da "AURORA" n° 18 (Giugno 1994)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Riflessioni sul dopo Occhetto

Enrico Landolfi

Mentre scriviamo gli aruspici ancora non hanno sciolta la riserva relativa all'ascesa al soglio di Botteghe Oscure di questo o quel personaggio della Quercia su cui si viene discettando nella stampa o, soprattutto, nelle sezioni del Partito Democratico della Sinistra.
Per quello che concerne noi, ci siamo ben guardati dal mettere becco nella questione, pur avendo, legittimamente, qualche idea in proposito; e ciò perché reputiamo sommo obbligo di correttezza l'astensione da qualsivoglia comportamento atto a dare la sensazione, a torto o a ragione, di ingerenza in casa altrui su materia tanto delicata.
Tuttavia non possiamo essere indifferenti -et pour cause- a ciò che avviene nella Sinistra. Pertanto, limitiamo la neutralità alla gara dei singoli, riservandoci al contempo la più ampia libertà di intervento in ordine ai temi squisitamente politici o ideologici. Usandone, si capisce, con la dose di moderazione, di rispetto, di senso della misura non incompatibile con la franchezza indispensabile allorché sono in gioco valori decisivi.
Cominciamo dunque col dire che ove l'imminente inquilino del Bottegone ritenesse di dover ricalcare le orme del suo predecessore egli avrebbe fallito nel suo compito di restauratore delle fortune della Quercia prima ancora di iniziare l'improbo lavoro che lo attende. Così consentendo alla maggioranza governativa di destra quella tranquillità di vite e di opere che solo può derivare dalla felice coniugazione del verbo durare. In altri termini, l'occhettismo senza Occhetto verrebbe di certo in evidenza come fenomeno immancabilmente indirizzato a menare a rovina definitiva un partito fino a poche settimane or sono guida riconosciuta dello schieramento "progressista", nonché centro propulsore di un sistema satellitare dal quale, però, taluni satelliti cominciano a prendere le distanze (Rete e Verdi) al fine di evitarsi, con progressivo, inarrestabile sbriciolamento, il destino di Alleanza Democratica.
Non di rado ci viene chiesto cosa, in concreto, rimproveriamo ad Achille Occhetto. E noi, puntualmente rispondiamo che, in linea generale, egli ha la colpa di aver posto mano, sicuramente non da solo, ma in un ruolo fondamentale di intuitore, ispiratore e sollecitatore alla costruzione di un partito assolutamente improbabile, magari persuaso di così assurgere agli scenari della storia in qualità di pensatore e politico dalla eccezionale originalità sorretta da artistica fantasia. La formula da lui adottata è stata quella che potremmo definire dell'azionismo di massa, ossia la conciliazione, la compenetrazione fra la più tradizionale cultura dell'azionismo di fondo liberaldemocratico -quindi non la corrente di Lombardi, De Martino, Codignola, Vittorelli, Lussu, Mancini, Bucalossi, etc. tutta di inequivoca matrice socialista- e il movimento operaio, gli strati popolari, gli intellettuali ad essi alleati, rappresentati da un partito che cessavo di essere comunista per guadagnarsi orizzonti tanto più affascinanti quanto meno conosciuti.
Fummo fin troppo facili profeti allorché predicemmo che tale mix occhettiano sarebbe costato molto caro all'insieme della Sinistra. In esso, infatti, covava una contraddizione antagonistica destinata a rivelarsi fomite di quegli insuccessi, arretramenti, delusioni di varia natura, oggi drammaticamente sotto i nostri occhi e la cui dilatazione è da considerare scontata ove non si provveda con urgenza alla eliminazione della antitesi.
