da "AURORA" n° 29 (Ottobre 1995)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Breve saggio sul rapporto fra due intransigenze:
quelle dell'antifascistissimo Gobetti e
del fascistissimo (allora) Suckert-Malaparte

(prima parte)

Enrico Landolfi

Tempo fa cogliemmo l'occasione offerta da una pubblica ed orale riflessione del segretario pidiessino D'Alema relativa alla vocazione del suo partito per un impegno forte in pro di una «rivoluzione liberale» per significargli il nostro interesse per tale divisato programma sempre che si fosse trattato di un ritorno alla suggestione gobettiana. E che il leader della Quercia ad essa intendesse fare riferimento in quel di Londra ancorché ebbe a trattarne dopo una non ben compresa e niente affatto gradita (da noi) ulteriore visita alla City -successiva a quella che tanta poca fortuna arrecò al suo predecessore al soglio di Botteghe Oscure- ci venne qualche giorno dopo confermato su "l'Unità" con un ottimo articolo interpretativo delle intenzioni del segretario del cui autore purtroppo non ricordiamo il nome. A nostra volta facemmo presente che l'auspicato ritorno a Gobetti di una parte autorevole e cospicua della Sinistra non avrebbe potuto non toccare, coinvolgere un aspetto essenziale della esperienza esistenziale, elaborativa e militante del celeberrimo intellettuale torinese amico e sodale di Gramsci quale quella della peculiarità, della originalità del suo rapporto con certi momenti e personaggi di spicco della corrente intransigente e attivista del fascismo. Per esempio con Kurt Suckert meglio conosciuto come Curzio Malaparte e con Roberto Farinacci, il famoso «Ras di Cremona».

