). Se il Miglio tenesse presenti questi aspetti impliciti nella questione federalista, dovrebbe rivedere nella sostanza le sue posizioni. Diversamente bisognerebbe convenire che ha pienamente ragione il nostro Pallavidini nel formulare nei suoi confronti giudizi che a prima vista potrebbero sembrare estremistici.
Circa la "questione meridionale", che è paradigmatica di tutte le altre questioni locali determinate dalle circostanze in cui si verificò l'unificazione della Penisola, è tempo ormai di riconoscere che essa ha la causa unica e più profonda in condizioni più esterne che non interne alla storia d'Italia. Queste condizioni possono essere schematicamente indicate nei fatti seguenti.
1) Lo spostamento del centro dell'economia europea dal Mediterraneo all'Atlantico, spostamento che si verificò all'inizio dell'età moderna con la chiusura dell'antica Via della Seta a seguito dell'occupazione di Costantinopoli da parte dei Turchi Ottomani, e che fu definitivamente sancito dalla Rivoluzione industriale verificatasi nella seconda metà del Settecento in Inghilterra e da qui diffusasi poi sul Continente e sulle sponde atlantiche dell’America Settentrionale.
2) La crisi determinatasi a partire dalla seconda metà del Settecento nell'Impero Ottomano (Questione d’Oriente) che provocò la sempre maggiore ingerenza di Francia e Inghilterra in un'area di mercato in cui avevano prima avuto una posizione di preminenza le Repubbliche di Venezia e il Regno di Napoli. Quest'ultimo ebbe sempre fra le sue maggiori cure la politica medio-orientale fin dall'epoca degli Svevi e degli Angioini, mentre i primi a progettare il taglio dell'istmo di Suez furono i Veneziani nel XVI secolo.
3) Il ritardo dell'industrializzazione della Penisola a causa della debolezza politica degli Stati italiani in ragione della loro divisione e della forza preponderante delle grandi potenze europee. Questa debolezza, onde non cadere in negli equivoci di certe teorie correnti e strumentali, non può né deve essere intesa in termini assoluti ma relativi. Ciò significa che gli Stati italiani potevano anche essere assai progrediti e anche prosperi, come il Granducato di Toscana e lo stesso Regno di Napoli, senza con questo avere corrispondenti capacità di competere sui mercati in assenza di un adeguato apparato politico-militare.
Partendo da queste condizioni oggettive, il quadro della "questione meridionale" appare sensibilmente modificato. Una volta conseguito l'obiettivo dell'Unità -con un'avvedutezza politica sicuramente più rimarchevole di quella posta in atto dal Bismarck in Germania, in quanto la potenza prussiana era di gran lunga superiore a quella del Piemonte di Cavour- si rese necessario sacrificare il Sud (le acciaierie meridionali furono chiuse per potenziare quelle di Terni), almeno fino a quando il nuovo Regno non fosse stato in grado di avvantaggiarsi della crisi dell'Impero Ottomano, creandosi uno spazio di penetrazione economica in Medio Oriente che restituisse al Sud il suo tradizionale sbocco commerciale. La conquista della Libia da parte di Giolitti aveva questo preciso obiettivo, e sulla medesima linea, con i debiti aggiustamenti strategici, si orientò Mussolini, riprendendo con successo, anche se tardivamente, il progetto di occupazione dell'Etiopia che era stato di Crispi. Ciò avrebbe permesso all'Italia di mirare in un futuro più o meno prossimo al possesso del Sudan e dell'Egitto, il che avrebbe comportato il controllo del Mar Rosso, della via più breve utilizzabile da Francesi e Inglesi per raggiungere i loro possedimenti in Estremo Oriente. Era precisamente questo l'obiettivo che si prefiggeva all'inizio della Seconda guerra mondiale il Duca d'Aosta muovendosi dall'AOI in direzione della Somalia britannica e del Sudan meridionale. Se tale obiettivo fallì, nel 1942 gli Italo-Tedeschi furono sul punto di conquistarne uno ben più importante, che, se non fosse andato in fumo con la sconfitta subita ad El Alamein, avrebbe con moltissime probabilità deciso le sorti del conflitto in favore dell'Asse.

 

