da "AURORA" n° 25 (Aprile 1995)

L'OPINIONE

 

Effetto caleidoscopio

Francesco Moricca

 


 

«Ducam eum in solitudinem
et loquar ad cor eius

OSEA, 2, 4

 


 

Ho meditato a lungo sui due interventi «chiarificatori» di Benvenuti e Costa pubblicati sul numero di marzo del nostro mensile. Perché tanto? Ognuno di essi appariva ogni volta, nel significato, diverso. E si badi, ora trascorso qualche giorno dalla rilettura dell'uno o dell'altro. Troppo poco per un'appropriata «decantazione». Ma il tempo è tiranno, specie quanto ci si sente combattuti dal dubbio e si deve addivenire ad una decisione.
Era mio intendimento cercare di capire in cosa essi veramente divergessero, a prescindere -dovrebbe essere chiaro- dalla netta contrapposizione di linea politica che vi era espressa in maniera inequivocabile. Ma chi come me si ponga metodicamente da un punto di vista esterno alla politica e pertanto «impolitico», è essenziale una prospettiva di questo genere.
Si obietterà: in sede politica le vedute metapolitiche sono soggettive, irrilevanti.
Contro-obiezione; è vero, verissimo. Ma in un quadro politico oggettivamente definito pur nella sua complessità.
Eccoci così al nocciolo della questione. Un quadro politico oggettivamente definito non esiste più. La brillante formula di «andare oltre la destra e la sinistra», che per qualcuno sarebbe il progetto irrealizzato di quanti si richiamano ad una certa interpretazione del «fascismo movimento», non solo è stata realizzata già compiutamente, ma è il prodotto peggiore del «fascismo regime», ripreso, perfezionato fino all'estrema sofisticazione e secondo una linea «continuista», dalla cosiddetta «partitocrazia»; che altro non fu -come aveva intuito Pasolini- se non una dittatura collegiale, alla fine diventata «consociativa» nel senso in cui può esserlo una società d'affari, né più né meno.
Così si è pervenuti alla disoggettivazione del quadro politico di cui dicevo prima. Che è quanto dire, con altra formula, alla «morte della politica». O più esattamente alla sua «uccisione» attraverso la sistematica distruzione dei punti di riferimento politici essenziali: le coordinate di destra e di sinistra. Il che ha comportato, sin dai tempi del «miracolo economico» degli anni Sessanta, l'omologazione culturale e apparentemente anche economica. Omologazione che è la «conquista» più nefasta del secolo, mentre la più importante dovrebbe essere non già l'energia nucleare ma lo Stato sociale; epperò secondo il modello del "New Deal" piuttosto che secondo il modello europeo; che -ce lo si consenta- era senz'altro superiore, se non altro perché lo precedette cronologicamente e ne fu l'ispiratore. Al riguardo, chissà cosa avrebbe da aggiungere il Professor Prodi, estimatore non sospetto del «capitalismo renano»?
È da dire, a questo punto, che le mie considerazioni critiche sulla concezione del fascismo come «terza via» e su quella collegata del comunismo «corporativismo impaziente» (si vedano gli inserti su Evola e sull'economia socializzata dei numeri di gennaio e marzo di "Aurora") potrebbero essere un utile strumento concettuale, sia per comprendere l'«effetto caleidoscopio» che ho constatato analizzando gli interventi di Benvenuti e Costa, sia quello che mi sembra un errore di prospettiva -del tutto inintenzionale- di Gianni Benvenuti.
La stessa precisazione, però, non mi sentirei di farla -in forza del mio ragionamento- nei confronti di Rauti. Mi sembra che su Rauti, Costa abbia ragione. Le sue perplessità sono giustificate, come anche quello che Benvenuti chiama «possibilismo», e che io invece chiamerei «realismo», in quanto Costa mi pare tener conto, in tutti i suoi interventi, non solo di determinate forze in campo, ma di tutte le forze in campo, nazionali ed internazionali.
Posto che si accetti la mia impostazione, si è allora forzati ad ammettere che Costa e Errico hanno ragione quando affermano la necessità impellente di ridefinire secondo la concezione del nostro antagonismo -magari dico io azzardando- le coordinate di destra e di sinistra entro il panorama politico attuale.
