da "AURORA" n° 33 (Marzo 1996)

ECONOMIA

Privatizzazione e Partecipazione

Giovanni Mariani

Un recente editoriale del "Corriere della Sera" firmato dal «politologo» Angelo Panebianco e titolato «Fini e i boiardi dello statalismo», riporta al centro del dibattito, con un'analisi di grande efficacia, la questione delle «privatizzazioni». E pur non condividendo il Panebianco-pensiero è doveroso sottolineare la sostanziale fondatezza delle accuse mosse a Gianfranco Fini & C. Accuse che, è bene ricordarlo, furono rivolte, a suo tempo, anche all'Ulivo e, più recentemente, al tecnocrate Maccanico.
In sostanza il Panebianco sostiene: «(...) Se questo Paese non fosse malato come è d'ideologia, Alleanza Nazionale non sarebbe accusata dai suoi avversari di perdurante fascismo, sarebbe invece accusata assai più credibilmente di aspirare a diventare un nuovo grande partito della spesa pubblica e dell'impresa di Stato». Più oltre, l'editorialista meneghino, sottolinea i solidi legami stretti dai dirigenti dell'impresa pubblica col partito di Fini, arrivando a definire AN come il capofila del partito trasversale dell'industria pubblica. Ipotizzando, tra l'altro, il «salto della staccionata» da parte di quei «boiardi di Stato» che momentaneamente gravitano nell'orbita dell'Ulivo, qualora le elezioni del 21 aprile sancissero, per la seconda volta, la vittoria del Polo delle Libertà.
Indubbiamente c'è del vero in tutto ciò. Non si può negare che tanto a destra quanto a sinistra si annidano i nostalgici dello «statalismo»; ma occorrerebbe operare il necessario distinguo non infilando nello stesso mazzo Stato sociale, Stato imprenditore e Stato assistenziale. Un distinguo che Angelo Panebianco si guarda bene dal fare, come del resto la totalità dei «portabandiera» del polo di destra e persino larghe frange del centrosinistra.
In definitiva, per costoro, ogni iniziativa economica intrapresa dallo Stato rappresenta un evento negativo. Del resto i riferimenti del prof. Panebianco alla persona di Antonio Martino, quale fiero avversario dello «statalismo» non possono che suscitare la nostra ilarità: conosciamo bene le idee economiche del «Chicago boy» di Forza Italia: spogliare lo Stato non solo di ogni proprietà economica (anche a costo di svendere), ma anche di ogni possibilità di intervento programmatico e di controllo nella produzione.
Questa è, nella sostanza, anche la posizione dell'editorialista del "Corriere" quando sostiene a chiare lettere che lo slogan «vendere ma non svendere» fatto proprio da Fini, D'Alema e numerosi esponenti dell'Ulivo sarebbe «di per sé privo di fondamento e quantomeno sospetto», in quanto ogni «privatizzazione dipende dalle condizioni di mercato in cui si procede alla vendita (...)». Per cui l'unica soluzione auspicata risulta essere il definitivo estraniamento del controllo pubblico sull'economia «che deve essere regolata unicamente dalla libertà di mercato». Con questo il prof. Panebianco ritiene di aver risolto la questione e bacchettato a sufficienza gli esponenti del «partito trasversale dello statalismo». «Bacchettate» già distribuite prima a sinistra e poi a destra dal solerte, integerrimo nonché intransigente funzionario del FMI che attualmente ricopre l'incarico di Presidente del consiglio.
Il discorso va ulteriormente chiarito, non essendo nostra intenzione indossare i panni dei nostalgici del «neo-corporativismo» che ha per cinquant'anni regolato la vita economica della sedicente prima repubblica, né quelli di sostenitori degli sprechi e delle ruberie inferti alla Nazione dagli squalificati tecnocrati statali. È bene essere estremamente chiari: qualsiasi battaglia condotta contro lo Stato assistenziale e clientelare sarà la nostra battaglia, sia per ragioni di ordine morale che per ragioni di ordine sociale e politico.
Di ordine «sociale»: in quanto fermamente convinti che lo «statalismo a fondo perduto» e gli sprechi della pubblica amministrazione dell'ultimo mezzo secolo non risolvono la «questione sociale», ma al contrario la aggravano favorendo l'arricchimento dei pochi a danno dei molti e contribuiscono ad innalzare, tra Stato e cittadino, il muro di diffidenza di cui la sedicente «rivolta fiscale» dei lavoratori autonomi è uno dei più significativi ed eclatanti aspetti.
Di ordine «politico»: in quanto siamo partigiani di uno Stato efficiente ma anche anti-burocratico e decentrato in cui il controllo del cittadino non sia vuota enunciazione retorica ma effettiva partecipazione politica.
