da "AURORA" n° 36 (Settembre 1996)

TRA STORIA E CRONACA

Quando la Resistenza imitava la R.S.I.

Giovanni Mariani

Che la Sinistra italiana abbia contribuito a conculcare fin dal '45 il processo di democratizzazione dell'economia iniziato dal governo della RSI è cosa storicamente accertata. Meno noto, invece, il tentativo posto in essere da consistenti frange della sinistra cattolica e socialista, di «scoppiazzare» la legge mussoliniana sulla Socializzazione delle Imprese con lo scopo di applicarla, purgata dei suoi contenuti più «pericolosamente» rivoluzionari, a guerra conclusa.
Del resto il confluire dei fascisti di sinistra nei partiti socialista e comunista nei primi anni del dopoguerra era caratterizzato dalla speranza di costoro di veder realizzati i propositi socializzatori espressi dal "Fronte Popolare".
Una speranza fallita miseramente dopo il '48, ma che fino a tutto il '47 aveva animato milioni di lavoratori. In ogni caso è bene ricordare che l'esperimento partecipativo di marca resistenziale e post-resistenziale pur essendo ricalcato, in molti dei suoi aspetti, sull'esperienza fascista repubblicana (e questo né i capi del movimento partigiano né i partiti della sinistra hanno mai voluto ammetterlo) era nutrito da esigenze sociali autentiche. La concezione partecipativa in economica, infatti, traeva la sua linfa vitale proprio dall'esperienza «comunitaria» della lotta partigiana e comunque appariva, alla parte politicamente meno sprovveduta, lo sviluppo conseguenziale e logico del metodo partecipativo dei Soviet e dei Consigli Operai già teorizzati da Antonio Gramsci, senza dimenticare il forte contributo, in questa direzione, delle frange troskiste e bordighiste le quali intravedevano nella «socializzazione» il solo rimedio al centralismo verticistico e burocratico dello stalinismo togliattiano.
I primi «vagiti» di partecipazionismo resistenziale sono rintracciabili nella sinistra cattolica, erede del Partito Popolare di Don Sturzo, e segnatamente nelle pagine di "Idee ricostruttive" stampate e diffuse nei giorni immediatamente seguenti il 25 luglio '43 e che erano una sorta di «summa» del pensiero sociale cristiano. In tale documento le similitudini col programma della RSI sono piuttosto evidenti. Recitava, infatti, il documento: «(...) Una seconda Camera a base professionale, espressione degli interessi organizzati ed eletta dalle associazioni di mestiere e sindacali (...)». In materia sindacale vi è un altro documento del 16 febbraio '44 denominato "Atti e Documenti" nel quale si propugna esplicitamente «la creazione di libere associazioni di lavoratori di tipo assistenziale e ricreativo», ricalcando in modo impressionate quelli che erano i presupposti sociali del Dopolavoro fascista.
Nella sostanza, il Partito Popolare clandestino, nel '43-'44 oscillava tra la restaurazione di un sistema corporativo (seppure mediato da esigenze di mercato), e una timida apertura alla socializzazione, imposta dalla promulgazione del Decreto sulla Socializzazione delle Imprese firmato da Benito Mussolini.
Ma le teorizzazioni partecipative auspicanti la soppressione del proletariato mediante la partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende, sono costrette a fare i conti col vecchio potere economico, sia finanziario che industriale, che intravede nel Partito Popolare lo strumento per ricreare il partito conservatore di massa e gli assegna, quindi, il ruolo che nel Ventennio fu del Partito Nazionale Fascista. La minoranza, o meglio l'ala sinistra dei popolari, che nel triennio '43-'45 sperava che i cattolici recitassero un ruolo preminente nella costruzione di un sistema economico all'insegna della socialità, è presto emarginata dall'ala tecnocratica che non intende assecondare lo sviluppo d'un progetto incardinato sulla partecipazione operaia (la coogestione non fu mai seriamente affrontata) e sulla economia aperta alle esperienze del piano programmato.
Ben diversa, invece, la posizione dei socialisti, in particolare di personaggi come Rodolfo Morganti e Lelio Basso, rispetto alle ipotesi di socializzazione dell'economia.
