Socialismo Nazionale e identità
F. M.
«Essere reazione rivoluzionaria costituisce il
carattere fondamentale del fascismo»
Ernst Nolte
«Che cosa sia la guerra (...), non lo sanno più
questi formidabili attivisti d'Europa, che non conoscono guerrieri ma soltanto soldati, e
che una guerricciola è bastata per terrorizzare e per far tornare alla rettorica
dell'umanitarismo e del patetismo, quando non -ancor peggio- a quella del nazionalismo
fanfarone e del dannunzianesimo»
J. Evola, 1928
Desidero dar seguito alle note di Carmelo
Santonocito e di Giovanni Mariani (cfr. "Aurora", nn. 35 e 36) con alcune
riflessioni aventi lo scopo di approfondire il discorso dei due amici e, possibilmente, di
stimolare altri interventi.
Le loro tesi sono in definitiva reciprocamente integrative, anche se Santonocito pone
l'accento sulla «mediterraneità» del nostro socialismo nazionale, mentre Mariani, con
maggior fedeltà al Programma di SN, sottolinea l'importanza di un più vasto contesto
geopolitico (il «blocco euro-asiatico» da Lisbona a Vladivostok).
A me sembra di poter rintracciare le origini della tesi di Santonocito nell'Evola di
"Imperialismo pagano", edito dalla Atanòr nel 1928 (cfr. l'edizione vibonense
del 1978 per conto delle Edizioni di Ar). Contro la «sporca scorza fatta di rettorica, di
sentimentalismi, di moralismi, di ipocrita religiosità, con cui l'Occidente ha oscurato e
umanizzato ogni cosa -afferma Evola- occorre dire basta, affinché (...) (su tutto ciò,
come una tempesta purificatrice) passi il soffio della tradizione mediterranea a ridestare
gli incatenati di Occidente» (cfr. op. cit., ed. vib., p. 14, corsivi evoliani).
Questa «tradizione mediterranea» culmina secondo Evola nella sintesi dell'«Imperium»
romano, nel ridestare la quale consisterebbe il solo mezzo efficace per opporsi alle forze
disgregatrici del mondo anglosassone e protestantico, epperò solo nella misura in cui
dall'«idea» corrente dell'«Imperium» venga espunto quanto è da ricondursi al
cristianesimo e alle peggiori sue componenti giudaiche, componenti che troverebbero nel
protestantesimo calvinista la loro più conseguente espressione, a fronte di un
cattolicesimo che pur sempre ha «conservato», anche se stravolgendolo nel genuino
significato, qualcosa dello spirito della romanità pagana: precisamente in ciò che il
cattolicesimo risultò essere una soluzione «di compromesso», da farsi risalire a
«Paolo di Tarsia», fra lo spirito della romanità e il cristianesimo primitivo,
caratterizzato, quest'ultimo, dall'«idea egualitaria, sovversiva e anti-gerarchica» che
si esprimerà poi nella democrazia moderna culminando nel bolscevismo.
Sarebbe di estremo interesse che l'amico Santonocito si esprimesse circa la possibilità
di interpretare evolianamente la sua concezione della «mediterraneità», perché bisogna
intendersi bene su cosa egli voglia dire quando, a ragione, sottolinea la «comunanza»
delle genti italiche, in ispecie meridionali, con coloro che per comodità e senza
sottintesi negativi, potremmo definire «levantini».
Ma se al contrario si volesse attribuire al termine «levantini» un'accezione riduttiva e
al limite, non senza fondati motivi, denigratoria, con allusione a quanto di «levantino»
vi è nella «napoletanità», allora la tesi di Mariani tornerebbe oltremodo opportuna a
sottolineare il significato etico sotteso dalla più vasta prospettiva geopolitica
affermata nel Programma di SN.
È perciò che -si diceva all'inizio- le tesi di Santonocito e di Mariani sono
complementari: lo sono perché non possono non esserlo senza imbattersi in un
inestricabile groviglio di contraddizioni, o quanto meno di assai inopportuni equivoci.
Ove si conceda di introdurre nel nostro discorso il riferimento critico all'Evola di
"Imperialismo pagano" (un libro «datato» ma non per questo «superato»), la
complementarietà delle tesi dei nostri amici va problematizzata nella misura in cui
investe la stessa nozione di socialismo nazionale.