Sottolineo la metafora dell'«azzardo», perché il rimescolamento di destra e sinistra, nel confuso quadro politico del momento, è tale da rendere difficilissima la previsione di quelli che ne risulteranno essere gli esiti finali. La logica più elementare però ci dice che, quali che siano questi esiti, sarà comunque individuabile una destra e una sinistra: la sinistra essendo laddove esistano -e se esistono- forze oggettivamente antagoniste rispetto alla mera conservazione dei grandi privilegi economici; o anche interessate ad una pura e semplice ridistribuzione «equa» della ricchezza sociale: alla riduzione dell'ideale di Giustizia al principio «umano», materialistico, economicistico della «giustizia distributiva» secondo presunti «diritti naturali». Ma la quale è appunto l'idea di giustizia propria alla concezione del mondo democratico-borghese, tradotta in termini politici nel sistema bipartitico e nel principio dell'alternanza di tipo anglosassone.
A me sembra indiscutibile che questo sistema, per la sua stessa natura, tenda a cancellare oggettivamente ogni residua distinzione fra destra e sinistra e quindi ogni reale opportunità di democrazia in senso alto (ci si perdoni questa assai impropria definizione). Il sistema «partitocratico» italiano è senza dubbio migliore in assoluto rispetto al sistema anglosassone, nonostante i limiti intrinsechi ad ogni democrazia rappresentativa e a prescindere dai nefandi abusi con cui ha funzionato a partire dagli anni Ottanta.
È da chiedersi a questo punto se il sistema anglosassone riuscirà alla fine ad imporsi anche in Italia.
Si può ragionevolmente ipotizzare che vi è un cinquanta per cento di probabilità che si affermi come un esatto duplicato; un quarantacinque per cento di probabilità che si affermi in una versione di tipo italiano; infine un cinque per cento di probabilità che la sua versione italiana costituisca una novità antagonistica rispetto al modello, né più né meno di come lo fu il fascismo rispetto ai modelli stranieri del liberalismo e del comunismo.
Possiamo dire che le due ipotizzabili versioni italiane del sistema anglosassone (ad alto e a basso indice di probabilità) sono quelle che più interessano in sede di elaborazione di strategie politiche. Non soltanto per noi, ma per tutte le forze della sinistra attuale, post-marxista e non, con le quali abbiamo già stabilito un confronto che si spera proficuo nell'esclusivo interesse del Paese. È qui, infatti, che vi possono essere apprezzabili possibilità di ricomposizione di un quadro politico dove esistano spazi di azione effettivi. Cominciamo ad esaminare il caso in cui si afferma la versione ad alto indice di probabilità del sistema anglosassone.
In questa evenienza avremmo di fronte una diarchia come replica formalmente semplificata della vecchia partitocrazia, con tutti i suoi difetti presumibilmente aggravati, ma col vantaggio che errori e complicità del «partito all'opposizione» sarebbero evidentissimi per l'opinione pubblica, specie quando all'opposizione si trovasse la «Sinistra» e in una condizione di grande fermento sociale, che di certo prima o poi esploderà in concomitanza con l'aggravarsi della congiuntura economica. In tal caso sarebbe inevitabile instaurare una dittatura non necessariamente diversa da quella a suo tempo instaurata dal «fascismo regime», anzi sicuramente più dura e «illiberale», senza, cioè quella tolleranza che il fascismo concesse all'eresia fascio-comunista per salvaguardare la sua anima sociale e al limite cristiana, e per difendersi dall'invadenza del capitale e della sua concezione del mondo. Per altro, il contraltare della dittatura, che durante il Ventennio fu rappresentato dalla Monarchia e dal Vaticano, verrebbe ora rappresentato dalla sola Chiesa: epperò costretta, per ovvie opportunità politiche, a soddisfare contemporaneamente e contradditoriamente, le richieste di un liberalismo sempre più spinto, e di un vago e sentimentalistico anelito ad una solidarietà sociale ridotta alle «opere caritatevoli» intese nell'aspetto più materiale e farisaico del «far l'elemosina». Sicché anche l'ultima «diga» verrebbe a crollare rovinosamente.
