da "AURORA" n° 33 (Marzo 1996)

UNA CERTA IDEA DELLA SINISTRA

Tutto da verificare, si capisce

Enrico Landolfi

Già ci siamo diffusi sui tentativi di applicazione creativa a personaggi della corrente «intransigente» del fascismo della sua passionale vocazione anticonformista, antitrasformista, anti-omologatrice da parte di Piero Gobetti. Lo abbiamo fatto proprio su queste pagine rievocando momenti, aspetti, elementi, episodi, vicende dell’esperienza fascista -vissuta in chiave popolare nazionale, rivoluzionaria, intransigentista, controcorrente- di Curzio Suckert Malaparte quando era segretario dei sindacati fascisti di Firenze e fondatore/direttore de "La Conquista dello Stato", organo teorico di quella che Renzo De Felice non ha esitato a chiamare la «sinistra fascista», articolata, secondo l’illustre studioso, in ben cinque filoni variamente connotabili sotto il profilo ideologico.
Ora intendiamo occuparci delle opinioni espresse dal Gobetti su di un altra e alta personalità del movimento delle camicie nere storicamente acclarata quale massimo punto di riferimento dei fascisti puri e duri, tetragoni a compromessi e cedimenti nei confronti dei cosiddetti «normalizzatori», ossia i fautori -sia nel campo del fascismo che dell’antifascismo- del ritorno alla stretta osservanza della legalità statutaria. Trattasi di Roberto Farinacci, il famoso -per i suoi nemici interni ed esterni al Partito Nazionale Fascista famigerato- «Ras di Cremona», suocera del regime», interlocutore/avversario di Mussolini, l’ex-socialista riformista seguace di Leonida Bissolati sempre rimasto devoto, al di là del cambio di casacca, al leader della destra socialista più radicale e decadale.
Vediamo. Il 9 ottobre 1923 Piero Gobetti pubblica su "la Rivoluzione Liberale" la prima puntata di un suo saggio recante un titolo che fa restare di sale -immaginiamo- i lettori abituati a una penna che ai fascisti non distribuisce «elogi», bensì scudisciate. Forse, pensano i lettori che si accingono a scorrere una prosa che ritengono, come al solito, sulfurea, il direttore intende dardeggiare di sarcasmi colui che, in una biografia che risale agli anni Settanta, i due autori socialisti Ugoberto Alfassio Grimaldi e Gherardo Bozzetti definiscono «il più fascista». E invece ...
Invece il giovane intellettuale torinese anche se non lancia cioccolatini e petali di rose verso il Signore in Nero della Città del Torrazzo suona ben altra musica. Tanto che i due succitati biografi così esternano in proposito: «In questa lotta tra il fascismo dal volto umano dei revisionisti e il fascismo dalla grinta degli intransigenti, curiosamente Piero Gobetti è con i secondi: un po’ sul serio, ed un po’ per il gusto del paradosso». Comprensibile che degli antifascisti desiderino mitigare la botta di questa inopinata alzata di ingegno dell’imprevedibile homme de plume, vero fondatore della cultura di una sinistra liberale estrema, ma in questo luogo della sua saggistica il Gobetti non fa «un po’ sul serio» ma sul serio. E il paradosso, se c’è, non scaturisce dalla sua penna, men che meno dal suo cervello, bensì dalle cose.
Secondo Piero il lider maximo di Cremona è uno di quegli uomini che «difendono delle posizioni personali illegittime, ma conquistate col sacrificio e coi muscoli, uno di quelli che dietro hanno dei giovani in buona fede». E soggiunge: «Noi dobbiamo rispettare in questa ignoranza e in questa barbarie un senso di dignità e una prova di sacrificio, mentre i Rocca e i teorici di Roma sono i soliti trasformisti italiani». Ancora: «I veri affaristi sono quelli che si godono gli stipendi a Roma fabbricando teorie. I veri affaristi sono gli intellettuali; non questi sani analfabeti che scrivono gli articoli sgrammaticati, ma sanno tenere la spada e il bastone in mano. Se un fascismo potrebbe avere per l’Italia una qualche utilità esso è il fascismo del manganello». E scusate se è poco.
Il 19 febbraio compare la seconda puntata del saggio. L’Autore insiste nella pulsione elogiativa in pro del sottoduce cremonese, definito «il tipo più completo e rispettabile che abbia espresso sinora il movimento fascista». Molto superiore «ai ciarlatani del revisionismo. Già il revisionismo è nato a Roma, all’Excelsior, confortato di ricche prebende, mentre i Ras rappresentano la provincia, si battono per esigenze concrete, si sacrificano come disperati, non si sono parlamentarizzati, sono rimasti barbari, sdegnosi di Capua e delle mollezze romane». Come è ovvio, qui il tortòre gobettiano si abbatte su Bottai e relativi bottaiani. E francamente, ciò non ci sembra giusto, perché il giovane uomo politico capitolino -sicuramente il migliore, il più raffinato cervello del fascismo, caposcuola e capostipite del revisionismo- combatte, soprattutto con la da lui fondata rivista "Critica Fascista", una sacrosanta battaglia per ripulire il partito e il suo braccio armato dalla gromma delle violenze, degli illegalismi, del razzismo, della incontrollabilità delle province, da sostituire con le idee, la cultura, il dibattito sdrammatizzato, i tentativi di trovare momenti di linguaggio comune con i diversi. Bottai significa la garanzia dell’innesto della cultura e della tolleranza nella durezza di una situazione che ogni giorno di più precipita verso esiti la cui somiglianza con la guerra civile rischia di venire in evidenza sempre meno come sensazione e sempre più come realtà effettuale e tragica. Possibile che un intellettuale di eccezione, dalla straordinaria sensibilità, dalla inconcussa passione per la libertà non se ne renda conto e fromboli con non preoccupata ma preoccupante insistenza proprio contro ciò che di meglio produce il Littorio?