Per meglio chiarire, affinché amici e nemici non confondano le nostre posizioni con quelle degli epigoni della conservazione, noi in quanto fautori di una rigenerazione sociale, economica, istituzionale e politica crediamo necessario cambiare l'assetto dello Stato nel senso che esso divenga realmente la «casa comune» di tutti e non la «fredda e distante città proibita» in cui dominano i cinici tecnocrati e i lividi demagoghi di questa o quella fazione. Quindi siamo ben distanti dai sostenitori dell'assistenzialismo, che possiamo definire, a ragione, la causa prima dell'annichilimento del popolo italiano nonché il mezzo del quale i partiti si sono avvalsi per stravolgere concetti quali la «partecipazione», la «delega» e la «rappresentanza» previsti dalla Carta costituzionale e sempre disattesi. Ed è anche opportuno rimarcare che le privatizzazioni operate in questi ultimi quattro anni non solo non hanno risolto nessun problema ma, al contrario, hanno privato la collettività nazionale di gran parte degli apparati produttivi statali efficienti conservando ad esso solo gigantesche minus-valenze.
L'eufemismo «privatizzazione» ha in realtà celato alla società civile la denazionalizzazione del patrimonio pubblico in quanto, nella sostanza, alla scarnificazione delle aziende statali hanno partecipato, per lo più, gruppi finanziari stranieri. È utile riportare l'attenzione sulla privatizzazione dei gruppi SME, ILVA, IMI, INA e Credito Italiano nonché la cessione dell'Enichem Syntesis, della Dalmine, del Nuovo Pignone, dell'AEM e di molti altri. Il caso dell'AEM milanese e di per sé illuminante, in quanto estremamente esemplificatorio. Nata nel 1910, grazie ad un referendum popolare, l'Azienda Energetica Municipale, nonostante la grancassa denigratoria delle destre e della Lega Nord, (l'unico partito ad opporsi con forza è stato Rifondazione Comunista), rappresentava un vero e proprio gioiello economico della pubblica amministrazione meneghina. Nel '94 ha contribuito con 128 miliardi di utile al bilancio del comune milanese, ma purtroppo la Giunta Formentini (e il codazzo di utili idioti che la sostiene) non ha esitato un attimo a dismettere questo esempio di pubblica efficienza che molti Paesi dell'Unione Europea hanno tentato di imitare. Venduta, è bene sottolinearlo, a gruppi finanziari d'Oltreoceano, per soli 900 miliardi. Che è tutto dire, calcolando che nel '95 l'utile d'esercizio è balzato a 150 miliardi e per il '96 è calcolato, per difetto, in 197 miliardi.
Questa è la strada che gli sciamani delle privatizzazioni vogliono fino in fondo percorrere, egregio prof. Panebianco! Noi, al contrario non troviamo nessunissima giustificazione all'avvenuta privatizzazione dell'AEM, né riusciamo a giustificare in alcun modo le clausole intercorse sottobanco tra la prestigiosa Azienda pubblica e gli acquirenti. Sappiamo bene che il 51% rimasto nelle mani dell'Ente locale milanese è puramente fittizio, perché nella delibera seguita al «contratto capestro» è già prevista la cessione della maggioranza di controllo. Inoltre conosciamo benissimo quale sarà la «parabola» della Public Company, acclamata a gran voce dal «borgomastro» Formentini: tutto finirà nelle grinfie delle fameliche finanziarie statunitensi, le sole in grado di «reperire» in breve tempo il numero di azioni indispensabile per giungere al definitivo controllo dell'azienda.
Diviene sempre più evidente che se le privatizzazioni continuano ad avere quale obiettivo strategico la dismissione di attività redditizie dello Stato al fine di poter finanziare il carrozzone assistenziale, il costo per la collettività (che è la vera e sola proprietaria del patrimonio pubblico) sarà pesantissimo. Noi comunque non possiamo che essere feroci avversari di questo insano progetto. Con questo, come prima si sosteneva, non intendiamo demonizzare le privatizzazioni qualora queste siano convenienti per la collettività, anzi riteniamo giusto che lo Stato si sbarazzi il più presto possibile dei «pesi morti».
Questo per due buoni motivi:
a) perché l'indegno spettacolo delle aziende pubbliche tenute in piedi artificialmente dai sussidi statali e dai tagli sul costo del lavoro deve cessare;
b) perché la perversa spirale della tassazione è inevitabilmente aggravata dal mantenimento «forzoso» ed illogico delle aziende «decotte»; chi ne paga le spese è sempre il cittadino che vede da un lato accrescere il carico fiscale e dall'altro il continuo deteriorarsi della qualità dei servizi erogati dallo Stato quali sanità, previdenza, scuola, ecc.
La nostra posizione risulta quindi lontanissima da quella dei privatizzatori ad oltranza quanto da quella dei sostenitori dello «status quo», e non certo per generico qualunquismo. È nostra opinione infatti che le privatizzazioni possono, nella migliore delle ipotesi, rappresentare un correttivo «periferico» rispetto ai malanni della economia pubblica. E la pretesa delle cosiddette «teste d'uovo» dell'economia italiana di risanare la situazione vendendo a prezzi stracciati interi segmenti industriali, ben sapendo che i magri proventi di tali operazioni vengono «devoluti» ad attività improduttive, è folle. È una logica contraria alle più elementari basi dell'economia: non si fa nessuna fatica a capire che vendendo attività produttive per finanziare attività fallimentari è un nonsenso, una specie di auto-castrazione.
