da "AURORA" n° 38 (Gennaio 1997)

L'INTERVENTO

 

Nazione oggi

Agos Presciuttini

 


 

«Il bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe»

Petrarca

 


 

«Una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di cor»

A. Manzoni

 



Cinque secoli separano Petrarca e Manzoni, eppure le visioni rispettive della nazione Italia si integrano perfettamente, come se le avesse delineate uno stesso poeta. Del resto il loro sentimento aveva avuto un grande interprete già molto prima (Virgilio: «Magna parens frugum, magna virum») ed è stato riconfermato dopo (Carducci: «Madre di biade e viti e leggi eterne ed inclite arti»). Nel corso dei citati cinque secoli la nazione crebbe e compì grandi opere, soprattutto creando e diffondendo il Rinascimento. Però, diversamente da altre nazioni europee, non potè produrre un attivo movimento di unificazione e indipendenza. Per cui l'Italia non ha poi partecipato come tale alla diffusione in tutto il mondo della civiltà occidentale, pur tanto legata al dantesco «bel paese dove il si suona».
Di cantori della nazione paragonabili a quelli ricordati, oggi nemmeno l'ombra. C'è anzi da rilevare che è più facile individuare cultori di tendenze opposte. Ciò non vuol dire però che la gente comune manchi irrimediabilmente di coscienza nazionale. È possibile che la covi inconsapevolmente allo stato potenziale, sotto la montagna di brutture che il secolo morente ha accumulato fin dalla guerra civile subordinata a quella mondiale, fin dalla guerra fredda tra semi-Italia filo-occidentale e semi-Italia filo-sovietica. Eppoi contestazione globale e terrorismo sanguinario, diffusione della droga e della criminalità organizzata, illegalità tangentizia ed enormità del debito pubblico. Che costringe lo Stato a bruciare per gli interessi duecentomila miliardi all'anno (pensare che Italia saremmo se l'erario fosse invece libero di investire tanto denaro in infrastrutture, servizi pubblici, competitività produttiva, viabilità urbana).
Moventi di clandestinità o letargo dell'orgoglio nazionale ce ne sono dunque fin troppi. Non sorprendono e non scandalizzano perciò le opinioni che sembrano trovare conforto o ripiego nelle prospettive o speranze di unione politico-amministrativa dell'Europa, nonché appigli universalistici nella crescente mondializzazione dei rapporti economici. Prospettive e appigli che secondo gli a-nazionali (o anti) renderebbero superato lo Stato-nazione e inutili ormai i legami relativi.
Per la verità il sentire nazionale non deriva da scelte coscienti e calcoli utilitaristici. Procede piuttosto dall'attaccamento istintivo alla complessa realtà che ci ha fatto come siamo fatti. Della quale facciamo parte ciascuno con la propria identità personale (e relativo amor proprio) irripetibile quanto si vuole, eppure compresa nell'identità collettiva. Questa può apparire fittizia o virtuale, ma non sono pochi o banali gli elementi che la rendono inconfondibile, a cominciare dalla lingua. Ci accomuna persino la biologia: una persona non è affatto, come tanti sembrano pensare, il rampollo di una precisa e unica linea di discendenza, magari iniziata da un importante «capostipite». Questa apparenza ha evidentemente origine nella persistenza attraverso le generazioni del solo cognome paterno. Ma in realtà di linee e cognomi contiamo i due dei genitori, i quattro dei nonni, gli otto dei bisnonni, i sedici dei rispettivi genitori, i trentadue dei nonni dei bisnonni... e così via raddoppiando, fino ai numeri milionari della ventesima generazione a ritroso; e oltre.
Il numero effettivo dei progenitori di singole persone e ovviamente costretto entro le dimensioni della popolazione di origine; e si concentra attraverso la fusione di più linee, dovuta ai matrimoni tra parenti più o meno lontani. Ma la quantità degli antenati è ugualmente molto elevata, fino a comprendere forse l'intera popolazione di epoche sufficientemente remote. Il che renderebbe gli avi individuali praticamente ascendenti di tutti gli odierni connazionali. Insomma il nostro «sangue» (o meglio il patrimonio genetico personale) è formato di elementi provenienti dalla nazione del passato. Per cui siamo alla fin fine tutti quanti un po' parenti (forse è per questo che sembriamo andare mica tanto d'accordo).
D'altra parte il sentimento-coscienza-amor proprio nazionale è materia di uso quotidiano, come il vitto e il letto. Si rende infatti visibile ed operante specie o soltanto in presenza di allarmi diffusi o in occasione di confronti internazionali, anche niente più che sportivi. Al di fuori di questi casi può far capolino nell'animo di chi viaggia o vive all'estero. Sembra in ogni modo evidente che se e quando entreremo in un'Europa del tutto unificata, saremo pur sempre il componente Italia della federazione o confederazione che sarà, esattamente come Francia, Germania e ogni altra nazione partecipante. Ciascuna recandovi i segni e i contributi della propria e non d'altra fisionomia economica e culturale, demografica e spirituale, storica e giuridica, eccetera. A quel punto chissà che genere di considerazione e rispetto nutrirebbero le popolazioni federate, per quelle tra di loro che mostrassero di non averne per sé medesime.
A parte ciò il sentimento nazionale (da non confondere col nazionalismo, che ne è l'opposto, in quanto fatto più che altro di ostilità centrifuga e non di affezione centripeta) costituisce un patrimonio che, per quanto gratuito come l'aria e involontario come il respiro, induce ricadute altamente redditizie: coesione di popolo, solidarietà sociale, pace, rispetto tra cittadini e verso istituzioni e interessi pubblici, rispetto per le altre nazioni. Insomma quell'insieme di caratteri e comportamenti chiamato civismo, termine non per caso stretto parente di civiltà. E che è tra i maggiori fattori, se non l'unico, di vivibilità della convivenza sociale.

Agos Presciuttini

 

 

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