Un’altra mazzata del Gobetti si abbatte sul sindacalismo mediante un paragone col Farinacci da cui sgorga una pesante delegittimazione etica e sociale degli organizzatori proletari passati dai ranghi del sindacal-rivoluzionarismo a quelli fascisti. Dunque secondo l’interlocutore liberale e compagno di lavoro di lotta di Antonio Gramsci, i patti di lavoro ispirati da Roberto Farinacci in quel di Cremona e provincia «sono i migliori vigenti oggi in Italia. Altro che sindacalismo di Rossoni e di Michelino Bianchi!». Insomma, il «Ras» del Regime per antonomasia è il naturale «nemico del prefetto» in quanto «rappresenta la rivoluzione, il principio dell’autogoverno, la sovranità popolare. Rendiamogli onore (sic! N.d.R.): lo spirito di Bissolati è in lui, almeno nei limiti in cui può esserlo in un fascista. È un discepolo onesto: non ha venduto Cristo per i trenta denari di un ministero dei lavori pubblici.» Che dire? Contrariamente a quanto si sono sforzati di far credere i suoi due già menzionati biografi il giovane costruttore di nuove piattaforme culturali liberali non adopera queste parole per fare dell’iperbole, del sarcasmo, della provocazione, bensì per esprimere un suo stato d’animo preciso; o, si vuole, per volutamente enfatizzare un risultato ottenuto in partibus infidelium relativamente alla sua inesausta battagliera predicazione avversa ad una Italia che, a causa dell’assenza nella sua storia di una Riforma protestante, altro non è, a suo giudizio, che vilissimo avvilente conglomerato di politici, politica e politicanti senza princìpi, dignità ,idealismi e coerenze. La sua ferrea determinazione di farsi, con gli strumenti materiali e intellettuali della polemica intransigente, collettore di tutte le energie rinnovatrici -ovunque e comunque collocate, magari anche all’interno dell’avversario fascista, purché connotate da altrettanta ferrigna volontà di non mollare nella lotta contro caste, gruppi, classi dirigenti vocate al trasformismo e al conformismo- lo aveva portato a intuire nel Farinacci, almeno in una certa fase dello scontro politico di allora, l’uomo che incarnava i valori di autenticità rivoluzionaria di efficienza di un sindacalismo onesto, di autogestione, di comando del popolo.
Sicuramente, però, il Gobetti è criticabile per non essere stato in grado di utilizzare questa sua intuizione, questa sua analisi, del «personaggio Farinacci» a livello di operatività, di creatività politica. Certo, egli un politico non era, e, pertanto, tale suo limite è scusabile. Non a tutti è dato di essere un Gramsci, ossia un intellettuale capace di trasformare la sua ricerca, la sua elaborazione, in azione squisitamente politica mediante il loro pieno, immediato, integrale coinvolgimento nella lotta politica e sociale.
In assenza di una iniziativa in tal senso della Sinistra -magari attraverso un qualche coinvolgimento del Gramsci nella intuizione gobettiana, sia pure con tutti gli accorgimenti e le cautele del caso- ci pensa il fascista intransigente Malaparte a mettere a frutto i distillati del cervello e della penna del direttore de "la Rivoluzione Liberale". Seguiamo il ragionare del pur evidentemente preoccupato di «denicotinizzare» i brani dell’«Elogio» oggettivamente idonei a mettere in buona luce, entro certi limiti e per certi versi il ruolo storico dell’ex-bissolatiano. Ecco: «Questa tesi gobettiana dell’autenticità del fascismo provinciale sarà, con gli opportuni adattamenti (e naturalmente con una valutazione di fondo rovesciata: la differenza che passa fra una valutazione antifascista ed una fascista), fatta propria dal decadale "Conquista dello Stato", nato dopo il delitto Matteotti. Il direttore Curzio Suckert (Malaparte) inquadra il problema delle due facce del fascismo nell’eterna antitesi tra Roma affaristica e filistea e lo provincie dall’anima «popolaresca e paesana, generosa e spregiudicata». Il fascismo «storico» è provinciale, quello «politico» di tendenza «liberaloide» è romano, e la salvezza sta nel primo. Così scrive Malaparte nel luglio del ’24, fornendo una piattaforma culturale alla concezione farinacciana (che due anni dopo, come vedremo, egli negherà): quella piattaforma di origine gobettiana, che invece Gobetti sta ora abbandonando».
Abbandonando -se è vero quanto scrivono i due preoccupatissimi biografi, più che mai timorosi di «legittimare», come oggi si dice addirittura il fascismo farinacciano con le stesse asseverazioni dell’antfascistissimo Gobetti- perché? Forse, la causa è da individuare nella inesistenza di strumenti e di «climi» idonei a consentire sbocchi politici alle geniali intuizioni di un validissimo ma isolato, intellettuale liberale tanto bene accetto dai gramsciani del movimento dei consigli di fabbrica (fra l’altro, Gobetti era titolare della rubrica di critica teatrale de "l’Ordine Nuovo"), quanto ripudiato dai vari settori del mondo liberale.

Enrico Landolfi

 

articolo precedente indice n° 33 articolo successivo