Nazione oggi
Agos Presciuttini
«Il bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe»
Petrarca
«Una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di
cor»
A. Manzoni
Cinque secoli separano Petrarca e Manzoni, eppure le visioni rispettive della nazione
Italia si integrano perfettamente, come se le avesse delineate uno stesso poeta. Del resto
il loro sentimento aveva avuto un grande interprete già molto prima (Virgilio: «Magna
parens frugum, magna virum») ed è stato riconfermato dopo (Carducci: «Madre di biade e
viti e leggi eterne ed inclite arti»). Nel corso dei citati cinque secoli la nazione
crebbe e compì grandi opere, soprattutto creando e diffondendo il Rinascimento. Però,
diversamente da altre nazioni europee, non potè produrre un attivo movimento di
unificazione e indipendenza. Per cui l'Italia non ha poi partecipato come tale alla
diffusione in tutto il mondo della civiltà occidentale, pur tanto legata al dantesco
«bel paese dove il si suona».
Di cantori della nazione paragonabili a quelli ricordati, oggi nemmeno l'ombra. C'è anzi
da rilevare che è più facile individuare cultori di tendenze opposte. Ciò non vuol dire
però che la gente comune manchi irrimediabilmente di coscienza nazionale. È possibile
che la covi inconsapevolmente allo stato potenziale, sotto la montagna di brutture che il
secolo morente ha accumulato fin dalla guerra civile subordinata a quella mondiale, fin
dalla guerra fredda tra semi-Italia filo-occidentale e semi-Italia filo-sovietica. Eppoi
contestazione globale e terrorismo sanguinario, diffusione della droga e della
criminalità organizzata, illegalità tangentizia ed enormità del debito pubblico. Che
costringe lo Stato a bruciare per gli interessi duecentomila miliardi all'anno (pensare
che Italia saremmo se l'erario fosse invece libero di investire tanto denaro in
infrastrutture, servizi pubblici, competitività produttiva, viabilità urbana).
Moventi di clandestinità o letargo dell'orgoglio nazionale ce ne sono dunque fin troppi.
Non sorprendono e non scandalizzano perciò le opinioni che sembrano trovare conforto o
ripiego nelle prospettive o speranze di unione politico-amministrativa dell'Europa,
nonché appigli universalistici nella crescente mondializzazione dei rapporti economici.
Prospettive e appigli che secondo gli a-nazionali (o anti) renderebbero superato lo
Stato-nazione e inutili ormai i legami relativi.
Per la verità il sentire nazionale non deriva da scelte coscienti e calcoli
utilitaristici. Procede piuttosto dall'attaccamento istintivo alla complessa realtà che
ci ha fatto come siamo fatti. Della quale facciamo parte ciascuno con la propria identità
personale (e relativo amor proprio) irripetibile quanto si vuole, eppure compresa
nell'identità collettiva. Questa può apparire fittizia o virtuale, ma non sono pochi o
banali gli elementi che la rendono inconfondibile, a cominciare dalla lingua. Ci accomuna
persino la biologia: una persona non è affatto, come tanti sembrano pensare, il rampollo
di una precisa e unica linea di discendenza, magari iniziata da un importante
«capostipite». Questa apparenza ha evidentemente origine nella persistenza attraverso le
generazioni del solo cognome paterno. Ma in realtà di linee e cognomi contiamo i due dei
genitori, i quattro dei nonni, gli otto dei bisnonni, i sedici dei rispettivi genitori, i
trentadue dei nonni dei bisnonni... e così via raddoppiando, fino ai numeri milionari
della ventesima generazione a ritroso; e oltre.
Il numero effettivo dei progenitori di singole persone e ovviamente costretto entro le
dimensioni della popolazione di origine; e si concentra attraverso la fusione di più
linee, dovuta ai matrimoni tra parenti più o meno lontani. Ma la quantità degli antenati
è ugualmente molto elevata, fino a comprendere forse l'intera popolazione di epoche
sufficientemente remote. Il che renderebbe gli avi individuali praticamente ascendenti di
tutti gli odierni connazionali. Insomma il nostro «sangue» (o meglio il patrimonio
genetico personale) è formato di elementi provenienti dalla nazione del passato. Per cui
siamo alla fin fine tutti quanti un po' parenti (forse è per questo che sembriamo andare
mica tanto d'accordo).
D'altra parte il sentimento-coscienza-amor proprio nazionale è materia di uso quotidiano,
come il vitto e il letto. Si rende infatti visibile ed operante specie o soltanto in
presenza di allarmi diffusi o in occasione di confronti internazionali, anche niente più
che sportivi. Al di fuori di questi casi può far capolino nell'animo di chi viaggia o
vive all'estero. Sembra in ogni modo evidente che se e quando entreremo in un'Europa del
tutto unificata, saremo pur sempre il componente Italia della federazione o confederazione
che sarà, esattamente come Francia, Germania e ogni altra nazione partecipante. Ciascuna
recandovi i segni e i contributi della propria e non d'altra fisionomia economica e
culturale, demografica e spirituale, storica e giuridica, eccetera. A quel punto chissà
che genere di considerazione e rispetto nutrirebbero le popolazioni federate, per quelle
tra di loro che mostrassero di non averne per sé medesime.
A parte ciò il sentimento nazionale (da non confondere col nazionalismo, che ne è
l'opposto, in quanto fatto più che altro di ostilità centrifuga e non di affezione
centripeta) costituisce un patrimonio che, per quanto gratuito come l'aria e involontario
come il respiro, induce ricadute altamente redditizie: coesione di popolo, solidarietà
sociale, pace, rispetto tra cittadini e verso istituzioni e interessi pubblici, rispetto
per le altre nazioni. Insomma quell'insieme di caratteri e comportamenti chiamato civismo,
termine non per caso stretto parente di civiltà. E che è tra i maggiori fattori, se non
l'unico, di vivibilità della convivenza sociale.
Agos Presciuttini
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