Correva l'anno di grazia 1925 e il ventisettenne Kurt Suckert già era in fama di penna fra le più agguerrite, fertili e vitali del Regime mussoliniano. Aveva «marciato su Roma» con le formazioni fiorentine godendo, in certo senso, di una situazione onorifica, di privilegio, in quanto luogotenente del condottiero di quelle legioni dell'Arno, il Console Tullio Tamburini, personaggio che, nella fase terminale dell'assetto littorio assumerà la carica di Capo della polizia della Repubblica Sociale Italiana. A «marcia» conclusa il Nostro si troverà a ricoprire l'incarico di segretario provinciale della federazione dei sindacati fascisti di Firenze. Ne informa con una lettera Piero Gobetti, il quale se ne serve per scrivere un pezzo violentemente polemico su "il Lavoro" di Genova. Nel '23 licenzia alle stampe una nuova edizione de "La rivolta dei santi maledetti", arricchito da un altro capitolo e con in più un "Ritratto delle cose d'Italia: degli eroi, del popolo, degli avvenimenti, delle esperienze della nostra generazione". Segue "L'Europa vivente - Saggio storico sul sindacalismo nazionale", con prefazione di un altro intellettuale di area, come oggi si direbbe: Ardengo Soffici. Nel '24, mentre infuria la polemica con l'antifascismo prima, durante e dopo il delitto Matteotti e l'Aventino, da vita ad una rivista teorica espressiva delle posizioni della corrente rivoluzionaria-intransigente del fascismo: "La conquista dello Stato". Nel '26 firma il "Manifesto degli intellettuali fascisti" compilato da Gentile in opposizione a quello di Croce.
E qui entra in gioco Piero Gobetti. Vediamo come su questo straordinario (in ogni senso) rapporto fra i due intellettuali schierati su posizioni tanto radicalmente contrapposte si esprime uno studioso come Gianpaolo Martelli in una biografia del Nostro licenziata alla stampa nel '68 per i tipi di Borla Editore di Torino: «Aveva ragione Gobetti di sostenere che nell'opera saggistica di Suckert primeggiava sulla politica la variopinta fantasia, lo stile pittoresco e le immagini bizzarre? Volendo ricercare in quelle pagine estrose una linea ideologica precisa, un'impostazione lineare di pensiero, la risposta non può essere che affermativa. Già si è detto: Suckert non è stato né un ideologo, né un pensatore. Tantomeno un filosofo... Era un intuitivo. La logica lo infastidiva. Capiva e giustificava le passioni, ma non le idee. Le idee erano prive di suono e di colore, le passioni invece accendevano gli animi, stimolavano l'immaginazione e trasfiguravano la realtà. Affidava allo stile, ricco all'eccesso di immagini visive, il compito di persuadere avvicinando. Si spiega così come l'elemento letterario giochi un ruolo determinante anche nelle sue opere politiche».
Come prova della non occasionalità e non superficialità, anzi di una qualche connessione operativa, di un certo consuonare fra il Toscano e il Piemontese si può addurre la collaborazione del Suckert, non ancora Malaparte, a "Rivoluzione liberale", intuita e attuata in un ruolo di «interlocutore dissenziente» dice ancora il Martelli. Il quale così prosegue: «Infatti se su talune valutazioni, Suckert e Gobetti, concordavano essi divergevano sostanzialmente sulle ragioni di fondo della loro protesta. Diversi erano soprattutto poi per temperamento e per carattere, ma anche per educazione culturale. Ideologo il primo, letterato il secondo, razionale l'uno, quanto passionale l'altro
Sic stantibus rebus, che succede? Seguiamo sempre la prosa martelliana: «Eppure, come si vedrà, malgrado le differenti impostazioni politiche che li portarono ad essere avversari, i loro rapporti sul piano personale non si interruppero. Si stimavano vicendevolmente. Sarebbe stato proprio Piero Gobetti a pubblicare nel '25 i saggi di "Italia barbara"». Ecco, qui perveniamo a un punto cruciale delle relazioni fra i due giovani scrittori: il Gobetti che si fa editore della saggistica suckertiana-malapartiana. O, meglio, che inizia a farsi produttore editoriale -sembra davvero di sognare!- di una elaborazione ideale, politica, culturale che reca i «segni indistruttibili del littorio», per dirla con il Mussolini targato 1936, annunciatore della «fondazione dell'Impero». I segni, cioè, del suo irreconciliabile nemico fascista. Usiamo il verbo «iniziare» perché Piero non limiterà la sua cooperazione all'opera di diffusione del Kurt/pensiero alla stampa di "Italia barbara", ma la estenderà, come detto, a "L'Europa vivente - Saggio storico sul sindacalismo nazionale".
Interessanti alcune frasi della prefazione del Gobetti che accompagna il primo volume: «Presento al mio pubblico il libro di un nemico. Coi nemici si vuol essere generosi: qui poi Curzio Suckert ci aiuta a combatterlo. Mi piace essere settario-intransigente, non settario-filisteo. Curzio Suckert dunque è la più forte penna del fascismo: io non gli farò l'oltraggio di confutarlo. Completare immagini, opporre politica a variopinta fantasia e a stile pittoresco non è di mio gusto. Il mio antifascismo non combatte mulini a vento. Gli spiriti bizzarri amo lasciarli sbizzarrire e anche nella loro faziosa letteratura toscana, quando è letteratura, applaudirli».

