da "AURORA" n° 29 (Ottobre 1995)

UOMINI E IDEE

 

Giustizia e libertà: ieri e oggi

Francesco Moricca

 


 

«Socializzazione (...), figlia della presunzione ideologica di quel tempo, della sublime ignoranza che il ceto politico dei regimi autoritari e totalitari ha per l'economia, e non solo di essi, una ignoranza che accomuna Stalin a Hitler, a Mussolini, a Gramsci, a Togliatti».

 

G. Bocca, "Il filo nero"

 


 

1 settembre '95: sul foglio culturale di "La Repubblica" è pubblicata la parte conclusiva dell'ultimo best seller annunciato di Giorgio Bocca, "Il filo nero". Di fronte, un intervento critico di Nicola Tranfaglia su "Rosso e nero" di Renzo De Felice.

5 settembre: sempre sul giornale scalfariano, appare "Quattro no a Renzo De Felice" di Giorgio Bocca.

Nel momento in cui scrivo, non so se la polemica iniziata dal giornalista cuneense con un De Felice che sembra non voler rispondere e che -azzarderei- non dovrebbe rispondere, avrà o non avrà un seguito. Credo di no, per l'ispirazione stendhaliana del libro-intervista di De Felice: ispirazione meditativa e vagamente «solipsistica» in cui il più importante storico del fascismo italiano vuole «volgarizzare» i risultati di una ricerca diuturna e ostinata, epperò senza intendimenti politici bassi e immediati.
A me pare che De Felice -proprio come l'impolitico Stendhal, diplomatico malgré lui, aveva inteso fare narrando di Julien Sorel e degli sconvolgimenti esistenziali dell'epoca a cavallo fra Rivoluzione e Restaurazione, epoca "sub specie aeternitatis" identica alla nostra- abbia voluto indurci a una riflessione per così dire metastorica sulla più recente storia italiana. Se vogliamo, proprio esagerando alcuni giudizi riduttivi sulla partecipazione popolare alla Resistenza e sul «grigiore» della politica nazionale dell'ultimo cinquantennio, iniziatosi col fatidico 8 settembre, anzi 25 luglio '43. Questa «esagerazione» non è stata compresa -non sappiamo se volutamente- sia da Bocca che da Tranfaglia.
Bocca ha ragione , anche sulla base dei suoi ricordi di gioventù (dei quali dovrebbe però diffidare sulla scorta del Leopardi da lui citato qualche volta con civetteria da intellettuale ancora di provincia), quando afferma la funzione positiva che la Resistenza ebbe nel determinare la ripresa dello spirito nazionale frustrato dai fatti successivi al 25 luglio: perché effettivamente la Resistenza servì a rimettere al giusto posto quelle istanze di maggiore giustizia sociale che erano state offuscate (ma sicuramente non cancellate!) dalla retorica patriottarda del Regime.
Bocca, tuttavia, incorre nel medesimo e non casuale «errore» della storiografia ufficiale sulla Resistenza, quando favoleggia di una partecipazione di massa al «secondo Risorgimento», e minimizza il ruolo fondamentale che vi ebbero i comunisti, specie quelli irriducibilmente «non azionisti».
È questa la sciagurata tesi «frontista» che ha bloccato con la «democrazia», quella che avrebbe potuto essere una reale crescita della società, valutata in termini non soltanto «quantitativi» ed economicistici. Bocca la ripropone adesso per scopi che a me sembrano non aver nulla da spartire con la «libertà» del giornalismo d'opinione, soprattutto con l'imparziale e «pittorica» interpretazione delle fonti storiografiche che, a sua detta, sarebbe assente in De Felice, poiché «le carte d'archivio (consultate da quest'ultimo in sterminata quantità e quasi compulsate con nevrotica puntigliosità), sono strumenti importanti per scrivere la storia, ma non bastano; bisogna avere la capacità di ricreare i sentimenti (sic!!!) collettivi»: cosa dire di questa «filosofia della storia» sentimentalistica? Quanto possono valere le critiche al «romanticismo» dei «repubblichini» del capitolo sui "Fantasmi di Salò", provenendo da un simile pulpito?