Dico subito che non esito a condividere la tesi di Santonocito sulla «mediterraneità»,
a patto che però la si intenda alla maniera di Evola, e proprio dell'Evola di
"Imperialismo pagano", in quanto solo secondo questa accezione la
«mediterraneità» non si presta ad essere assimilabile a quella «napoletanità», fatta
di comportamenti «levantini», cui prima si accennava, ma anche a quella
«napoletanità» sentimentale, «cristiana» e «morbida», che impronta di sé la
«canzone napolitana» con le sue molteplici suggestioni psichiche scaturenti da un
abusato virtuosismo «mandolinistico», cui irride il testo evoliano con ironia quasi
sarcastica: una «napoletanità» affatto identica a una certa «italianità» deteriore
per cui tutti gli Italiani, dal Brennero all'estrema punta meridionale dell'isola di
Lampedusa, sono oggetto di scherno e derisione presso gli stranieri (ciò con buona pace
del sen. Bossi e della stessa Irene Pivetti, «federalista unitaria» e cattolicissima
«piccola pellegrina vandeana»).
Si incontra qui una questione scottante, anzi, per noi di SN, la questione scottante: può
Evola considerarsi un «socialista nazionale»? Vi è soltanto opposizione irriducibile
fra lui e Bombacci? Sembrerebbe esservi a tutti gli effetti, giacché Evola non aderì
alla RSI, sebbene non sia andato al Sud «col suo Re», ma invece in Germania dove un
Himmler lo sopportava «come il fumo negli occhi». A pesare come una pietra, vi è poi lo
sprezzante giudizio che Evola espresse sulla RSI come episodio «plebeo», però
riscattato dall'essere comunque testimonianza esemplare di «onore e fedeltà»: come
dire, secondo logica, che dei «plebei» capaci di tanto non sono plebei, ovvero lo sono
secondo un senso particolare, diverso da quello offensivo che immediatamente è dato di
percepire.
Se si considera spassionatamente che i comunisti non avevano del tutto torto di accusare
il fascismo «repubblichino» di populismo opportunistico perché troppo tardi (a torto o
a ragione) Mussolini aveva «riscoperto» le sue origini socialiste e rivoluzionarie, non
avendo dato durante il ventennio sufficiente spazio al «fascismo eretico» (ma ne aveva
dato ai pochissimi evoliani seguaci dell'«imperialismo pagano»?), allora il termine di
«plebeo» va inteso nello stesso senso in cui dei veri comunisti non si sarebbero
peritati di usarlo per stigmatizzare un rilassamento della tensione rivoluzionaria, senza
alcuna connotazione denotante «odio di classe», anzi con l'intenzione di affermare la
più alta espressione della «coscienza di classe». D'altra parte in Evola non esiste
alcuna pregiudiziale nei confronti dell'idea da cui nacque la legge sulla socializzazione
dell'economia; né bisogna dimenticare che nel '53, ne "Gli uomini e le rovine",
chiarì esaustivamente il suo pensiero al riguardo, limitandosi a segnalare
l'impossibilità pratica della partecipazione operaia alla gestione dell'azienda, per il
«carattere iniziatico» che essa gestione è venuta sempre più assumendo con la
crescente finanziarizzazione del capitale, impossibilità pratica del resto riconosciuta
molto presto dagli stessi Sovietici «e per loro fortuna». Per superare l'inconveniente,
Evola suggerisce di infondere nella vita dell'azienda qualcosa di molto simile allo
«spirito militare», per cui l'autorità del capo dell'azienda sarebbe riconosciuta non
solo in funzione della sua competenza, ma della sua dedizione incondizionata ad un'opera
che deve riuscire perfetta, per l'onore dell'azienda e nel superiore interesse della
nazione. Insomma, contro certe astrattezze tecnicistiche degli estensori della legge sulla
socializzazione, i quali non tenevano conto dei problemi concreti della moderna politica
industriale, Evola fa valere le intuizioni dello jüngeriano «Operaio» e una sorta di
suo personale «stakanovismo». Poiché il potere del capo dell'azienda è nel modello
evoliano limitato soltanto dal potere politico, come del resto si verificò nei regimi di
«socialismo reale», è innegabile che il modello evoliano non offre all'«operario»
poteri di «controllo» e di «partecipazione» dal basso. Ma è pur vero che essi
sarebbero in stridente contraddizione con lo «spirito militare»; sarebbero, in
definitiva, una contaminazione sostanzialmente anarco-individualista, travestita di
retorici paludamenti «democratici», del risorgente germe borghese.
Noi di SN, in una differente situazione storica, ci siamo pronunciati favorevolmente per
la costituzione di aziende cooperative di tipo proudhoniano, da crearsi con capitale
iniziale prestato a tasso agevolato dal pubblico erario. Dovremmo tuttavia avere ben
chiaro che queste cooperative devono essere organizzate secondo il modello evoliano, se si
vuole evitare che falliscano miseramente. Il capo dell'azienda deve essere eletto dal
basso, ma egli non può rispondere dei suoi atti che ad un'autorità sovraordinata,
costituita da una apposita magistratura degli affari economici. Ove il capo dell'azienda
ovvero gli stessi azionisti-operai si rendano responsabili di reati di appropriazione
indebita «et similia», la giurisdizione apparterrà in prima istanza alla magistratura
comune. Vorrei qui ricordare che in un altro articolo apparso su "Aurora",
sostenni l'opportunità di punire con una sorta di «servitù di stato» quegli azionisti
di cooperative che non siano in grado di restituire entro il termine stabilito il capitale
iniziale: e ciò, intendo qui chiarire, in quanto la moralizzazione della vita pubblica
deve passare attraverso la moralizzazione della vita economica, e quale che sia il destino
degli esperimenti di economia socializzata che si stanno tentando (si pensi alla Zanussi),
essi certamente sono un'occasione unica affinché la moralizzazione, se si può adoperare
questo termine, non appaia come effetto della «legge di mercato», ma di qualcosa di
diverso che con essa abbia a che fare il meno possibile.