VIII

Partendo dal quadro che si è schematicamente delineato, le cause interne della "questione meridionale" passano decisamente in subordine, né è più possibile enfatizzarle astrattamente e moralisticamente, strumentalizzandole per fini politici di parte. Come fecero su opposti fronti il Salvemini, il Gramsci e lo Sturzo, come faranno i loro epigoni e lo stesso Miglio. Se l'Italia fu sul punto di vincere la guerra, sulle sabbie infuocate del deserto marmarico, è perché nell'Armata d'Africa vi erano fanterie di prim'ordine, che si accontentavano di poco e spesso di niente, che erano impetuose e irresistibili negli assalti all'arma bianca, le uniche in grado di affrontare corpo a corpo le terribili truppe di colore dell'Impero britannico. Erano i contadini italiani, i primitivi contadini siciliani, sardi, calabresi per i quali fu sempre generoso di riconoscimenti il Feldmaresciallo Erwin Rommel. Appartenevano alla «razza dannata dei mafiosi e degli emigranti». In Africa dimostrarono di essere capaci anche di essere qualcosa d'altro. L'Italia fu sconfitta e tutte o quasi le potenzialità positive del popolo meridionale risultarono compromesse o distrutte. Ma il discorso, dopo quanto è emerso con la vicenda Tangentopoli, non riguarda soltanto il popolo meridionale. E poiché il nostro modo di considerare il tema proposto all'attenzione del lettore è tutt'altro che moralistico, è chiaro che non intendiamo affatto minimizzare le responsabilità che gravano sulle genti del Sud, senza discriminazione di ceto o di classe sociale, col chiamare in causa la corresponsabilità degli altri Italiani, segnatamente degli industriali e imprenditori del Nord. Lo sfacelo della Patria va considerato obiettivamente e da un punto di vista il più possibile impersonale. Esso così ci apparirà come l'effetto di una duplice causa.
Da un lato la crisi epocale che Spengler definì «tramonto dell'Occidente», ma che andrebbe piuttosto inquadrata in relazione all'Età Oscura (Kali Juga) secondo la visione di Guénon e di Evola.
Dall'altra la naturale e storica conseguenza della sconfitta dell'Asse, di un progetto di azione non esclusivamente e tecnicamente politica, la cui legittimità assoluta (incontestabile nei termini umani del diritto e della religione positivi) si fondava sulla Fede, dimostratasi poi illusoria ma non pertanto destituita del proprio valore metafisico e propriamente etico, che l'Età Oscura volgesse al termine e fosse dovere imprescindibile scendere in campo onde accelerarne la fine in vista dell'avvento di un nuovo Ciclo. Che l’Italia e la Germania fossero alleate in questo progetto, solo la cecità della scienza profana può presentare come alcunché di accidentale e di comprensibile alla luce delle presunte e contingenti leggi storiche, così come il richiamo alla continuità fra l’Impero romano e il Sacro romano Impero Germanico medioevale è visto alla stregua di "fumosa retorica" che occulterebbe molto bassi appetiti economici e anzi il mero "istinto di rapina" delle due grandi Nazioni.
E pertanto la questione odierna del federalismo, che poteva ancora avere un significato e un suo valore nell'Ottocento, appare oggi, nonostante la speciosa centralità, non solo teoricamente inconsistente, ma politicamente assai pericolosa per i fini che essa sottende e che sfuggono del tutto all'opinione pubblica, opportunamente celati da una cortina fumogena in cui argomenti pseudo-intellettuali sono accompagnati a considerazioni economicistiche e a sollecitazioni delle pulsioni razzistiche che giacciono sepolte nell'inconscio collettivo. Così non si comprende più addirittura l'ovvio: che cioè la famigerata partitocrazia, con l'istituzione delle Regioni, ha già realizzato il federalismo nell'unica maniera che fosse possibile storicamente in Italia, specie dopo la sconfitta. Ha anzi realizzato una sintesi tecnicamente quasi perfetta di federalismo e centralismo. Se in pratica le cose ad un certo punto non hanno funzionato, non è perché funzionassero davvero quando si riteneva che funzionassero. In realtà, hanno funzionato fino a quando i vincitori della guerra, che avevano il controllo del Centro e cioè dello Stato italiano, lo hanno voluto. I vincitori hanno però distrutto il legame vivente del cittadino con lo Stato, e dovevano farlo perché lo Stato in Italia doveva diventare sempre più debole. Non solo ci hanno democratizzato e omologato a sé culturalmente. Hanno fomentato la gestione mafiosa e clientelare delle pubbliche istituzioni, hanno con la loro benevola tolleranza legittimato l'illegittimità. Facendo indebitare lo Stato con la grande finanza internazionale, ci hanno concesso un tenore di vita che essi stessi non si concedevano. E ciò per distruggerci spiritualmente.
Dopo averci imposto il sistema elettorale maggioritario, ora ci vorrebbero imporre il federalismo, quello che fa comodo a loro, quello in cui lo Stato non è più che una semplice parola o una branca dell'amministrazione aziendale. Uno Stato che non potrà più essere nemmeno più essere pensato così come nell’Ottocento se lo immaginava l'anarchico Proudhon.
Circa la pretesa rifondazione dello Stato (sia pure con l'iniziale minuscola) che dovrebbe in Italia verificarsi con l'evento della Seconda Repubblica, nessuno può avere speranze in qualche modo fondate, sebbene, personalmente, siamo convinti sia bene premunirsi anche nei confronti di ciò che razionalmente si dovrebbe escludere. La soluzione più realistica di questa situazione di stallo della politica italiana la indica il nostro Programma laddove individua la necessità di una nostra attiva partecipazione alle lotte dei lavoratori, se vogliamo una ripresa del sindacalismo sorelliano. La relativa apertura nei confronti del federalismo va comunque meglio specificata, e speriamo di aver dato, col presente scritto, un contributo in questo senso. Per noi, in definitiva, il modello di federalismo possibile non può non essere che il "Kontinetalblock" di Haushofer opportunamente integrato dalle schmittiane teorizzazioni dell'antagonismo irriducibile fra potenze terrestri e potenze marittime (dal che sarebbe possibile la fondazione rigorosa di un "modello di sviluppo" e di un sistema economico alternativi rispetto agli attuali, in cui l'agricoltura tornasse ad essere l'elemento portante). Il riferimento, poi, alla grande Scuola Geopolitica russa contemporanea (al Morozov in specie) è per me essenziale per un chiarimento esaustivo del nostro rifiuto categorico del razzismo, di cui sovente e strumentalmente viene tacciato chi oggi si dichiari apertamente e ostinatamente fascista.
Per un altro verso la "questione meridionale", che noi abbiamo mostrato dipendere sostanzialmente dalla "Questione d'Oriente", solo nella prospettiva geopolitica può avere la sua vera e definitiva soluzione. Una soluzione che non può non essere pacifica considerato che il "deterrent" atomico russo dovrebbe escludere l'opposizione armata del mondialismo e degli Stati Uniti suo esecutore politico.

 

Francesco Moricca

 

 

articolo precedente

indice n° 18

articolo successivo