da "AURORA" n° 23 (Febbraio 1995)

AMBIENTE E SOCIETÀ

Itanglese; lingua coloniale

Giorgio Gramolini

Se il patrimonio nazionale di un popolo è rappresentato, -oltre che dal territorio che occupa- dalle sue caratteristiche etniche e dalle sue tradizioni culturali, anche dalla lingua (o dall'insieme linguistico-dialettale) col quale esso si esprime, non vi è dubbio che, in quanto popolo italiano, uno dei fronti sul quale siamo maggiormente aggrediti è proprio quello linguistico. Dato che la lingua è un tratto particolarmente caratterizzante della vita, anche nel senso più ovvio e quotidiano, di una Nazione -soprattutto in quanto elemento differenziatore nei riguardi di altre esperienze e identità nazionali-, colpire le tradizioni linguistiche di un popolo significa indiscutibilmente attentare alla sua integrità e specificità, spingere anche da questo punto di vista la sua Storia verso l'appiattimento e l'omologazione con altre storie e tradizioni anch'esse a loro volta snaturate ed omologate.
Per quanto riguarda il caso italiano, è banale far notare che il suddetto fenomeno si verifica con la penetrazione sempre più prepotente di neologismi d'origine solitamente inglese (anche se spesso provenienti geograficamente dall'area nordamericana) assunti in modo totalmente acritico tanto dagli addetti ai settori direttamente coinvolti (tecnologia, scienza, spettacolo, commercio, ...), quanto dai responsabili dei mezzi di comunicazione di massa e, di conseguenza, dall'insieme dei parlanti nella sua generalità. Ciò che ci preme innanzitutto sottolineare è che questo fenomeno di «inquinamento linguistico» avanza parallelamente alla penetrazione nella nostra vita nazionale di altre abitudini «di importazione» -alimentari, musicali, commerciali- e che pertanto non va sottovalutato proprio da chi solitamente si oppone a tali forme di colonizzazione economico-culturale. Troppo spesso chi si batte, o dice di battersi, contro la civiltà dei Mc Donald's e della Coca Cola o contro l'invadenza del cinema americano e delle televisioni commerciali dimentica che l'americanizzazione delle lingue (poiché il fenomeno è esteso a livello continentale se non addirittura planetario) stravolge le nostre tradizioni e la nostra specificità culturale quanto il fenomeno dell'immigrazione -anche esso favorito da chi tira le fila dei grandi interessi mondialisti- e minaccia la nostra identità etnica.
Ciò che rende difficile tutelare la nostra lingua di fronte all'invadenza dei termini stranieri è il fatto che questa difesa viene spesso identificata e denigrata come battaglia di retroguardia, buona per sognatori perditempo o addirittura vecchi reazionari. In verità, a volte è molto più rivoluzionario «conservare» aspetti sani e qualificanti della realtà sociale che non puntare sul «nuovo» ad ogni costo e da qualunque parte provenga.
Qui infatti, non si tratta di riesumare gli atteggiamenti passatisti dei puristi di due secoli fa che rifiutavano, in quanto «francesismi», termini come "controllare" e "realizzare" (rispettivamente da "contrôler" e "ròaliser") o, in quanto «grecismi», "termometro" e "telescopio" (da sostituire con i calchi neo-latini "segnacaldo" e "guardalontano"); queste forme di fanatismo vanno studiate come reperti archeologici e nulla più.
Piuttosto andrebbe ricordata la battaglia condotta in questo campo dal Regime fascista che, sia pure tra varie assurdità ed esagerazioni (come i tentativi di sostituire "cognac" con il dannunziano "arzente" o "garçonnière" con "giovanottiera"), risultò in alcuni casi vincente riuscendo ad esempio a far accettare una volta per tutte gli italianissimi "autista" (in luogo dell'allora diffuso francesismo "chauffeur") e "calcio" (in sostituzione di "football", che pur sembrava essere giustificato dall'origine inglese del gioco stesso). Va ovviamente considerato che all'epoca l'Italia appariva più "nazione" di quanto non sembri ai giorni nostri e che il Fascismo potè muoversi in questo campo con notevole autorevolezza, sia per il prestigio che i governanti possedevano nei confronti del popolo italiano sia per la non incidenza di forme isteriche di opposizione asservite ad interessi extra-nazionali.
La totale assenza di una politica linguistica ha invece caratterizzato i governi dell'ultimo cinquantennio, non solo per quanto riguarda il nostro patrimonio lessicale, messo in crisi dagli assalti stranieri, ma anche sotto il profilo della difesa dell'area di italianità al di fuori del territorio nazionale: in molte nostre ex-colonie (Libia, Etiopia, Somalia) o in territori ad alta percentuale di immigrati italiani (Argentina), con opportuni interventi di promozione e di protezione, la nostra lingua avrebbe potuto occupare una posizione di seconda lingua ufficiale garantendo -com'e avvenuto per la Francia e la Gran Bretagna- la permanenza di un'«area» linguistica e culturale anche dopo la liquidazione dell'Impero. Invece, tra le lingue europee di grande tradizione culturale (ricordiamo che il tedesco è ampiamente parlato fuori dai confini della Repubblica Federale) l'italiano è la sola ad essere utilizzata ufficialmente -se si escludono poche migliaia di Ticinesi- esclusivamente nel territorio della madre patria.