E sinceramente non stupisce più di tanto che una simile strategia sia scaturita dai cervelli «pensanti» della destra liberale e liberista che da tempo predica il dissolvimento totale della economia pubblica. Né è strano, del resto, che il capitalismo «straccione» degli Agnelli e dei De Benedetti tuoni giornalmente contro l'«imponente debito pubblico» (dimenticando quanto la Cassa Integrazione Guadagni abbia contribuito a determinarlo) e gli sprechi, invocando poi a gran voce, ipocritamente, l'aiuto dello Stato nei momenti di difficoltà (la fiscalizzazione degli oneri sociali e le tante agevolazioni fiscali alla grande industria ne sono esempi lampanti). Ancor meno comprensibile ci pare la posizione assunta da certa Sinistra che da un lato invoca a gran voce le privatizzazioni (al fine di acquisire la patente «liberista») e dall'altro tenta, ci pare con sincera convinzione, di salvare quanto resta del patrimonio pubblico. Una bella contraddizione!
A dire il vero per qualche tempo ci eravamo illusi che dalla sinistra venisse qualche proposta concreta di riforma dell'Amministrazione pubblica che prospettasse un maggiore coinvolgimento dei cittadini nella gestione dello Stato. Mi torna in mente uno dei «punti» del "Manifesto di Verona": «La Costituzione repubblicana dovrà assicurare al cittadino il diritto di controllo e di responsabilità critica sugli atti della pubblica Amministrazione (...)», e mi chiedo perché mai questa sinistra, che spesso si fatica ad identificare come tale, continui a demonizzare esperienze storiche il cui valore sociale è innegabile e si lasci ammaliare dalle sirene liberiste che pretendono di delegare tutto, persino i sentimenti, all'onnipotente mercato. Si ha l'impressione che la sinistra sia comunque imbrigliata tra nostalgici del consociativismo assistenziale e «illuminati» dal mercato. Se ciò risponde al vero essa non ha futuro. In quanto non ha futuro l'assistenzialismo, per ragioni che è persino superfluo sottolineare, e non ha futuro «l'economia di mercato» che, come insegnano gli stessi economisti, è un'entità astratta ed irreale, giuridicamente non definibile.
Noi andiamo ben oltre il riduttivo slogan privatizzatore e le persistenti tentazioni di ammucchiata politica; l'economia pubblica, in quanto bene comune della Nazione e prodotto del lavoro collettivo, deve essere sottoposta al controllo dei cittadini, gli unici, in quanto comproprietari, abilitati a decidere in merito. Finora ciò non è avvenuto ed i proprietari virtuali (il popolo italiano), quanto quelli reali (gli azionisti) sono stati del tutto esclusi dal processo decisionale a vantaggio di consigli di amministrazione, nominati il più delle volte dagli organi di gestione, che rappresentano solo gli interessi di lobbies politiche e finanziarie. Ciò spiega a sufficienza quale sia il ruolo dei «proprietari» e delle «maestranze»: i primi debbono, senza neanche il diritto alla protesta ripianare le perdite e le seconde accontentarsi del ruolo che la partitocrazia a loro assegnato: quello di far parte dell'arredo industriale.
Appare persino inutile continuare ad elencare i meccanismi perversi dell'economia pubblica italiana, della quale ci siamo a sufficienza occupati in altre occasioni, essendo più importante, a nostro giudizio, far capire che se le «tecno-strutture» pubbliche fossero state obbligate (come recitano gli art. 46, 47 e 99 della Costituzione) a realizzare i «consigli di gestione», con l'immissione in essi dei lavoratori e, perché no, dei consumatori, la storia dell'economia pubblica sarebbe stata diversa.
J. K. Galbraith, in merito alla coogestione delle aziende pubbliche, ha scritto: «Sembra che i Tedeschi, almeno in apparenza, abbiano trovato dei vantaggi nella coogestione. I conservatori americani, inglesi e francesi che vantano i successi economici della Germania nel dopoguerra, non possono non notarlo. Sorvolano sull'accesso dei delegati sindacali ai Consigli di amministrazione. C'è da domandarsi perché mai non si veda una delle ragioni fondamentali di tanto successo!»
Concludendo si può dire che il degrado del patrimonio pubblico è il frutto di cinquant'anni di disinteresse a cui il cittadino è stato indotto. Solo attraverso un rinnovamento profondo della classe politica, dei quadri dirigenti delle aziende pubbliche e dalla responsabilizzazione dei cittadini si potrà giungere ad un positivo riassetto dell'economia pubblica.
Le privatizzazioni sono un tentativo, maldestro, di ridurre l'impatto degli effetti della cattiva gestione delle imprese ma non incidono sulle cause del male. Sono, in definitiva, una delle tante italiche trovate per cambiare tutto per non cambiare nulla.

Giovanni Mariani

 

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