Tornando a quello che a mio avviso è il vero significato che Evola attribuisce
all'aggettivo «plebeo» (di cui egli fa del resto un parco uso e mai adopera per indicare
gli umili e i veri diseredati), è da dire che se ne servì anche per stigmatizzare alcuni
aspetti populistici e «democratici» del nazionalsocialismo, nei quali individuò la
spuria componente cristiano-protestantica di una ideologia che, in quanto wagnerianamente
aspirava a resuscitare la paganità germanica, si presentava come «tradizionale», mentre
in effetti non avrebbe potuto esserlo compiutamente se non quando si fosse realmente
liberata di quella componente (di cui non riuscì a liberarsi lo stesso Wagner, e che anzi
finì col prendere il sopravvento in lui, determinando la famosa polemica di Nietzsche
contro l'inautenticità delle saghe nordiche e nibelungiche: non a caso in
"Imperialismo pagano" vi è un accenno alle «romanticherie» di Wagner e del
suo maestro Beethoven, nonché un relativamente lungo elogio di Nietzsche; e ricordiamoci
che il testo evoliano è del 1928).
Quanto testé rilevato riguarda la questione capitale di cosa effettivamente costituisca
la «nazione»: se essa coincida con la «razza» oppure no.
Sappiamo che Evola, appoggiato da Mussolini, sostenne una dura polemica contro Rosenberg e
il cosiddetto «razzismo biologico», facendo valere contro di esso l'argomento di una
superiore razza dello spirito. Su ciò non serve dilungarci. Vale piuttosto la pena di
mettere nella dovuta evidenza, tenendo presenti le tesi di "Imperialismo pagano"
e per comodità solo queste, quanto segue.
1) Le «messe in scena» wagneriane del nazionalsocialismo tese a ridestare il retaggio
del paganesimo germanico nella «coscienza popolare», avvengono per mezzo di una tecnica
della comunicazione di massa la quale, facendo leva su sentimenti irrazionali provenienti
dall'«inconscio collettivo», è già per questo semplice fatto intrisa di spirito
cristiano-protestantico, onde non si capisce come possa effettivamente risuscitare la
razionalità «ario-germanica» delle origini.
2) Questa tecnica, in realtà, non fa altro che sviluppare ulteriormente la razionalità
germanica moderna di tipo illuministico kantiano, donde scaturirà sia il romanticismo che
la scienza tedesca di ispirazione positivistica e neo-positivistica, l'uno e l'altra,
secondo Evola, prodotti della «civiltà cristiana», ossia della sostanziale
irrazionalità del cristianesimo.
3) Il «razzismo biologico» e la connessa teoria della superiorità della «razza
ariana» (che richiama paradossalmente quella giudaica del «popolo eletto» nonché la
sua riproposizione sionistica ottocentesca), ha un fondamento «scientifico» in quanto, a
monte, ha un fondamento giudaico-cristiano.
Atteso quanto precede, il termine «plebeo» nella sua accezione più propria e negativa,
si attaglia per Evola al «razzismo biologico»; anzi, ad essere più precisi, al
nazionalsocialismo in quanto portatore di una contraddizione di fondo fra la sua
«vocazione» neo-pagana e il suo indistruttibile legame col protestantesimo, che essendo
un moderno «cristianesimo primitivo», è tanto più corrotto e pernicioso del
cattolicesimo (il che è sufficiente a chiarire i motivi dell'ostilità che Evola
incontrava in certi ambienti nazional-socialisti, e perché un Himmler lo accusasse di
essere «in fondo un cristiano», nel senso di «cattolico e papista» (!!!).
Allora, per esprimerci in estrema sintesi, la questione se Evola possa o non possa
considerarsi un socialista nazionale sembra propendere per l'affermativa, e proprio nel
senso in cui noi tutti intendiamo il socialismo nazionale, come alcunché di diverso sia
dal nazionalismo che, «a fortiori», dal nazionalsocialismo. Sul carattere «plebeo»
del nazionalsocialismo in ordine al «razzismo biologico» e alla sua matrice
giudaico-cristiana, le idee si sono chiarite a sufficienza. Non lo stesso in ordine al
nazionalismo, in specie a certo «nazionalismo» cattolico di ieri e di oggi.