Nel partito socialista, più che in altri, la Socializzazione era considerata una logica evoluzione del pensiero socialista, piuttosto che un espediente per stare al passo con i tempi, come nel caso dei Popolari. Fin dal '37, infatti, erano apparse (ad esempio, sul saggio clandestino "Ricostruzione socialista") interessanti riflessioni sul superamento tanto della socialdemocrazia che del bolscevismo staliniano: «(...) Il nuovo socialismo deve dichiararsi strettamente libertario; è l'eredità gravosa del lungo periodo di lotta legale, lo stalinismo che ha spezzato le reni alla IIª e alla IIIª Internazionale; è tutta la critica marxista dello Stato e della burocrazia che è da riprendere e portare avanti (...)». Appare evidente che la critica mossa alla socialdemocrazia quanto al bolscevismo staliniano va di pari passo con le critiche nella stessa direzione dagli intellettuali della RSI, o meglio dalla componente (in quel frangente storico maggioritaria all'interno del Fascismo) socialista nazionale.
Le contiguità sinora elencate si fanno più marcate nell'elaborazione di una democrazia che «nasca dal basso». L'analisi morandiana, infatti, sia pure partendo da un fronte apparentemente opposto, giunge alle stesse conclusioni di quelle intraprese da uomini come Nicola Bombacci, Edmondo Cione, Ugo Manunta, Carlo Borsani, Giorgio Pini e via elencando. Ovvero: il concetto di partecipazione va esteso non solo alla «politica», ma anche, anzi soprattutto, alla economia, così richiamando, inconsapevolmente o coscientemente, il concetto di «democrazia economica» teorizzato da Benito Mussolini nel biennio 1919-'20.
Ma le critiche del Morandi alla prassi economica liberista ed a quella comunista sono all'acqua di rose se confrontate con quelle ben più vigorose e consistenti di un Lelio Basso che, dalle pagine di "Bandiera Rossa", accusò esplicitamente Palmiro Togliatti di aver operato la nota «svolta di Salerno» per ordine di Mosca: «L'unico atteggiamento logico di chi accetti tali presupposti: identificare l'interesse della rivoluzione con l'interesse dell'URSS, tradurre la lotta di classe in una lotta diplomatica tra Mosca e le capitali anglosassoni, ogni altra preoccupazione passa in seconda linea di fronte alla necessità di assicurare migliori posizioni per il gioco diplomatico sovietico e, poiché è chiaro che questo non può essere diretto che da Mosca, logica appunto ne discende la conseguenza che il Partito comunista debba trasformarsi in un docile strumento della volontà russa ...».
L'accusa di Basso alla politica togliattiana è suscitata dall'insabbiamento cosciente d'ogni possibilità di riforma in senso socialista che l'«Uomo di Mosca» ha sacrificato sull'altare del «compromesso storico», ante litteram, con cattolici e liberali, non avrà conseguenze tangibili.
Le stesse convinzioni sono espresse dal Morandi che sottolinea con vigore la diversità di atteggiamento, dopo gli avvenimenti del maggio '44, rispetto all'Unione sovietica tra il PSIUP e il PCI: «(...) Da qui la nostra costante convinzione che quando l'esistenza della Russia è minacciata, la classe lavoratrice deve subordinare tutto alla sua difesa. Ma questo criterio non implica un'aderenza permanente fra le esigenze proprie dell'Unione Sovietica, giunta alla fase conservatrice e la politica propria della classe lavoratrice nei paesi che debbono fare la rivoluzione».
Morandi allarga la critica al Partito comunista ed all'URSS sulla base del metodo democratico nella vita di partito, a suo avviso disintegrato spiritualmente dal centralismo democratico e dall'economia burocratizzata staliniana e rimarcando la necessità di salvaguardare la socialità dei mezzi di produzione. Basso e Morandi risultano, tra i socialisti, i più accaniti sostenitori della «democrazia economica» che andrebbe realizzata con «la creazione ed il potenziamento di quegli istituti e organismi denominati Consigli di Fabbrica, Cooperative ed il concorso della milizia popolare per l'autogoverno». Come abbiamo avuto modo di dire più sopra le pretese di instaurare la democrazia economica erano in contrasto con la volontà degli alleati capitalisti, soprattutto con quel capitalismo antifascista che non aveva certo combattuto il fascismo per lasciare campo libero al socialismo. Secondo Luigi Ganapini ("Documenti della Commissione economica del CLNAI"), con la nomina di Cesare Merzagora, notoriamente uomo del capitale finanziario ed industriale, alla presidenza della commissione economica del CLNAI inizia la reazione degli ambienti industriali e finanziari, già legati al vecchio regime, destinata a rimettere «le cose a posto»; facendo sì che le spinte a sinistra della Resistenza si esaurissero, lentamente ma inesorabilmente, strada facendo.