Ora, ha un bel dire il Gobetti che «qui poi Curzio Suckert ci aiuta a combatterlo», ma la verità è che idee e prosa dell'intransigentissimo fascista pacificamente e confortevolmente accolte tracimano nelle strutture culturali ed editoriali dell'intransigentissimo antifascista e non viceversa. E il fatto che un nome di gran richiamo della pubblicistica in camicia nera faccia gemere i torchi delle "Edizioni della Rivoluzione Liberale" mentre i suoi camerati non con la penna ma con armi contundenti, da fuoco e da taglio facciano gemere gli oppositori del Duce è fatto che suscita perplessità, apprensione, perfino scandalo nei puristi di una democrazia ormai in grande e sofferente difficoltà. Vale per tutti un episodio concernente Carlo Rosselli, che con un Malaparte squadrista e asso della pubblicistica legionaria è alle prese, duramente alle prese a Firenze. Recatosi a Torino per incontrarvi il Gobetti e con lui prendere accordi in ordine a certe strategie antifasciste, andato alla sede della rivista-casa editrice viene a sapere che il Piero invece di attenderlo si è allontanato dagli uffici insieme al Suckert-Malaparte. Furibondo, il futuro fondatore di "Giustizia e Libertà" gira i tacchi e va via in stazione a prendere, lesto pede, il primo treno in partenza per il capoluogo toscano. Ritiene, probabilmente, che al «liberale alleato del proletariato» qualcosa debba avere sconvolto il cervello.
Da notare che l'imberbe e ascetico intellettuale subalpino solo a causa di una tragica, definitiva fatalità non fu in grado di stampare un terzo libro del suo amico pratese. Vediamo cosa ce ne dice il Martelli: «scritto nel 1926, l'editore doveva essere Piero Gobetti che ne era stato anche l'ispiratore, ma quando l'autore stava per terminarlo ed era giunto agli ultimi capitoli, il direttore di "Rivoluzione Liberale", per le persecuzioni cui era stato sottoposto, fu costretto a partire per la Francia. Prima di mettersi in viaggio telegrafò a Malaparte che lo raggiunse a Torino. Gobetti gli annunciò che l'indomani si sarebbe trasferito a Parigi, dove era sua intenzione continuare l'attività editoriale. Malaparte promise che, appena terminato, gli avrebbe spedito il suo scritto di "Don Camalèo". Fu il loro ultimo incontro. "Ci dicemmo non addio, ma arrivederci" ha raccontato successivamente Suckert. "Egli era più pallido del solito, ma sorrideva: mi accorsi che aveva gli occhi leggermente appannati. Piero Gobetti partì per Parigi dove poco tempo dopo tristemente moriva"».
A vero dire la simpatia amicale di Gobetti per il suo interlocutore della città del Giglio era motivatissima, andava, cioè, ben oltre la tattica di snidare il nemico, di offrirgli ricette nei propri santuari intellettuali, per meglio culturalmente e politicamente combatterlo, batterlo. Un filo rosso -anche in senso ideologico, lo vedremo- univa i due carissimi nemici aggregandoli in vista di un obiettivo comune: la sconfitta della maggiore piaga del costume italiano, ossia il trasformismo, la pieghevolezza delle schiene, l'accomodantismo: quello che potremmo definire lo spirito di pastetta, il deficit di coerenza. Il Gobetti era convinto che la radice di codesti mali morali fosse da ricercare nella mancata Riforma protestante in Italia. Il Suckert in procinto di diventare Malaparte incarnava e rappresentava una dottrina nazionalpopolare fondata su di una tesi esattamente opposta: occorreva, cioè, restaurare lo spirito e i concreti contenuti della Controriforma cattolica onde moralmente e politicamente raddrizzare la spina dorsale di questo paese, al fine di renderlo protagonista nel mondo. Ambedue, però, arrivavano alla medesima conclusione: occorreva praticare e stimolare quel valore fondamentale chiamato intransigenza.
Malaparte era veramente un intransigente? Se non lo era, sicuramente tale appariva. Comunque, tale ce lo descrive il Martelli con le seguenti parole: «Portato per temperamento alla polemica, già pochi anni dopo la marcia su Roma, Suckert era sceso in campo contro quelli che egli definiva i falsi fascisti, i fascisti di comodo, i profittatori, i parassiti, i pavidi, i nostalgici del quieto vivere, i legalitari. Più degli argomenti portati per dare valore alla sua pubblicistica, è importante notare la caparbietà, l'irruenza, il tono adoperato. In quegli scontri, in cui appariva nelle vesti di un redivivo Saint Just, ammoniva i conservatori che non si facessero illusioni sulla possibilità di arrestare la carica rivoluzionaria del fascismo, si appellava allo spirito di ottobre, rimproverava l'acquiescenza di troppi che preferivano applaudire invece di far sentire le proprie ragioni, contrapponeva Roma, "la città in cui si erano date convegno le varie cricche affaristiche, parlamentari, di estrazione liberale pronte ad ogni compromesso e ad ogni trasformismo", alle province in cui si ritrova "l'anima popolaresca e paesana, generosa e spregiudicata degli italiani". Non è escluso che la parte di irriverente e temerario critico dell'ufficialità fascista (aveva ammonito Mussolini che, se non avesse attuato la volontà rivoluzionaria del fascismo, avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni) rientrasse in quel suo voler essere a tutti i costi diverso. Ma la sua insofferenza era anche una prova di indipendenza e di fedeltà in se stesso».
A proposito di questi due valori pare a noi opportuno segnalare quanto icasticamente il «maledetto toscano» ce ne dice in "Italia barbara": «(...) le tirannie non riusciranno in nessun modo a togliermi una libertà che non ho mai avuto, sempre disdegnando d'essere pubblicamente, non già di sentirmi nell'intimo, un uomo libero».