In"Appendice polemica sugli attacchi di parte guelfa all'imperialismo pagano",
Evola risponde al senatore Filippo Crispolti (per molti versi anticipatore delle
argomentazioni del democristiano, già «fascista», Amintore Fanfani), il quale gli aveva
domandato: «Quella volontà d'impero, che voi date come carattere fondamentale del
fascismo, che cosa vuole (secondo voi) in sostanza? Impero su chi? Sulle terre e sulle
genti ove l'Italia ha diritto (sic) e modo di espandersi pacificamente (sic), oppure alla
romana (sic), su tutto il mondo conosciuto?». Nella risposta, Evola non solo respinge
l'implicita accusa di essere un «guerrafondaio», ma, contro la concezione del
«pacifismo cristiano», esalta la pace che è «il fiore della guerra, di una conquista
(essenzialmente spirituale) che dà luogo ad assoluta unificazione e ad assoluta
organizzazione, come secondo la pax profunda di Roma, esaltata da Virgilio come
colei che corse il mondo per dettar legge di pace ai vinti e morte alle superbe genti
-quella pace (oggi) contaminata di internazionalismo anti-romano, di diritto, di
associazionismo, imbelle utopia della protestante Società delle Nazioni». Dopo di che,
Evola denunzia la volpina astuzia e le inconfessabili brame del «nazionalismo»
cattolico, insieme «pacifista» e «fascista», stigmatizzando il «pallido fantasma del
diritto (...) (e la) risibile espansione pacifica, coloniale o migratoria» con cui il
senatore Crispolti, da buon cattolico, ha preteso di chiosare il virgiliano «parcere
subiectis, debellare superbos» (cfr. op. cit., pp. 143-144).
Tradotto in termini attuali, ciò significa la decisa affermazione di una idea insieme
nazionale e sovranazionale che unifichi tutte le etnie, in funzione della quale le etnie
diventino anzitutto popoli, e poi, in quanto consapevoli della propria identità, «una
gens», come dice Virgilio alludendo ad una unità non promiscua, ma ad una sorta di
nobile identità «parentale» per cui, pur non escludendosi conflitti di non lieve
entità, li si possa tuttavia affrontare e superare nel reciproco rispetto, senza che le
motivazioni bassamente economiche e materiali finiscano con l'avere il sopravvento
degradando i popoli alla condizione «originaria» della «lotta di tutti contro tutti».
Questa idea è per Evola il prodotto più alto della «razza dello spirito», di una sorta
di «patria celeste» che non pre-esiste alla «storia» e nemmeno ne è il meccanico
prodotto. Essa nasce dalla semplice volontà di alcuni uomini e dalla loro capacità di
tradurla in realtà. Questi uomini possono appartenere ad etnie diverse, parlare lingue
diverse, appartenere in definitiva a «culture» diverse. Ma quando essi vengono
«posseduti» da quest'idea, cessa ogni differenza e subentra un'assoluta identità. Non
però quella di tipo «fraterno», egualitaria e cristiana, ma quella che conoscono i
combattenti, e tanto più la conoscono quanto più si combattono per fare prevalere la
propria super-individuale concezione della giustizia.
Non può dirsi, quindi, che Evola sia «nazionalista». Non lo è, si è visto, nel senso
del «nazionalismo» dei cattolico-popolari. Ma non lo è nemmeno nel senso «laico» del
nazionalismo risorgimentale e post-risorgimentale, come in "Imperialismo pagano"
si chiarisce nel paragrafo dedicato alla critica del mazzinianesimo, dove si denunziano i
forti residui di «cristianesimo primitivo», nella versione giansenistica, della formula
pseudo-immanentista del binomio «Dio e Popolo», onde il mazzinianesimo presenta analogie
anche profonde col nazionalismo germanico di matrice fichtiana, nazionalismo che poi
andrà a costituire il lato «anti-tradizionale» e propriamente «plebeo» (cioè
inautentico) tanto del nazionalsocialismo quanto di quel fascismo italiano che già nel
1928 Evola giudicava una «rivoluzione fallita», quasi preconizzando le ragioni delle
«tardive» realizzazioni del fascismo repubblicano e del loro successo «a metà» se non
proprio fallimento.
Nella visione evoliana, così, l'idea di «nazione» non è identificabile con quella di
«tradizione», variamente intesa anche nei suoi addentellati con la vera «Tradizione
primordiale», per lo stesso motivo per cui non è identificabile con l'etnia, anche
«culturalmente» intesa, e con la «razza»; non lo è se questa identificazione è
concepita come un dato a priori, inconsapevolmente agente, e non invece come una conquista
della volontà umana e della umana ragione. Inoltre, la nazione non è nemmeno
identificabile con lo «Stato», se lo stato lo si considera nei suoi aspetti eteronomi di
«imposizione di un dato sistema giuridico», o, peggio, in relazione agli automatismi
della burocrazia.