Ma vi sono altre ragioni per giudicare infondate le contestazioni che il giornalista rivolge allo storico, di cui con garbo pari alla malignità si denunzia il carattere spocchioso avendo egli, dagli innegabili meriti della sua «immane fatica», quasi da bovino, ricavato «la ferma convinzione di essere l'unico in Italia ad avere il diritto di parlare di Mussolini e del fascismo».
In primo luogo, è da dire che in De Felice gli «atteggiamenti preconcetti» (che comunque fanno lo storico autentico e lo distinguono dal mero cronista di cose passate e dal topo di biblioteca) sono stati messi a dura prova dalla «immane fatica» di una rigorosa verifica documentale, che è qualcosa di più della mera consultazione e trascrizione dei testi. Per tale motivo, le tesi esposte da De Felice possono ritenersi «precostituite» fino a un certo punto, e ciò senza volergli concedere nulla, indipendentemente dalle «simpatie» che si potrebbero avere per lui.
In secondo luogo, sono anche i «sentimenti collettivi» degli Italiani, dal fatidico 8 settembre ad oggi, quelli che De Felice presenta in forma sintetica ma assai eloquente e concisa nel suo "Rosso e nero", sottolineando proprio ciò che Bocca mette in ombra quando non nega; e cioè non solo il ruolo centrale dei «rossi» durante la Resistenza, ma i loro rapporti «generazionali» coi «neri», cosa che peraltro, con inusitato candore, ammette o si lascia sfuggire dalla penna il giornalista cuneense, allorché ci informa dei rapporti del sindacalista Belin con il «fascista» Pètain, citando altresì Lagardelle, Mossi, Doriot, Déat, Brasillach, Maulnier, Tasca, Silvestri, Bombacci, e, dulcis in fundo, Bonfantini, il comandante delle brigate Matteotti che «progetta con alcuni fascisti la riconversione socialista delle formazioni (sic!!!) di Salò».
In definitiva, non solo De Felice non demonizza nessuno, ma, ove si volesse dare alla sua interpretazione del fascismo una valenza politica, egli sembrerebbe escludere quella continuità della politica «frontista» che invece il giellino Bocca sostiene a spada tratta nella sua «storia».
Chi dei due autori sia più «aperto» al rinnovamento, più sincero e spassionato, lo capisce a questo punto anche un bambino.
D'altra parte, forse che Bocca è meno pessimista di De Felice? Direi proprio di no. Chiunque può verificarlo leggendo i capitoli "La nuova destra" e "Il lavacro di Fiuggi", il cui contenuto -non ho difficoltà ad affermarlo- condivido in pieno e trovo per di più molto defeliciano. Ma se il «grigiore» della politica italiana è stato determinato dal «conservatorismo degli Italiani», dal loro «fascismo istintivo», da una vocazione connaturata all'anarco-individualismo autoritario la cui controparte non può che essere il servilismo utilitario e, grazie alla bimillenaria influenza cristiano-cattolica, il pecorismo nazzareno; se, ancora, l'«austera» e «inascoltata» protesta dei giellini -che si chiamano anche Norberto Bobbio e Giorgio Bocca- s'è tuttavia espressa grazie alle più prestigiose case editrici e in giornali e riviste di ben altra tiratura che non "Aurora"; cosa si deve effettivamente pensare di questo pessimismo «prestigioso» e altresì ben remunerato? Di questo pessimismo che si rifiuta di comprendere quello di De Felice solo perché esso non è funzionale alla «verità» dei giellini, degli «azionisti» che nel PDS, per quanto più numerosi che nell'ex-PCI, non riescono ancora ad essere «egemoni»? È il caso a questo punto, di riportare la seguente citazione di Piero Cobetti che serve a Bocca per dare «dignità culturale» alla sua definizione del fascismo (e tralasciamo quelle non meno significative di Carlo Rosselli).
«La maggioranza degli Italiani è fascista solo in questo senso: che ha una assoluta incompatibilità di carattere con i paesi moderni, con i regimi di autonomia democratica, con la lotta politica. Per questo approvano Mussolini, un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo italiano l'abito cortigiano, lo scarso senso delle proprie responsabilità, il vezzo di attendere dal domatore, dal deus ex machina, la propria salvezza».