Analizzando ora il caso a basso indice di probabilità, quello, cioè, in cui la versione italiana del modello anglosassone dovesse dar luogo a qualcosa di assolutamente originale: a qualcosa che dovrebbe -come si diceva- somigliare al fascismo in ciò che esso ebbe di effettivamente antagonistico sia rispetto al liberalismo che al comunismo. Non però idealisticamente parlando, quasi lo si volesse interpretare come la loro definitiva, ovvero, come alcunché che «va oltre» l'uno e l'altro, epperò conservando qualcosa dell'uno e dell'altro. Si, invece, come qualcosa che, rispetto alla tendenza risorgente dell'uno e dell'altro, funzioni sempre come «reagente». Questo presupponendo in una concezione della «dialettica» non idealistica: una concezione non «triadica» ma diadica. In ciò per me consiste l'essenza metastorica del fascismo. Che è di essere movimento e non partito, sia in politica interna che in politica internazionale. E dovrebbe essere chiaro che, in una simile visione, il fascismo esclude il totalitarismo, che viene considerato «errore» dovuto ad una particolare temperie storica caratterizzata dall'affermarsi dei «totalitarismi» in Europa, nel quadro di ciò che il Nolte ha chiamato «guerra civile europea» e che io invece preferirei chiamare guerra di religione, anzi l'ultima delle guerre di religione che ha conosciuto l'Europa, e con l'Europa, forzatamente, il mondo intero.
Nel limiti di questa concezione «movimentista» epperò non naturalisticamente «vitalistica», il fascismo può finalmente esprimere la funzione di garante di un ideale superiore di libertà, che riprenda alle radici quell'unità culturale e spirituale che l'Europa conobbe prima della Riforma protestante, e che fu perduta, dopo la Rivoluzione francese, con la nascita dei particolarismi «nazionalistici» dietro cui si nascondevano le «contraddizioni» del capitalismo; nient'altro che il mero conflitto degli «interessi di classe». E si badi, questa funzione di garante di un ideale superiore di libertà non a caso il fascismo la esprime compiutamente proprio nel momento in cui la libertà dell'uomo è più minacciata, perché la crisi di liberalismo e comunismo sembra coinvolgere irreversibilmente anche il cristianesimo. Alla determinazione combattiva con cui il cattolicesimo romano pronuncia ancora una volta il suo «non prevalebunt», il fascismo «movimentista» deve associarsi lealmente, la sua attuale funzione storica essendo quella di agire da «catalizzatore» di tutti gli «uomini di buona volontà» che si trovano nella sinistra laica, non solo alla sua base ma anche al suo vertice.
Così, a fronte di una situazione come quella del momento, che sembra evolvere o verso la completa americanizzazione, non solo del sistema politico italiano, o verso una riproposizione della «partitocrazia» in forma di diarchia, dovrebbe essere scontato che la Sinistra Nazionale, quale erede per vocazione della miglior concezione del «movimentismo» fascista, deve essere un saldo punto di riferimento per tutte le forze presenti in parlamento e fuori, le quali intendono la libertà in senso alto e per le quali la «collettività» o «comunità» non sia nozione astratta ma vita concreta e pulsante della nazione; per le quali sia almeno ben chiaro che l'«interesse particolare» si tutela solo tutelando quello generale, e che l'interesse generale è anche quello delle generazioni future, se non proprio questo in maniera eminente.