Ma a ben guardare e in definitiva, la nazione si qualifica nel suo «essere necessario»,
in ordine a un'accezione metafisica assoluta e assolutamente rigorosa, ove la si consideri
e solo se la si consideri in opposizione dialetticamente costruttiva con l'idea
sovranazionale dell'«Imperium». Il quale «Imperium», nel sistema evoliano, ha la
stessa funzione, ma non lo stesso significato, che ha l'«Internazionale» nel sistema
marxista-leninista. Questa ha di fatto sacrificato le nazioni e la stessa nazione egemone
russa a un ideale astratto di «umanità», eguagliata in nome di generici «bisogni
umani» che sono gli stessi riconosciuti dal capitalismo e dalla «cultura» moderna e
contemporanea; quello, sull'esempio dell'Impero Romano, dovrebbe creare una «più
grande» nazione senza distruggere le singole entità nazionali, che non sono «etnie» ma
«nazioni» proprio in quanto si rapportano all'idea vivente della «più grande» nazione
incarnata dall'«Imperator-Pontifex».
A me sembra che, se la concezione della nazione e del socialismo nazionale propria al
nostro Movimento e deducibile dal suo Programma, non è proprio identica a quella
evoliana, è tuttavia ad essa molto, molto vicina, che, anzi, sarebbe auspicabile che
tendesse a coincidervi il più possibile.
Invito i nostri Collaboratori e i nostri Lettori ad esprimersi al riguardo, in relazione
alle considerazioni seguenti che riguardano questioni politiche essenziali e non argomenti
meramente accademici.
1) Il «socialismo nazionale» non è da intendersi come un palliativo finalizzato ad
impedire la regressione alla componente etnica primitiva di un popolo, come un socialismo
«miniaturizzato» a fronte di quello «internazionalista proletario» resosi
impraticabile dopo il crollo dell'Unione Sovietica, che certamente si presentò in qualche
misura quale erede dell'«Imperium» tradizionale nella sua funzione di contrasto del
capitalismo e dell'«anti-Imperium» statunitense.
2) Questa concezione «miniaturizzata» del socialismo nazionale, fatta propria
sostanzialmente dal PDS e dallo stesso partito della Rifondazione comunista nonostante i
suoi reiterati appelli al «retaggio rivoluzionario» marxista-leninista o piuttosto alla
sua parodia più smaccatamente «populista» e «libertaria», disposta ad accettare il
principio della «competizione» fra nazioni secondo i criteri economicistici della
«ferrea logica di mercato» che sembra prevalere nella fase storica attuale; ed è
disposta ad accettarlo quasi come un «dovere patriottico», né più né meno di come la
«suo malgrado» Alleanza Nazionale; e apertamente e assai più coerentemente, anche se
rozzamente, Forza Italia.
3) Il nostro socialismo nazionale, in quanto sostituisce all'«internazionalismo
proletario» l'idea dell'«Imperium» romano con ciò che vi è connesso in termini
socializzatori e partecipativi «ab ovo» (nel pensiero e nell'azione del «dictator»
Caio Giulio Cesare) mentre da un lato respinge drasticamente la «necessità della
competizione economica fra le nazioni», dall'altro si assume tutte le responsabilità di
scelte contraddittorie -anche contraddittorie nella maniera più stridente- rispetto al
principio enunciato, ove ciò si renda necessario, come nell'attuale frangente storico,
per difendere gli interessi economici del Paese, dopo aver sottolineato la condizione
primaria per questa difesa, consistente nella difesa ad ogni costo dell'unità nazionale.
In questo senso va interpretato il nostro voto allo schieramento dell'Ulivo ovvero al
Partito della Rifondazione comunista, che tanto scandalo ha suscitato. Ma poco e anzi per
nulla ci si dovrebbe scandalizzare qualora si considerasse obiettivamente e con serenità
di giudizio il nostro riferimento prioritario all'«Imperium». L'Onorevole Bertinotti non
può «rifondare» l'«internazionalismo proletario» se non con un penoso rimando al
solidarismo del cristianesimo (penosissimo rimando per un «vero comunista»). Noi,
invece, facciamo riferimento all'«Imperium», a un ben più serio «internazionalismo»
in nome del quale, soli ormai, pensiamo veramente alla possibilità che l'Italia esca
dalla NATO, al momento opportuno, per mettersi alla testa di tutti i popoli oppressi dalla
più immonda delle tirannidi che la storia abbia mai conosciuto, quella esercitata dalla
finanza internazionale. Se qualcuno a questo punto dovrebbe scandalizzarsi, non sono certo
gli appartenenti alla nostra «area di provenienza», ma invece i comunisti che noi
abbiamo votato! Ma questi non si scandalizzano affatto, e non certo per semplice
machiavellismo, vogliamo credere. Sia l'Onorevole Bertinotti che l'Onorevole D'Alema sanno
bene che sulla questione dell'«internazionalismo proletario» (questione di politica
estera fondamentale per le sue ricadute in politica interna), abbiamo ragione noi e torto
loro. Ciò era molto controverso o almeno dubbio nel '14. Ma oggi è dimostrato che aveva
ragione Mussolini e torto Lenin.