Questa strategia necessitava, innanzitutto, di imporre un tempestivo alt ad ogni riforma di tipo partecipativo ereditata dal Fascismo repubblicano (tipo, ad esempio, i Consigli di Gestione) ed era perciò necessario esasperare tutte le forme di antifascismo per eliminare nella Resistenza, piaccia o non piaccia, quelle componenti che intendevano difendere alcune leggi dell'ultimo Mussolini, delle quali avevano penetrato tutta la potenzialità rivoluzionaria. Del resto i gruppi di pressione capital-finanziari, «liberali» fino al '22, «fascisti» fino al '43 ed «antifascisti» dopo il '44 avevano le loro brave carte da giocare per mettere in sordina le velleità «socializzanti» della Resistenza. Il "Decreto per la difesa dei lavoratori", ad esempio, emanato dal CLNAI nel giugno '44, era conforme alla volontà degli industriali di annullare ogni decisione del Governo repubblicano in quell'ambito. E sebbene, in materia di disposizioni emergenziali, il testo raccogliesse le richieste dei lavoratori espresse attraverso i rappresentanti eletti con le norme stabilite dal decreto fascista repubblicano del '44, le stesse vennero presto annullate. Infatti, siccome la disposizione d'emergenza sopraccitata si richiamava, in non pochi punti, alla legge sulla Socializzazione questa fu presto cassata dal "Decreto per la difesa dei lavoratori" in quanto compatibile con il Fascismo! E sebbene, nel luglio dello stesso anno, il CLNAI tentasse con un colpo di coda di ristabilire la precedente situazione, chiedendo alle Commissioni Interne dei tipografi, redattori ed impiegati di assumere provvisoriamente la gestione della imprese editoriali, il dado era ormai stato tratto. In questo tentativo era sin troppo evidente la volontà dell'ala sinistra della Resistenza di ottenere un doppio risultato: frenare l'offensiva capitalista e rispondere polemicamente ai decreti socializzatori della Repubblica sociale.
Nella sostanza si può dire che se da un lato la Socializzazione risultava realmente utopistica, visto e considerato che non era neanche stata messa sulla carta e quindi falliva nel suo scopo primario di far da contraltare ai decreti di Mussolini operanti fin dal '44, dall'altro man mano che la Resistenza plagiava di pari passo le leggi fasciste incappava nella rigida censura dei centri di potere capitalisti che sostenevano finanziariamente la lotta partigiana non certo con lo scopo di trovarsi coi mezzi di produzione socializzati.
I Consigli di Gestione previsti dal Decreto del 17 aprile '45 non ebbero vita facile; basti pensare che nel corso dell'ultimo convegno del CLNAI fu impedito ai rappresentanti dei CLN aziendali di prendere la parola. Questi ultimi, che nelle intenzioni della "Commissione economica" del Comitato di Liberazione avrebbero dovuto tramutarsi in "Comitati di gestione" si trovarono di fronte a molte ostilità e non certo di sola parte capitalista. Basti considerare l'indifferenza del PCI, Togliatti in testa, i timori dei sindacalisti, che temevano di perdere parte di quel potere che andavano riacquistando e buon ultimo il Morandi stesso, che dei Consigli era stato l'ideatore, che non riteneva opportuno spingere oltre onde evitare una rottura all'interno della compagine del nuovo governo. Sostiene G. Manacorda, nel suo "Il socialismo nella storia d'Italia": «La funzione che era stata assegnata dal CLNAI ai Consigli di Gestione era tutt'altra che quella di organo di democrazia diretta e quindi economica, ma al contrario, essi erano uno strumento di controllo funzionale ad impedire che i Comitati di Liberazione aziendale si spingessero nel corso dell'insurrezione fino ad esperienze di gestione sociale delle imprese». Un intervento caldeggiato dagli Alleati e definito da Manacorda «teso ad evitare che il momento spontaneo della classe operaia trascendesse verso obiettivi socialisti ...». È evidente che lo stesso Manacorda preferisca additare la responsabilità alleata, volutamente tralasciando che i Consigli furono bloccati o tollerati a secondo della loro utilità stabilita dalle forze capitaliste sulle quali la Resistenza si appoggiava da tempo. Nella sostanza, e con buona pace di quanti ancora considerano il Fascismo mera reazione capitalista alle conquiste dei lavoratori, gli Alleati ed il grande capitale avevano fin da quegli anni tracciato le linee essenziali dell'organizzazione economica della «Repubblica nata dalla Resistenza».
Non per nulla le prime azioni del governo Parri consistettero proprio nel restauro totale del controllo padronale sulle aziende socializzate dalla RSI. E non è inutile richiamare alla mente la svalutazione della Lira del '47 e la conseguente sfrenata corsa nelle braccia del "Piano Marshall" e, di lì a qualche mese, del "Patto Atlantico".