Certo Bocca approva D'Alema quando, forse obtorto collo, dà il ben servito a Gramsci e intende sostituirgli Gobetti come attuale esempio di «intellettuale organico»: ma certo è anche che Piero Gobetti era sicuramente «meno organico» -come De Felice del resto- agli interessi dei «domatori» di turno di quanto non lo siano i suoi eredi, gli «azionisti» degli anni Novanta! Che i «domatori» si chiamino Agnelli o Berlusconi è rilevante in questo discorso solo perché, nell'ottica del conservatorismo illuminato nazionale e internazionale, Berlusconi è un parvenu inaffidabile e non gradito.
Che Giorgio Bocca sia un conservatore mascherato da progressista, un «italiano come tutti gli altri», un italiano che non ha tempo per le meditazioni stendhaliane, per i loro tormenti e per i loro malcelati crucci, è quello che stiamo dicendo, né più né meno. Aggiungiamo che la «omologazione» al modello culturale cosmopolita dell'americanismo, che fin dall'immediato dopoguerra convisse colla residuale «cultura» o «incultura» dell'Italia prefascista e fascista, non fu osteggiata per niente dai giellini confluiti strategicamente nei vari partiti -tutti- del cosiddetto «arco costituzionale». Se delle «critiche» furono da costoro sollevate, lo furono solo nel senso di rendere più perfetto e funzionante il processo di «modernizzazione» del Paese, la sua omologazione al sistema anglosassone: e furono, queste critiche, espresse nella solita forma delle geremiadi illuministiche, oscillanti fra la denuncia di stampo tecnicistico e quella moralistica di ascendenza pseudo-risorgimentale, con quei richiami al mazzinianesimo di cui era indiscusso maestro il già fascista monarchico Giovanni Spadolini. Aggiungiamo altresì che, se i comunisti non poterono trovare una «via nazionale» al socialismo secondo gli auspici di Gramsci e Togliatti, ciò accadde per il carattere cosmopolita -«internazionale»- dell'ideologia marxista, la quale confliggeva con l'americanismo in un senso meramente politico e strumentale, ma non quanto a valori, i quali restavano nella sostanza quelli utilitaristici, materialistici, edonistici della comune origine «moderna» e decisamente antitradizionale.
Un ulteriore appunto va fatto alla pretesa «scientificità» delle tesi di Bocca sul fascismo. È significativo che, mentre De Felice circoscrive l'analisi del «grigiore» italiano all'ultimo cinquantennio della storia italiana, per Bocca il «filo nero», che spiegherebbe l'inquietante rinascita del peggiore fascismo dopo il crollo del Muro di Berlino si dovrebbe far risalire ben oltre il «trasformismo» inaugurato da Depretis, Crispi, Giolitti e ripreso coi dovuti aggiustamenti da Mussolini. Per avallare questa tesi che si riconnette scopertamente a quella sull'«Ur fascismo» di Umberto Eco (Bocca però adotta il termine di «fascismo perenne» coniato da Norberto Bobbio) viene messo nello stesso calderone del «fascismo perenne» italiano il Togliatti di "Ordine Nuovo". Ed è proprio in questo luogo del libro che Bocca inserisce il già citato brano del Gobetti, che è un segnale per D'Alema, un invito ad allinearsi sulle vecchie posizioni occhettiane, magari solo concedendo qualcosa in più, ancora di più, al «buon» Veltroni.
Nella conclusione del suo lavoro, Bocca sostiene che il veicolo del «fascismo perenne» sarebbe ancora in Italia costituito dal ceto medio, esso stesso definito, fuori da ogni seria considerazione scientifica, come alcunché di «eterno». Ma, con una inesplicabile avventatezza si lascia scappare la seguente affermazione senz'altro esatta sul destino dell'immortale borghesia italiana: «dove sono finite» -egli dice- «le previsioni dei futurologi sulle nuove professioni create dall'informatica? Nella pratica sono cresciuti i lavori bassi e stupidi del terziario», mentre «ogni giorno il progresso tecnologico fa crescere il popolo dei disoccupati e nessuno ha più il coraggio di fare previsioni ottimistiche, tutti, anche i fautori del modernismo, ammettono che le innovazioni faranno aumentare la produttività ma non i costi di lavoro» (p. 218).