E vale qui la pena riportare un passo assai significativo, la cui lettura non
raccomandiamo a Bertinotti e a D'Alema, ma all'Onorevole Fini e a quanti scandalizzati
inorridiscono. Il brano è tratto da "Il Fascismo e la sua epoca" di Ernst
Nolte. Eccolo:
«Il fascismo è anti-marxismo che tenta di distruggere l'avversario mediante
l'elaborazione di una ideologia radicalmente contrapposta eppure limitrofa, e l'impiego di
metodi quasi identici eppure dalle caratteristiche proprie, sempre però nei limiti
insuperabili dell'auto-affermazione e dell'autonomia nazionali. Questa definizione
implica: che, senza marxismo, non si dà fascismo; che il fascismo è, in pari tempo, più
lontano e più vicino al comunismo di quanto lo sia l'anti-comunismo di marca liberale»,
e «cristiano-conservatrice», aggiunge il Nolte più avanti, citando l'opposizione
militante delle Chiese al fascismo e l'attentato a Hitler del '44; su ciò in particolare
rifletta l'Onorevole Bertinotti, che, nelle conclusioni del recente Congresso del Partito,
ha incautamente richiamato l'«esemplarità» di uomini come La Pira e Mattei. È proprio
il caso di rilevare certi fatti? Sì, quando degli uomini di valore scadono nella bassa
demagogia, e vi scadono perché, secondo loro, non vi sarebbe altro da fare. Né è un
caso che a simili «cedimenti» del capo di Rifondazione comunista in direzione del
«cattolicesimo romano» si accompagnino quelli del cosiddetto «papa reazionario» nei
confronti della illuministica «scienza sperimentale» e degli «immortali princìpi»
della Rivoluzione francese, in quanto affermazione del liberalismo politico ma non anche
del comunismo «iniziatico» di Babeuf e Filippo Buonarroti, nonché di quella Carboneria
che, se ancora esistesse, ancora sarebbe scomunicata e fieramente ostracizzata dal
Vaticano, come non avviene più per la Massoneria e, sembrerebbe, per il «comunismo
italiano», «damnabis sed non damnandus».
Il che è la più inconfutabile conferma delle tesi autenticamente rivoluzionarie e delle
«profezie» enunciate nel '28 da Evola in "Imperialismo pagano": cattolicesimo
«romano» e comunismo si riconciliano e si inginocchiano davanti a «mammona», al potere
della finanza internazionale, dopo la sconfitta storica del fascismo, del fascismo come
«rivoluzione fallita» e per meglio dire tradita.
«Tradita», chiariamolo immediatamente, non dagli uomini, ma da alcunché che, in formula
mitopoietica, può essere identificato con un «oscuro destino»; per dirla in termini
«scientifici», con quel «principio di inerzia», con quella sostanziale «negatività»
che agisce meccanicamente e regressivamente all'interno della «storia», ove gli uomini
rinuncino a signoreggiarla (a urtarla e bastonarla come si deve con la femmina, per dirla
alla maniera del Machiavelli). Vale qui la pena di ricordare ai nostri amici sinistrorsi,
interni ed esterni al nostro partito, che questa concezione della storia «negativa»,
naturalmente involutiva anziché «progressiva», fu sostenuta, assai prima che dal
Guénon e da Evola, da Gian Giacomo Rousseau a partire dal "Discorso sulle scienze e
le arti" fino al più noto "Contratto sociale" e oltre. E il Rousseau non
può in alcun modo essere ritenuto un «destrorso» per chiunque abbia un minimo di
conoscenza della storia della filosofia in generale, e in particolare della storia del
socialismo e del marxismo-leninismo. Per meglio chiarire il mio pensiero (mio solo in
un'accezione molto particolare), è da aggiungere che l'«oscuro destino» che ha
vanificato l'opera del fascismo in direzione della «rivoluzione restauratrice», è
quello che incombe su tutta quanta l'«età oscura» che, iniziata in Occidente più o
meno nell'epoca in cui visse Platone, volge ormai al termine. Ma l'«età oscura» ha
conosciuto diversi periodi in cui la sua linea di tendenza è stato possibile correggere
grazie all'opera energica degli uomini, ultimo dei quali è proprio quello rappresentato
dal punto nodale in cui, dalla crisi dell'imperialismo «fase suprema del capitalismo» si
sviluppano quasi contemporaneamente, e non solo nel senso della cronologia, la Rivoluzione
d'Ottobre e la Rivoluzione fascista.