Tornando alla questione trattata, l'esempio a noi storicamente più vicino di difesa del patrimonio linguistico nazionale dall'invasione degli «inglesismi» è quello della Francia che -assai più dell'Italia orgogliosa e rispettosa delle proprie tradizioni- già da alcuni decenni ha dato dignità istituzionale alla lotta contro il famigerato "franglais" (neologismo spregiativo indicante la mistura di inglese e francese che da noi potrebbe corrispondere ad "itanglese"); sono stati pertanto stilati elenchi ufficiali di termini francesi da utilizzare obbligatoriamente negli scritti e negli atti di carattere pubblico e legale in luogo degli inglesismi corrispondenti e, grazie anche ad una coesione popolare e nazionale da noi sconosciuta e ad un linguaggio giornalistico e televisivo meno sbracato e improvvisato, i risultati non si sono fatti attendere neppure sul piano dell'uso quotidiano della lingua.
Pensiamo, ad esempio, a due termini inglesi ad alta frequenza d'uso come "computer" e "AIDS": in Italia essi sono stati accolti e utilizzati senza alcuna modificazione che li armonizzasse alla nostra sensibilità linguistica e fonetica; in Francia il primo è stato sostituito con il francese "ordinarateur" (nel senso di "ordinatore" e quindi di "elaboratore" di dati), mentre il secondo (che è sostanzialmente una sigla) è stato ricomposto nell'ordine neo-latino delle lettere costitutive (come l'italiano "Sindrome da Immuno Deficienza Acquisita") è trasformato nel molto più francese "SIDA".
Purtroppo la scorsa estate una proposta di legge in materia, ulteriormente restrittiva, è stata bocciata dalla Corte Costituzionale francese su ricorso, dell'opposizione socialista, dimostrando, ancora una volta, come spesso proprio le forze politiche tradizionalmente -ma ormai solo a parole- popolari siano le migliori alleate del disegno di omologazione internazionale di cui si diceva sopra.
Pretendere che anche nel nostro Paese si ponga un argine al dilagare dei neologismi d'oltre Manica e d'oltre Oceano non sarebbe una richiesta tanto peregrina; sarebbe anche l'occasione per riordinare e razionalizzare una materia che ci riguarda tutti da vicino in ogni istante della nostra giornata. Si tratterebbe, tanto per iniziare, di evitare quei termini e quelle espressioni straniere che sostituiscono un assurdo "week end" o "supermarket" quando esistono già "fine settimana" e "supermercato". Perché consentire l'avanzata di "card" in luogo del nostro efficacissimo "tessera", sia col valore di documento di riconoscimento che di cartellino magnetico? Si dovrebbero poi trovare dei sostituti per i termini stranieri che designano nuove realtà, per lo più tecnologiche, come il già citato "computer" (che si potrebbe tradurre, etimologicamente, con "calcolatore", riservando il femminile "calcolatrice" alla macchinetta per fare i conti) e come, per rimanere in campo informistico, "hard disk" ("disco rigido" o "disco duro").
Non sta ovviamente a noi, in questo momento, suggerire i termini sostitutivi che ci salvino dalla dittatura dell'«itanglese»; il compito, se vivessimo in una nazione civile, capace di rispettare le proprie tradizioni e peculiarità culturali, spetterebbe ad una commissione governativa composta da esperti che -ne siamo certi- in Italia non mancano.
Ciò che invece manca è la volontà politica dei vertici e, fatto ancora più grave, la sensibilità di quella parte della società (soprattutto nel campo delle comunicazioni di massa) che «fa opinione». Le proposte francesi di cui innanzi si parlava venivano letteralmente sbeffeggiate da certo Paolo Romani sul numero del 21 aprile '94 de "La Voce" di Indro Montanelli, mentre intervenendo sullo stesso argomento su "Corsera" del 31 luglio, Andrè Glucksmann difendeva l'invasione degli inglesismi con un improponibile paragone storico: «Anche gli antichi Romani parlavano greco». Qui veniva rovesciato in modo vergognoso il rapporto tra vincitori e vinti che nell'antichità fu a vantaggio dei «rozzi» conquistatori romani sotto il profilo militare, ma dei «colti» Greci sotto quello culturale, mentre ai giorni nostri è tutto a favore dei colonizzatori americani, che oltre ad averci vinti con le armi c'impongono anche la loro lingua e la loro «cultura»; insomma, il politologo sopra citato non aveva capito -o fingeva di non capire- che il paragone non è assolutamente adattabile alla nostra realtà.
Se questi sono gli intellettuali che debbono chiarire le idee agli Italiani ...

Giorgio Gramolini

 

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