La quale è ravvisabile nella pretesa, tutta illuministica, di coniugare per impulso di un gruppo dirigente partitico una cultura naturaliter minoritaria -tipica espressione di ideali e interessi della borghesia progressista, dell'alta finanza e del grande capitale internazionalmente collegati mediante la suggestione della ideologia laicista, di potenti gruppi di pressione del mondo intellettuale- con una forza politica di indole classista, proletaria, di massa, di lotta, come il vecchio PCI. Per di più in modo estemporaneo, traumatico, senza alcuna preparazione psicologica e dottrinaria, sotto la spinta di una iniziativa dai caratteri leaderistici. Da notare che conditio sine qua non per il varo dell'operazione era non la rigenerazione e il rinnovamento del partito socialista, bensì la sua liquidazione. I gravi errori e le magagne del craxismo, il suo degenerare nel socialmoderatismo, l'individuazione di tutto ciò che è a sinistra come nemico principale e anzi unico, il patto ferrigno con le componenti più conservatrici della Democrazia Cristiana per una "governabilità" grigia e insapore, favorirono il disegno antisocialista che nelle urne elettorali di marzo e di giugno si è però convertito in un effetto boomerang terribile che ha messo K.O. il promotore della sconsiderata strategia, così azzerando i provvisori e ingannevoli trionfi delle amministrative decembrine.
Inebriato da una galoppante supponenza Occhetto non capì che la distruzione del PSI poteva avere un senso solo a patto che il PCI si acconciasse ad assumere la rappresentanza di quel socialismo di cui è inimmaginabile l'assenza in una ben concepita ed efficiente democrazia. E invece il già leader della Quercia dopo aver scartato la soluzione socialista -e, contradditoriamente, chiesto ed ottenuto per sé la vicepresidenza della Internazionale prima coperta da Craxi- ha ridotto il PSI al basso rango di un minuscolo possedimento coloniale di Botteghe Oscure. Ma a questo punto, gli elettori hanno presentato un salatissimo conto.
Quali e quanti elettori? Anzitutto quelli del garofano -tanti!- che irritati, amareggiati, delusi, per i comportamenti di un gruppetto di mediocri dirigenti i quali, in cambio dl personali fortune parlamentari, hanno accettato di integrare gli scarni vestigi di quello che fu il PSI in un banale rapporto frontista con il PDS, lungi dal confortare le attese di Occhetto e del suo staff di un pronto trasferimento del parco-voti socialista alla Quercia, si sono subito incaricati di frustrarle dirottando il patrimonio elettorale del più antico partito della Sinistra addirittura verso Forza Italia, così contribuendo in straordinaria misura, al vertiginoso incremento dei lauri del Cavaliere. Insomma, muoia Sansone con tutti i filistei!
Ma il segretario finalmente collocatosi a riposo non si è limitato a lavorare per il solo re di Prussia. Infaticabile come sempre, ha voluto bissare con un altro regnante. Con Gianfranco Fini, ovviamente. Così da buon neo-vetero azionista, ha dato fiato alle trombe di un antifascismo targato 1945 conseguendo due risultati che lo hanno messo al tappeto, una volta per tutte.
Primo risultato: la dote portata da Alleanza Nazionale al Cavaliere per le tanto attese e bramate nozze politiche è salita alla impensabile quota di cinque milioni e mezzo di voti. 
Secondo risultato: la coppia felice ha preso dimora a Palazzo Chigi, cioè, come ognuno sa, nella massima "stanza dei bottoni" del nostro beneamato Paese. E ciò mentre la famosa "sinistra di governo" -che è poi, se abbiamo ben capito, una furbesca e ben celata "cultura della rinuncia"- rinfoderava tutte le sue velleità riformatrici per malinconicamente acconciarsi ad una lunga, forse lunghissima, guerra di trincea dopo aver ridicolmente discettato se era meglio candidare alla Presidenza del Consiglio il banchiere Carlo Azeglio Ciampi, azionista effettivo di area laica, o l'asceta Mariotto Segni, azionista onorario di area cattolica.
Al di la della celia, che mai è concretamente successo di tanto erroneo da provocare sì macroscopico sconquasso di destra? Perché e in che modo l'antifascismo edizione '45 ha prodotto l'esatto opposto di ciò che occhettiani e assimilati si aspettavano? 
Ecco, si sono verificate le seguenti cose:

I) Occhetto non ha compreso il significato in qualche modo «storico» della segreteria Fini, ossia della prima leadership della Fiamma conquistata da un giovane dirigente nato parecchi anni dopo il Ventennio mussoliniano e la RSI. Con Gianfranco Fini, insomma, il neo-fascismo entra nella fase del definitivo esaurimento per varcare la soglia che ammette nell'era del post-fascismo, ossia in un periodo destinato ad essere caratterizzato, dopo mezzo secolo di collegamento non soltanto spirituale con la tradizione littoria, dalla compenetrazione, costellata di contraddizioni ma effettiva, del MSI con i principi, gli istituti, i metodi della democrazia. Avvenimento, del resto, progressivamente preannunciato -sia pure con tutte le cautele del caso e con linguaggi paludati e allusivi- dalle esternazioni e dagli atteggiamenti dei più autorevoli esponenti del partito. Domanda: questo programma era il programma di Almirante, massimo e determinate sponsorizzatore dell'ascesa dell'almirantiano Fini al summit della Fiamma Tricolore? Risposta: se si resta nella superficie del quesito si è tentati di pronunciarsi negativamente, se invece si va oltre le apparenze si è indotti ad esprimersi positivamente. Peraltro, esiste un precedente molto importante e anche relativamente vicino ai nostri anni nel campo della destra autoritaria internazionale: quello del Caudillo spagnolo Francisco Franco che, sentendosi approssimarsi la dipartita, promuove a suo delfino il giovane Don Juan di Borbone al fine di re-immettere la Spagna nel circuito mondiale mediante una restaurazione democratica fondata sull'istituto monarchico. Dunque: Almirante come Franco e Gianfranco come Juan.

II) Rispetto a tutto ciò la destra liberista (ossia Berlusconi) ha dimostrato di possedere una strategia, diversamente dalla sinistra (cioè Occhetto). Una strategia in due tempi: il primo, dedicato al coinvolgimento dell'elettorato socialista nel piano di rinnovamento del Paese in chiave capitalista-decisionista, mediante la sua aggregazione a Forza Italia; il secondo, diretto alla costruzione di un alleato di destra "nazionale" utilizzabile a livello di partecipazione governativa attraverso il pieno ed effettivo recupero costituzionale del cosiddetto "polo escluso", possibile ormai dopo il passaggio -simboleggiato dalla formazione di Alleanza Nazionale- dalla fase neo-fascista a quella post-fascista.

III) Achille Occhetto è rimasto a guardare, senza rendersi conto -ossessionato da un cieco, viscerale furore aggressivamente moralistico («non si parla coi fascisti!») tipico dei borghesi e piccolo-borghesi dell'azionismo- che la fine del neo-fascismo e l'emergere del post-fascismo creavano una situazione nuovissima da affrontare in una chiave, appunto, post-antifascista. Allo scopo, soprattutto, di bloccare, anche a livello elettorale, l'operazione nazionalconservatrice dell'ormai affiatatissimo e saldissimo tandem Berlusconi-Fini con analoga operazione nazionalprogressista o, meglio ancora, nazionalpopolare.