Ciò abbiano sempre fisso nella mente quanti consapevolmente o inconsapevolmente coltivano nel loro cuore certe «nostalgie», essendo implicito che ci si riferisce alle nobili nostalgie e solo ad esse (quelle per intenderci che costituiscono il lato sentimentale e romantico della identità spirituale e culturale di ognuno). Può forse far piacere a Benvenuti che vi è anche fra noi chi sente nostalgia di tempi ben anteriori a quelli relativi a ciò che di meglio espresse il Ventennio. Ma chi nutre simile nostalgia quasi come un sogno ad occhi aperti, sa pure che il modo migliore per onorare il sogno è realizzarlo; e, quanto alla nostalgia, intesa nel significato etimologico -ideale eterno- è di dire che il «vagheggiare il ritorno» obbliga a ritornare, come accadde ad Ulisse; ma per poi ripartire, perché esiste anche un'altra nostalgia, ben più nobile di quella romantica: la nostalgia della lontananza. 
I limiti umani sono quelli che sono. Ma almeno si sappia che esiste, oltre questi limiti, una realtà non meno reale di quella umana. Non si escluda a priori di poterla afferrare. Almeno si faccia un tentativo per avvicinarvisi.
Dunque dovremmo essere d'accordo che qui non si fa un discorso «ad personam». Il caso Benvenuti non credo sia unico e comunque esiste almeno un caso di «nostalgismo» più complicato del suo. Peraltro è indiscutibile che vi è una sostanziale differenza fra la «nostalgia» degli attuali quarantenni -che non hanno vissuto neanche la fase terminale del fascismo «realizzato»- e quella della generazione di Rauti; così come quest'ultima è differente dalla «nostalgia» di uno Junger, considerata anche la peculiarità dei ruoli propri ad ognuno dei due. L'effetto caleidoscopio rivela in tal modo una valenza psicologica e per così dire gnoseologica (determinata dall'approccio conoscitivo alla realtà) che è più sottile e insidiosa, agendo più o meno inconsapevolmente, di quanto non sia l'errore concettuale di matrice idealistica che vi è a monte e di cui si è detto a proposito della concezione del fascismo come «terza via».
L'effetto caleidoscopio è in definitiva il tributo che tutti, senza distinzione, persino le coscienze critiche più agguerrite, sono costretti a pagare allo «spirito dei tempi». Questo Rauti lo sa meglio di tutti noi. Deve dunque capire, sia pure solo nel chiuso della sua mente, che il suo passato pesa sui nostri interlocutori di sinistra come alcunché che genera quanto meno l'ostilità della diffidenza. Egli lo sa. Al di là delle sue prese di posizione politiche che sono comprensibili anche se non condivisibili, vede bene le ragioni della nostra distanza da lui e il significato non strettamente tattico del nostro «possibilismo». Potrebbe darsi perfino che egli approvi la nostra scelta in previsione dell'eventualità di una sua sconfitta alle elezioni di aprile. Eventualità che ha lasciato intendere di considerare realisticamente nel corso di una Tribuna Politica trasmessa sulla Terza rete della televisione di Stato. Senza contare che un'altra volta ha esternato la sua volontà di ritirarsi a vita privata e di riprendere gli studi, qualora il suo partito non conseguisse un piazzamento significativo in aprile.
Tutto ciò dovrebbe far riflettere Benvenuti sulle sue critiche riguardo alla nostra mancanza di «decisionismo». A me sembra che esistano vari modi di intendere il «decisionismo». Ma tutti devono però escludere l'«avventurismo» della «smania dell'azione», specie quando si sa che le nostre forze sono esigue (anche quelle dell'organizzazione di Rauti!) a fronte dei mezzi a disposizione degli avversari. L'uscita sul terreno della competizione elettorale può attendere, perché si deve evitare il discredito di un'iniziale sconfitta che ne trascenderebbe anche il significato immediatamente e volgarmente politico. Deve essere chiaro per tutti che a noi non interessa il potere per il potere. Che nel «bosco», di cui una volta ha parlato proprio Benvenuti, noi all'occorrenza possiamo trovarci benissimo.

 

Francesco Moricca

 

 

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