Dunque c'è da aspettarsi non solo un processo di «proletarizzazione» o «sottoproletarizzazione» della maggioranza del corpo sociale, ma un aumento abnorme di ciò che Marx chiamava «esercito salariale di riserva»; in sostanza la scomparsa di quella classe media che, opportunamente epurata dall'«atavica» propensione al «trasformismo» e al «fascismo», dovrebbe, negli auspici giellini, essere la forza portante del «progresso».
Ora, non solo Bocca non si avvede della contraddizione in cui lo ha fatto incappare il suo astratto moralismo illuministico. Egli sembra ignorare del tutto che quanto sta accadendo in Italia, sta accadendo, dove più dove meno, in tutti i Paesi industrializzati. Non si tratta tanto dei «difetti» del sistema italiano, ma dei difetti del sistema a cui esso si ispira, o, per meglio dire, che ci è stato imposto o ci siamo lasciati imporre.
Tutte le sue -e non solo sue- analisi sul «fascismo perenne» degli Italiani vengono così a cadere, perché questa «tendenza» -che più esattamente dovrebbesi definire autoritaria e spenglerianamente «cesarista»- è propria di qualsiasi civiltà che ha esaurito, in positivo e in negativo, tutte le sue potenzialità di sviluppo: una civiltà che oggi come ieri non può non avere un carattere transnazionale o «cosmopolita», per niente «nazionale» nel senso in cui «tedeschi», «francesi» e «inglesi» o «americani» potrebbero ritenersi immunizzati dal «fascismo perenne» per una sorta di abito connaturato alla «democrazia». Quest'ultima è infatti un risultato storico della «Zivilisation» e la premessa della «tirannide» immancabile, qualsiasi possa essere la forma più o meno «demagogica», sofisticata e tecnicizzata che la «tirannide» venga ad assumere. Lo stesso fascismo non è pertanto da ritenersi un «fenomeno tutto italiano», ma solo uno dei modi storicamente determinati della «tirannide» durante l'Età Oscura: molto calzante al riguardo la definizione che del fascismo ebbe a dare Amadeo Bordiga come di una «democrazia autoritaria». Lo stesso «socialismo nazionale», che costituì la parte migliore -più «progressiva»- del fascismo italiano, presenta dei lati «oscuri» che permisero il «fascismo-regime», il coniugarsi assai contraddittorio del «nazionalismo» con l'«imperialismo», le aberrazioni pseudo-socializzatrici del «corporativismo».
Quanto all'esperimento della «socializzazione» durante la RSI (che innegabilmente fu un tentativo di «superare» queste aberrazioni, epperò ritornando ai princìpi, piuttosto che con meri accorgimenti tecnici, tanto quasi da azzerare le differenze sostanziali di fascismo e comunismo), è estremamente sintomatica la stroncatura che ne fa Bocca col, solito argomento delle «illusioni romantiche» dei «repubblichini», cui farebbero curiosamente da contraltare la lucida e pensosa consapevolezza di un Manlio Sargenti, e la consumata esperienza dei «grands commis» Tarchi e Rocca. Bocca avalla la sua tesi col seguente giudizio del liberale Soleri (liberale, guarda caso...), per il quale la legge sulla Socializzazione era «piena di inesattezze. Applicata alla lettera renderebbe impossibile l'esistenza delle società per accomandita e la costituzione di nuove società. Prevede infatti come condizione sine qua non, un consiglio di gestione di cui facciano parte i lavoratori. Ma come possono farne parte se devono ancora essere assunti?».
Al riguardo si potrebbero quanto meno sollevare alcune considerazioni, senza addentrarci in questioni tecniche che esulano dalla mia competenza.