Del resto fu lo stesso Togliatti a calarsi le mutande rivoluzionarie ed anti-capitaliste contribuendo a spegnere le fiammate socialiste delle rivendicazioni popolari durante tutto il dopoguerra. Ricordiamo qui un suo significativo intervento: «Se dicessimo oggi di volere un piano economico generale come convinzione per la ricostruzione, sono convinto che porremmo una rivendicazione che noi stessi non saremmo in grado di realizzare (...)». Ma il silenzio dell'«Uomo di Stalin» va ben oltre le sue parole; accettando di fatto che la sinistra (come oggi del resto) accettasse il liberismo come base economica futura del sistema occidentale. Un sistema che, del resto, non poteva non definirsi antifascista visto e considerato che contro il fascismo aveva mobilitato tutto il mobilitabile.
Palmiro Togliatti, il quella fase storica era convinto che il silenzio del Partito comunista di fronte ad una restaurazione capitalista poteva in qualche modo garantirgli la partecipazione al governo del Paese. Ma com'e noto le concessioni fatte dal «Migliore» allo stato maggiore del capitalismo (che agli occhi dei socialisti apparvero come un vero e proprio tradimento dello spirito della Resistenza) non ebbero alcuna controparte. Le sinistre vennero escluse dal governo fin dal maggio del '47 e la nascente Confindustria iniziò prontamente le pressioni sul governo per abolire il più rapidamente possibile i Consigli di Gestione, peraltro non ancora operanti. Le parole di Angelo Costa, rappresentante del padronato, alla Commissione Costituente, sgombrano il campo da ogni equivoco sulla opinione degli industriali rispetto ai Consigli di Gestione e di qualsivoglia economia partecipativa: «(...) c'è una cosa fondamentale: il principio di autorità; la funzione di controllo è lesiva del principio di autorità, perché è il superiore che controlla l'inferiore, mai l'inferiore che controlla il superiore». Di lì a qualche tempo ogni tentativo di partecipazione socializzata verrà liquidato con l'assenso della Sinistra egemonizzata dal partito di Togliatti.
Un tradimento che disilluderà molti, compresa la maggioranza dei fascisti di sinistra che dopo il '45 erano confluiti nel PCI sperando di attuare, con il suo concorso, ciò che non era riuscito all'ultimo fascismo. Del resto la «svolta di Salerno» andava ben al di là dell'accordo tattico e del compromesso contingente; era nella sostanza il «compromesso storico» che consacrava la Democrazia Cristiana al rango di rappresentante reale degli interessi economici. Questi erano i patti che Togliatti onorò fino in fondo e cioè fino al '47, nella speranza di conquistare un posto al sole nel futuro governo. 
Ma la controparte non si poneva questo problema anche perché gli Stati Uniti non potevano permettere l'ingresso dei comunisti nel governo stante l'assetto geo-politico che si andava strutturando nei primi anni della guerra fredda. Il «Migliore» mediterà a lungo sul suo fatale errore: la Sinistra non riuscì ad imporre nessuna delle riforme economiche propugnate dalla Resistenza, non andò al governo e dovette accontentarsi delle briciole consociative elargitele dal potere scudocrociato.
Fra il '48 e il '49 i Consigli di Gestione vennero definitivamente liquidati lasciando la loro flebile traccia nella Carta Costituzionale (art. 46, 47 e 99). Il resto è storia, o meglio storia della collaborazione col potere capitalista della sinistra italiana seppure attuata in modo alterno.
Dopo mezzo secolo i rapporti cambiano? Sicuramente i pavidi tentativi operati dai piloti dell'Alitalia (con gran sdegno delle «destre») non possono che farci piacere. Ma è bene ricordare che siamo ancora immensamente lontani da quello che noi intendiamo per partecipazione. Le forme fin qui raggiunte, infatti, si limitano a contemplare la partecipazione agli utili, ma non la partecipazione alla gestione e quindi al processo produttivo. Sono solo timide ed isolate riforme ben lontane da un serio tentativo di democratizzare l'economia.
In ogni caso qualora la Sinistra intenda muoversi in questa direzione non potrà che trovarci concordi.
Ma ciò non ci impedisce di ricordarle quali siano le sue responsabilità storiche: prima fra tutte quella di aver sabotato per ben due volte la socializzazione: nel '44 quella della RSI e nel triennio '46-'48 quella dei Consigli di Gestione.

Giovanni Mariani

 

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