Dunque, nessuna concezione fatalistica qui si propone. Non solo io non credo che il
marxismo-leninismo abbia esaurito il suo «compito storico» nel bene e più ancora nel
male (atteso il suo «slittare» in Occidente, assieme al cristianesimo, verso le
posizioni del «capitalismo vittorioso»), non credo, a fortiori, che lo abbia esaurito lo
«sconfitto fascismo», e sulla base di dati di fatto talmente scontati che non è il caso
di enumerare. Questi «fatti», però, quand'anche non esistessero, non possono essere una
«ragion sufficiente» per desistere dall'obbligo etico di mantenersi «in piedi fra le
rovine» e per continuare a «urtare e battere» la storia. Ciò esula, ovviamente, dalla
concezione utilitaristica della politica che è propria al liberalismo come al comunismo e
al cristianesimo «secolarizzato» (ammesso che ve ne sia mai stato uno «non
secolarizzato»). In ciò, in questa «follia», la netta linea di demarcazione che
distingue l'«ur-fascista» -per dirla con Umberto Eco- dall'uomo «di sinistra», anzi
dall'uomo «tout court».
Ciò deve essere ben chiaro. Non dico che se ne debba menar vanto alla maniera dei
fascisti sciocchi e «domenicali». Ma certamente che non bisogna nasconderlo e
vergognarsene. È proprio questo aspetto del «temperamento autenticamente fascista»,
ciò che -come osserva molto giustamente il Nolte- attira, sul fascista, sconfinato odio
quanto sconfinata simpatia e anzi amore. In questo senso, il «fascista autentico» non
può essere mai un plebeo, ma non per questo spregia il «popolo» e «si apparta». Egli
non conosce quel «distacco aristocratico» che in effetti nasce dalla paura della massa.
Egli, tuttavia, non deve «cercare di piacere» ad ogni costo.
Traendo le conclusioni di tutto questo discorso, dobbiamo dire che esso tocca due
questioni cruciali che circolano abbastanza scopertamente fra le pagine di
"Aurora", con maggiore chiarezza specie negli ultimi numeri. Si tratta delle
questioni, strettamente correlate, dell'esoterismo e del significato della formula
partecipazione dal basso.
Sull'argomento, che in questo articolo mi sono limitato a introdurre nei suoi aspetti
soprattutto «scientifici e politici», intendo ritornare più dettagliatamente in
seguito, attraverso una ricognizione puntuale storica e filosofica.
Per ora, bastino le seguenti enunciazioni di carattere generale.
1) Contro la moda esoterica, segno dei tempi della suprema decadenza (si ebbe qualcosa di
molto simile agli inizi dell'era volgare e che penetrò in profondità e indelebilmente
nel «cristianesimo delle origini»), valgano le osservazioni e conclusioni del mio
"Epifanie del Sacro" ("Aurora", Aprile '94).
Aggiungo, adesso, che per me l'esoterismo inerisce alla dimensione «noumenica» della
Volontà di Potenza; una dimensione che è conoscibile sperimentalmente, tuttavia in un
senso che ingloba e non esclude aprioristicamente la cosiddetta «scienza profana»,
epperò in un senso integralmente e dichiaratamente politico (come indicato appunto da
Evola, di cui tutti parlano, a destra e a sinistra, ma senza essersi data la pena di
leggere scevri da pregiudizi «teologici») (1).
Contro la fisima «democratica» della partecipazione dal basso (intesa anche come
«controllo dal basso» dell'operare dei governanti, e garanzia del continuo ricambio
della classe politica dirigente al fine che essa sia sempre della migliore qualità
indipendentemente, dal ceto di provenienza), è necessario opporre con la massima energia
la concezione aristocratica della «partecipazione dal basso» quale si trova nel
«socialismo militare» di Carlo Pisacane, nel «Sindacalismo rivoluzionario» di George
Sorel, nel «legionarismo» fascista, nell'«eroismo sovietico». Deve essere chiaro che,
per quanto ciò possa risultare «inattuale», ogni altra soluzione sarebbe un gravissimo
cedimento sui princìpi, inammissibile per chi, come noi di SN, non ha mire politiche
bassamente immediate, ma si presenta come un movimento assolutamente indipendente e
disinteressato, preoccupato solo di operare per la verità, dunque per il vero bene della
nazione italiana, e non solo di questa. Noi dobbiamo rifiutarci a qualsiasi enfatizzazione
del «popolo», sia nel senso del «nazionalismo» che nel senso dell'«internazionalismo
proletario», ambedue le concezioni concordi, non a caso, nel celebrare la presunta
«funzione storico-provvidenziale» del popolo; e alla maniera falsa e ipocrita, prima che
profondamente sovvertitrice dell'ordine proprio della realtà, che caratterizza il
«cristianesimo primitivo», che si ripropone nell'età moderna col protestantesimo, che
si sta attualmente impadronendo sempre più dello stesso «cattolicesimo romano».
