da "AURORA" n° 30 (Novembre - Dicembre 1995)

L'OPINIONE

 

Lingua federale e diritto alla lingua nella prospettiva del diritto linguistico comparato

Anna Moricca

 

È da poco più di tre anni (si iniziò con la Prima Sessione del XXXVI Congresso del Partito Radicale, Roma, 30/4-3/5/92) che si discute di un problema rilevantissimo alla vigilia dell'unificazione dei mercati europei: quello di una Lingua federale. La realtà ha dimostrato chiaramente che la insufficiente attenzione prestata a un tema così complesso, bisognoso di una soluzione politica intelligente e non utopistica, ha dato luogo ad una pseudo-occulta «guerra delle lingue». Così, attraverso la loro potenza economica e politica, con una sopraffazione assolutamente ingiustificabile, alcune nazioni impongono il loro idioma come impropria lingua internazionale: conseguenza, questa, anche del cosiddetto «paternalismo costituzionale internazionale».

La questione appare molto seria, ove si rifletta che, con il tempo, il predominio di un'unica lingua finisce col pregiudicare e «oscurare» etnie, tradizioni e culture dei popoli. Historia magistra vitae: cosa ne è stato delle lingue autoctone con l'avvento del latino nell'Europa antica? Dell'idioma etrusco in seguito all'«opus» dei Romani che pure all'influenza etrusca devono tanto?

Urge l'adozione di una lingua internazionale, ma non collegata ad alcuna nazione, popolo, etnia. Una soluzione potrebbe essere rappresentata da una lingua che, oltre ad essere strumento di comunicazione, si configuri anche come espressione di una nuova cultura sovranazionale: la lingua internazionale Esperanto, così come e stato in varie occasioni sostenuto da C. Pagano, segretario dell'Associazione Era-Cadice. Joseph Turi, segretario generale dell'Accademia Internazionale di Diritto linguistico, parla di un «diritto alla lingua» come diritto fondamentale, che a mio parere dovrebbe essere riconosciuto dalle Costituzioni di tutte le nazioni che si definiscono non solo formalmente ma anche sostanzialmente «democratiche», rispettose delle «libertà naturali» degli individui come dei popoli.

Due sono i princìpi che tutelano la dignità e l'uguaglianza di tutti gli idiomi secondo la prospettiva del diritto linguistico comparato.

1) Fine di tutta la legislazione linguistica è quello di porre rimedio ai problemi linguistici che nascono dall'interazione fra più lingue.

2) Premesso che oggetto del diritto linguistico comparato è lo studio della legislazione linguistica in tutto il mondo, nonché lo studio del rapporto fra lingua e diritto; premesso che la lingua, essendo il principale strumento della Legge, funge contemporaneamente da oggetto e soggetto legislativo, allora il linguaggio giuridico devesi definire come un linguaggio «sui generis», precisamente come un linguaggio meta-giuridico.

Pertanto occorre riconoscere e proclamare perentoriamente il principio della dignità di tutte le lingue e il principio della loro sostanziale uguaglianza, teoreticamente fondantesi sulla non convenzionalità del «linguaggio giuridico», ovvero del suo erigersi al di sopra della contingenza e della «convenzionalità» dei vari idiomi.

Ove si assuma ciò come vero, assolutamente da rispettare è l'equazione di uguaglianza linguistica e uniformità linguistica, tal che l'uniformità linguistica garantita dall'esperanto verrebbe ad essere la «conditio sine qua non» del diritto alla pluralità degli idiomi come diritto all'identità culturale di tutte le nazioni, anche delle più piccole. Ancora una volta, historia magistra vitae: l'episodio biblico della Torre di Babele risulta essere la migliore rappresentazione simbolica degli effetti disastrosi che le diversità linguistiche (ovvero «culturali») assumono quando venga meno il principio della «uniformità linguistica»: del linguaggio meta-giuridico che il testo biblico rappresenta secondo la metafora della «lingua adamica», la lingua parlata dall'uomo prima della «caduta», le cui tracce furono totalmente cancellate per il «peccato di superbia» di re Nimrod.