IV) Parliamo di cose possibili o stiamo dando i numeri? Sinceramente penso di non fantasticare. Anzitutto il vasto mondo del post-fascismo -vasto perché coinvolgente ben cinque milioni e mezzo di elettori, collocati dentro e fuori le molte aree di Alleanza Nazionale- lungi dall'essere tutto di destra presenta ampie zone di sinistra "nazionale e sociale", persino "rivoluzionaria", estremamente significative sotto il profilo non soltanto culturale e intellettuale ma pure sindacale, organizzativo e associativo. Indugiare nella descrizione e interpretazione di esse non possiamo: il discorso troppo si allargherebbe e non potrebbe essere contenuto nel giro breve di un rapido saggio. Ovviamente ritorneremo sull'argomento. Ora ciò che è possibile dire va detto con taglio deplorativo per il fatto che tali ambienti nazionalpopolari, o anche nazional socializzatori, sono stati lasciati soli da una sinistra ufficiale dissennata, chiacchierona, nostalgica; usa a occhettianamente sparare nel mucchio, a nutrirsi di frasi di ferro e di nulla d'oro. Soli, alla mercé di una destra interna ed esterna che avendo ormai tutto -alleati strapotenti, mezzi illimitati, grandi posizioni di potere e di governo, prospettive brillanti e durevoli- ha facilmente avuto ragione di chi non poteva contare su niente e su nessuno. E, anzi, spiacente a Dio e a li inimici sui, si becca, per dirla con Pietro Nenni, «le sassate della piazza e le bastonate della polizia». Ragion per cui, citiamo sempre Nenni, «in mezzo non ci si sta». Dunque, e giustamente, in mezzo non ci vogliono stare, E aspettano che la Sinistra, PDS in testa, decida di guarire dall'azionismo e da un antifascismo inteso e vissuto in chiave di terrorismo ideologico e psicologico, tipo quello praticato, per esempio, da quotidiani come il "Manifesto" o da emittenti private come "Radio Città Aperta", di Roma.

V) Ma questa sinistra, per guarire, cosa deve fare? Deve, anzitutto, superare vari aspetti del famoso discontinuismo di occhettiana memoria. Con esso, fino ed oggi, la dirigenza quercina ha soprattutto combinato guai, sovente gettando via il bambino insieme all'acqua sporca. Se essa specialmente con il cambio della guardia alla segreteria del PDS riesce a liberarsi dai complessi «nuovisti» -di un «nuovismo», peraltro, innervato su quanto di più vecchio passa la cultura politica; azionismo e spirito di guerra civile-, può riscoprire preziosi filoni, valide esperienze, non solo di lotta ma di dialogo salutare e fecondo. A cominciare, diremmo, da quell'«appello ai fratelli in camicia nera» degli anni Trenta -pubblicato all'epoca, sulla rivista ufficiale del PCI "Stato Operaio"- che poi tanti sviluppi ha avuto non soltanto nell'ambito del comunismo riformato togliattiano e berlingueriano, ma anche negli altri comparti della Sinistra.

Della «questione fascista» ebbero ad occuparsi, infatti, per costruttivamente approfondirla ed utilizzarla a vantaggio della democrazia non meno che della Nazione, socialisti democratici di vario radicamento e affiliazione quali Ignazio Silone, Ugo Guido Mondolfo, Carlo Andreoni, Aldo Garosci e perfino democratici non socialisti come Rodolfo Pacciardi e Giorgio Braccialarghe. Ma anche su ciò non mancheremo di ritornare.
Ciò che oggi chiediamo a coloro che hanno la responsabilità della Sinistra, e in primo luogo, della nuova leadership del PDS, è riconoscere l'esistenza di una «questione post-fascista», per affrontare la quale -senza ubbie di assorbimenti, omologazioni, rinnegamenti, pentimenti, ma pienamente rispettando le identità, le radici, le culture, i sentimenti, le autonomie anche organizzative- è necessario un approccio e un linguaggio, uno stato d'animo ben diversi da quelli sciaguratamente posti in essere dai vari Achille Occhetto e Luigi Berlinguer, a tacer d'altri. Nella consapevolezza che in un'epoca marcata dalla presenza non del fascismo ma del post-fascismo ciò che del vecchio antifascismo militante resta valido sono le sue «verità interne» -l'espressione la prendiamo dalla letteratura politica prodotta da Franco Rodano, un pensatore comunista di cui ci siamo occupati con una ricerca- cioè: la libertà, la democrazia, i diritti umani, la giustizia sociale.

 

Enrico Landolfi

 

 

articolo precedente indice n° 18 articolo successivo