La vera verità è che il giovane liberale di sinistra, filo-proletario, amico di Antonio Gramsci e interlocutore privilegiato di quella cultura marxista che aveva filiato il torinese movimento dei consigli di fabbrica, aveva spiritualmente costruito in se un ideale superpartito dell'intransigenza, autentico collettore di tutte indistintamente le eresie possibili e immaginabili, da assolutamente coltivare, valorizzare e mobilitare indipendentemente dal colore politico, dalla genesi culturale, dal referente ideologico, dalla collocazione organizzativa, dalla eventuale dislocazione parlamentare. Dunque, anche quelle fiorite all'ombra del littorio, nell'aura del clima suscitato dall'esplodere sul proscenio della storia dalla eccezionale personalità di Mussolini, ad onta della ineguagliabile caratura dell'attivissimo antifascismo gobettiano. E, come vedremo nel successivo numero di "Aurora", l'occhio di Piero si concentrerà con l'interesse non soltanto sul Suckert-Malaparte, ma anche sul Ras di Cremona, che formerà oggetto di appassionato studio di un saggio in due puntate di Gobetti su "Rivoluzione Liberale". Un sentimento di odio-stima- ammirazione, quella del Nostro, per il leader naturale e riconosciuto della corrente intransigente e ultrasquadrista del movimento delle camicie nere, almeno pari, sotto il profilo dell'intensità e della costanza, all'istintiva, irrimediabile avversione per Benito Mussolini, da lui ritenuto -per la verità in modo piuttosto schematico ed epidermico- un transigente amorale pasticcione e opportunista, dedito a basse transazioni con quelli che oggi usiamo chiamare i «poteri forti» per pura bramosia di comando. L'appellativo sprezzante usato dal Gobetti nei confronti del Duce del Fascismo era quello di «Conte di Culagna».
Piccola digressione. L'ideale superpartito di tutti gli intransigenti germinato dall'aspra e rinnovatrice creatività gobettiana ci suggerisce, analogicamente l'altrettanto ideale superpartito di tutti indistintamente i lavoratori -ivi compresi quelli fascisti- spiritualmente in sé vagheggiato da Giuseppe Di Vittorio.
Curzio Malaparte -sarà bene, ora chiamarlo definitivamente con il nome e cognome con i quali è passato alla storia non soltanto delle patrie lettere- fu sempre, ad onta della varietà delle incarnazioni politiche un nazionale popolare. Potremmo ciò dimostrare mediante testimonianze documentali a iosa. Ma ciò ci condurrebbe troppo lontano; e, pertanto, ci affidiamo, affidiamo il nostro messaggio, a una sola di queste: la lettera scritta a Piero Gobetti per informarlo della ottenuta nomina a segretario della federazione provinciale di Firenze dei sindacati fascisti. Seguiamolo: «Ella, caro Gobetti, stupirà della mia nuova qualità, che detengo dalla metà di settembre. È la prima volta che un letterato si pone a capo di organizzazione economica sindacalista, forte di 68 corporazioni sindacali e di 7.400 iscritti: il più forte nucleo di operai organizzati oggi esistente, di fatto, in Italia. L'autorizzo, anzi ne avrei piacere, ad accennarlo ai lettori di "Rivoluzione Liberale". Finora tutto va bene: trovo contrasto soltanto per le mie idee che, ai più, sembrano troppo originali e poco ortodosse. Ma credo sia questo il momento di dar prova che l'intelligenza italiana è capace di mettersi, non solamente a chiacchiere, al servizio del proletariato. Di quello stesso che ieri era rosso e oggi è tricolore. Bisogna dare un'anima a questo popolo, spesso popolaccio. I giovani italiani di ingegno e di cultura debbono essere i primi a mettersi innanzi al popolo. L'umanità grande significa anche che deve essere grande. Noi italiani dobbiamo cominciare dall'Italia, è logico. Penseremo poi all'umanità (...)».
L'importante rapporto fra il fascistissimo Suckert-Malaparte e l'antifascistissimo Piero Gobetti, ambedue collocati nell'area della intransigenza, fu breve -a cagione della prematura, triste dipartita dell'agguerrito intellettuale torinese in oltre Cenisio-, ma intensissimo e ricco di significati. La pur rapida trattazione dei suoi più rilevanti aspetti non è esauribile in un sol pezzo, ragion per cui diamo appuntamento al lettore al prossimo numero per gli ulteriori svolgimenti di questo brano di storia fatto non di storie bensì di verità effettuali.

Enrico Landolfi

 

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