Quanto occorrerebbe fare per la tutela delle minoranze linguistiche suona tuttavia quasi utopistico. Basti pensare alla nostra nazione. Ancora oggi in Italia (nonostante che la Costituzione del 1947 reciti all'art. 6: «la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche») esistono gruppi alloglotti che non godono di alcuna salvaguardia. Si tratta delle minoranze di lingua albanese (Italia meridionale), catalana (Sardegna), greca (Calabria e Puglia), occitanica (valli cisalpine e Calabria), sarda, serbo-croata (Molise). Rispetto a tali minoranze, dunque, l'art. 6 della Costituzione è rimasto inattivato, e solo recentemente, negli statuti di alcune Regioni di diritto comune, il patrimonio linguistico delle comunità locali viene indicato come oggetto di «espressa tutela e valorizzazione». Ma sono stati necessari 47 anni...!

Il «diritto alla lingua» potrà essere considerato come effettivamente operante solo quando, oltre che «garantito» da princìpi giuridici (che in quanto tali abbracciano la sfera della pura normatività) verrà altresì sostenuto dall'esistenza di precise norme contenenti sanzioni legali per chi lo violi, nonché disposizioni che identifichino con estrema chiarezza i titolari dei diritti e dei doveri linguistici. Solo così potrà anche esser promosso concretamente lo sviluppo della lingua e della cultura esperantista, eliminando alla radice ciò che di fatto, fino ad oggi, ne ha costituito l'impedimento: vale a dire l'essersi presentate come alcunché di astratto, artificiale e «posticcio».

Scriveva il Leopardi nel suo "Zibaldone":

«Quelli i quali scartano (...) nuove parole o termini, e vietano la novità nelle lingue, pretendono formalmente di impedire l'andamento, e rompere il corso, e fermare immobilmente e per sempre il progresso dello spirito umano, posto il quale, la lingua necessariamente progredisce, e si arricchisce di parole sempre più precise, distinte, sottili ed universali, e insomma di termini; e vicendevolmente senza il progresso della lingua (...) è nullo il progresso dello spirito umano, il quale non può stabilire ed assicurare e perpetuare il possesso delle sue nuove scoperte e osservazioni, se non mediante nuove parole e nuove significazioni fisse, certe, determinate, indubitabili, riconosciute; e di più uniformi, perché se non sono uniformi, il progresso dello spirito umano sarà inevitabilmente ristretto a quella tal nazione, che parla quella lingua dove si son formate le dette nuove parole o a quelle sole nazioni che le hanno bene intese e adottate». (corsivi miei)

Idee, queste del Leopardi, che sono state riprese dallo Zamenhof, il quale ha redatto un vocabolario latino-germanico-slavo, di facile comprensione e apprendimento.

Che i «linguisti» non dicano adesso che l'esperanto è «secco e impoetico», perché, come dice il Pagano, «la comunicazione è cosa troppo seria per lasciarla ai linguisti».

Certo, i cultori maniaci delle «tradizioni nazionali» storcono il muso quando sentono parlare dell'esperanto. Ma non dovrebbero, perché l'esperanto è teoreticamente l'unica seria risposta al problema meta-linguistico della lingua, e anzi, più a monte, dello stesso «linguaggio».

In definitiva, il diritto a una lingua e il diritto alla lingua comprendono in sé non solo il diritto a comunicare ed esprimersi, ma altresì il diritto a esigere di capire ed essere capiti.

Un proverbio arabo dice: «Chi vuole qualcosa trova un mezzo; chi non vuole trova una scusa». Se dunque gli Stati volessero sul serio abbattere le barriere linguistiche che soffocano l'umanità, si servirebbero dell'esperanto e otterrebbero quanto meno la «pace linguistica».

Ma lo vogliono veramente?

Anna Moricca

 

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