In primo luogo, è impensabile solo nell'ambito di un'economia capitalistica «pura» (peraltro non contemplata nella vigente Costituzione repubblicana) che il capitale necessario a formare una società sia costituito solo da «denaro» e non anche da un ideale equivalente di capitale-lavoro. Ma si supponga di quantificare il capitale-lavoro in ragione del presunto valore di mercato dei beni di consumo che verranno prodotti, e lo si immagini anticipato dalla Banca dello Stato a titolo di prestito ad interesse agevolato da restituirsi inderogabilmente allo scadere di un termine ragionevole, stabilito dallo Stato e non concordato con le organizzazioni sindacali, che in materia dovrebbero avere potere consultivo e non decisionale: allora verrebbe a cadere la presunta impossibilità di una «società in accomandita» in un sistema di economia socializzata, perché l'accomandatario della società sarebbe contemporaneamente il capitalista e la Banca dello Stato, mentre gli accomandanti resterebbero comunque i detentori del capitale-lavoro, i quali, in caso di cattivo impegno nel lavoro e di fallimento dell'impresa per accertata loro responsabilità, potrebbero comunque essere obbligati a saldare il debito con la Banca dello Stato, lavorando alle dipendenze dello Stato, come manodopera di Stato e in cambio di un salario minimo di sussistenza garantito fino ad estinzione del debito contratto. Circa il fatto che non si potrebbe costituire la società «prima di assumere gli operai», è da dire che, dove viene applicato il principio della «socializzazione», in realtà l'operaio non può «essere assunto», proprio perché egli è in pari tempo accomandante e accomandatario: accomandante, per effetto del debito contratto con la Banca dello Stato; accomandatario, per la sua partecipazione paritetica alla costituzione del capitale della società.
In secondo luogo, a prescindere dalle particolari circostanze storiche, la Socializzazione fallì anche, e forse soprattutto, perché la si finì con l'interpretare «alla lettera», sollevando tutta una serie di cavilli giuridici che ne vanificarono lo spirito e gli effetti. Fu inoltre applicata, col pretesto della «sperimentazione», nelle piccole e non nelle grandi aziende che sostenevano la produzione bellica principalmente a vantaggio dei Tedeschi. La grande industria e i suoi manutengoli fecero fallire la Socializzazione. Non certo, o non solo, il «romanticismo dei repubblichini».
In definitiva, se non «ottima» la legge sulla Socializzazione era certamente «buona», visto che venne sostanzialmente accolta nella Costituzione repubblicana, e per la volontà congiunta delle più grandi forze politiche espresse dalla volontà popolare: la cattolica e la socialcomunista.
Vanno a questo punto fatte delle ulteriori osservazioni che esulano dalle problematiche specifiche affrontate da Bocca, osservazioni che nascono da ciò che il giornalista cuneense lascia come implicito o in ombra nel suo discorso costituendone, a mio avviso, il limite più grave, forse una vera e propria sospetta reticenza.
In cosa la legge sulla Socializzazione si presenta veramente come una molto scomoda innovazione rispetto alle opposte economie capitalistica e socialcomunistica?
Nel fatto -io credo- che essa non solo nello «spirito» offra all'«operario» di essere «imprenditore» e responsabile a pari titolo del capitalista del successo e insuccesso dell'impresa, quindi padrone del proprio destino come uomo libero: e cioè solo relativamente garantito dallo Stato in quanto ove si condividesse la giustezza del principio della temporanea «servitù di Stato» da inserirsi in una rinnovata legge sulla Socializzazione, verrebbe a cadere la possibilità che lo Stato Sociale degeneri, come in effetti è degenerato, in «Stato assistenziale» (il che in Italia ha comportato, soprattutto per i grandi imprenditori, il grosso vantaggio di «privatizzare» i profitti e «socializzare» le perdite). Ed è chiaro che il principio della temporanea «servitù di Stato» si, estende anche all'«imprenditore»; e in forma più restrittiva, in quanto lo Stato deve, nel caso dell'«imprenditore», garantire il buon uso sociale delle conoscenze iniziatiche in materia non solo strettamente finanziaria che egli, per forza di cose, ha e l'«operario» non ha. Ciò vale comunque: in un'economia totalmente socializzata come in un'economia ancora «mista». Avrebbe una funzione autenticamente razionalizzatrice (addirittura «anagogica» spiritualmente) della bruta «legge di mercato» conferendo una connotazione eroica alla sfera dell'economia sia nel suo livello organizzativo-produttivo che in quello della vera e propria mercatura, dove i margini della spregiudicatezza comportamentale ad essa intrinseca non solo si restringerebbero, ma acquisirebbero una valenza etica nella misura in cui i rischi di questa spregiudicatezza sono reali e le conseguenze dell'«errore» (al limite a «servitù di Stato) ineludibili.
Se tale è il carattere innovativo della Socializzazione rispetto all'economia capitalistica, rispetto all'economia socialcomunistica i suoi vantaggi dovrebbero essere evidenti dopo il suo fallimento storico culminato con il crollo dell'Unione Sovietica. Qui certamente lo Stato Sociale è stato realizzato compiutamente nella sua forma distorta e anzi «capovolta» giacché la politica di potenza di una «borghesia antiborghese» (il PCUS) ha finito col socializzare non già la ricchezza ma la miseria: la miseria dico, che è povertà non solo materiale ma anche morale e spirituale. Come in Occidente, l'assistenzialismo ha creato una profonda disaffezione al lavoro e un diffuso senso dell'inutilità della vita. Se tuttavia «si lavorava», era per la presenza di un sistema poliziesco di stampo mafioso. Caduto il comunismo, non è casuale che la Russia sia diventata colonia della mafia internazionale, con l'appoggio della burocrazia che ha mutato casacca ma non mentalità. È solo in apparenza un fatto curioso che, crollato il comunismo, anche in Occidente si sia avuta una «ripresa» e anzi uno «smascheramento» di questo potere burocratico-mafioso. Le vicende italiane insegnano. E con buona pace di Giorgio Bocca, non solo quelle italiane o giapponesi... Ancora una volta non si può non constatare che capitalismo e comunismo sono le facce della stessa medaglia.
E tuttavia la forma di socializzazione che ha potuto realizzarsi attraverso il cooperativismo dell'Italia Settentrionale, si è attuata soprattutto per merito dei comunisti, non certo per il «buon cuore» del cosiddetto capitalismo ecumenico di ispirazione neo-illuminista e «azionista». Bisogna ben riflettere sul fatto che i giudici di Tangentopoli, che ora sembrano sul serio interessarsi agli «illeciti» rapporti del PCI-PDS con le cooperative rosse, continuino per il momento a risparmiare ben definiti settori della grande industria privata che, con l'operazione Super Gemina, ne approfitta per rafforzare ulteriormente il suo sempre più incontrastato potere. Forse Tangentopoli servirà anche a liquidare un cooperativismo già in crisi non solo per la recente follia del liberismo «ad ogni costo»? Simili considerazioni sono totalmente assenti nel libro di Giorgio Bocca, che pure è assai preciso e obiettivo nei capitoli dedicati all'insospettata rinascita della destra in Italia. (pp. 123-219)
In conclusione, non si tratta affatto dei limiti di un giornalista che si picca di storiografia, ma di un disegno politico che ha una ben individuata origine che affonda le sue radici nell'antifascismo e anticomunismo pregiudiziali del movimento di Giustizia e Libertà: epperò -anche qui è di evidenza palmare il «segno dei tempi»- con una netta caduta rispetto agli ideali di Gobetti e dei Rosselli.

Francesco Moricca

 

 

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