F. M.
Note:
(1) Pare esservi contraddizione nel sostenere che
il fascismo è stato una rivoluzione «tradita» non dagli uomini ma dalla tendenza
involutiva operante nell'«età oscura» globalmente considerata, cui gli uomini non hanno
saputo opporre una decisiva azione di contrasto (che il Nolte intende come «reazione
rivoluzionaria» del fascismo, ed Evola, con riferimento al significato astronomico di
«rivoluzione» (ritorno normale alle origini del moto di un pianeta), come «rivoluzione
restauratrice»). Ma, in realtà, la contraddizione cessa di esistere ove, superato
l'orizzonte del puro e semplice volontarismo di un Nietzsche e di un Gramsci, si consideri
che la volontà, degli «individui» come delle «classi», non è onnipotente. L'unico
modo in cui la volontà possa ragionevolmente ritenersi onnipotente, è quello per cui
essa è onnipotente su se stessa, non fuori di se stessa. Come presso gli Stoici, per i
quali, se non si possono esaudire i nostri desideri, si può tuttavia, e dunque si deve,
eliminarli. Qui si trapassa dal «volontarismo» all'«esoterismo» rettamente inteso,
presente in un certo qual senso perfino in Marx, quando egli parla di una possibilità di
«reintegrazione dell'essere alienato dell'uomo», sebbene Marx, vittima dell'ottusità
materialistica e scientistica dei moderni, è totalmente fuori dalla possibilità di
ragionare come uno Stoico (per lui, la filosofia stoica è solo un fenomeno storico
particolare dell'«alienazione economica»).
Dunque, quando qui si parla di «esoterismo» non lo si intende in maniera accettabile per
la mentalità dell'uomo contemporaneo. La nostra citazione di Marx non è un atto di
piaggeria nei confronti della cultura «di sinistra». Aggiungiamo che l'«esoterismo» di
cui si tratta non è paragonabile nemmeno, e a fortiori, a quello prospettato da Jung, che
è un mero psichismo «culturizzato». Noi ci riferiamo all'«esoterismo» di un Heidegger
(oggetto dell'ultimo lavoro del Nolte), ma soprattutto all'«esoterismo» di Junger ed
Evola, consistente in una estensione al dominio dell'io cosciente (non alla regione infera
dell'inconscio) del metodo sperimentale puro, che si distingue da quello «scientifico»
moderno perché intenzionalmente non solo non si presta a strumentalizzazioni
«tecnologiche» da parte del potere capitalistico, ma perché ad esso è irriducibilmente
avverso, e se comporta una sua propria «tecnologia», è questa la tecnologia della
distruzione del capitalismo «a profundis». Il che è inconcepibile per il
marxismo-leninismo come per il marxismo nel suo insieme, i quali non possono andare oltre
la pura e semplice «socializzazione del capitalismo», non possono nemmeno lontanamente
immaginare una libertà che stia contemporaneamente entro e fuori, al di là e al di sopra
della materia. E perciò stesso, quando i marxisti parlano di «rivoluzione» non sanno
quel che dicono, non si accorgono di dire la medesima cosa che andavano ai loro tempi
dicendo i «cristiani primitivi», coloro che i marxisti dovrebbero aver superato di mille
lunghezze, essendo i marxisti l'espressione più alta, del progresso del genere umano, a
loro detta. E, tutto sommato, è da dire che i «cristiani primitivi», nella loro
irragionevole e cieca fede nell'«altro mondo», erano più ragionevoli dei marxisti,
perché essi almeno credevano in un «al di là», in cui questi ultimi non possono
credere proprio perché si reputano «evoluti». Il «risentimento» dei primi cristiani
era in qualche modo «sublimato», capace di darsi una regola e quanto meno di riceverla
«dall'alto». Siamo troppo cattivi, nel formulare la possibilità -dico solo la
possibilità- che nei marxisti, specie in quelli «metodologici», vi sia ormai soltanto,
ovvero tenda fortemente a svilupparsi il «risentimento» allo stato «puro» e cioè più
grezzo, ciò che è, anche, quel che Tacito pone accanto alla «brama del potere per il
potere»: la «libido adsentandi», una disposizione di «spirito» per cui si ha piacere
nell'esser servi, indipendentemente dai cospicui compensi materiali che la servitù
garantisce, specie quando non si servono tanto degli uomini, quanto piuttosto l'«ente
astratto» del denaro? In ciò, la sofferenza psichica di un marxista, che come
intellettuale è sempre un borghese, è persino superiore a quella di cui è affetto il
borghese visceralmente e ottusamente anti-comunista.
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