La tomba della Sinistra
Giovanni Mariani
Altro che governo della Sinistra, questa è sempre
più Destra mascherata.
Non è la nostra una affermazione ad effetto che non tiene conto dei continui richiami di
Prodi e Bertinotti alla sostanza della Legge Finanziaria che, pur avendo imboccato il
«senso unico» di Maastricht, risparmia dalla stangata i ceti più deboli ed i lavoratori
sui quali aveva sinora gravato il peso maggiore del risanamento finanziario. La manovra
finanziaria non poteva, realisticamente, non tener conto di quella «politica dei
redditi» e di quel «patto sul costo del lavoro» senza i quali il risanamento economico
sarebbe stato impossibile. A nostro parere qualsiasi governo, di destra o sinistra, non
poteva eludere, in una congiuntura economica in cui la contrazione dei consumi è tale da
poter innescare una spirale recessiva della produzione, la necessità di preservare
intatto il potere d'acquisto di salari e pensioni. Ciò non in virtù, unicamente, della
ancora dominante «ideologia» keynesiana del «Welfare State», ma per l'ineludibile
necessità di riequilibrare, mantenendo inalterata la «domanda» interna, il contrarsi
delle esportazioni provocato dall'apprezzamento della Lira e dalla politica deflazionista
che ha permesso alla nostra divisa di rientrare nello SME.
Quindi pur comprendendo e condividendo, in parte, la politica finanziaria del governo in
carica non possiamo non rilevare un dato di fondo strategico, dalla quale essa si muove:
la ristrutturazione dello Stato Sociale.
Nato negli Anni Trenta, in un momento di particolare crisi di sviluppo del capitalismo,
prostrato dalla crisi finanziaria del '29, lo «Stato Sociale» voluto da Roosevelt, e
alla cui teorizzazione contribuirono economisti di estrazione socialista, ricalcava il
modello, almeno sotto il profilo socio-economico, del regime fascista che, per dirla con
Galbraith (ma anche col comunista A. Bordiga) altro non era che una forma di
socialdemocrazia autoritaria.
Lo Stato sociale superò intatto il tragico conflitto mondiale e rappresentò dagli Anni
Cinquanta in poi il modello preminente per i governi europei sia conservatori (anche se in
misura più blanda ed annacquata) che «progressivi». La degenerazione nel
consociativismo dei decenni successivi, prodotta dallo stretto rapporto intercorrente tra
potere politico, lobbyes sindacali e potere economico, ne minò notevolmente
l'efficienza tanto da attribuire in gran parte ad esso le difficoltà economiche derivanti
dalla ristrutturazione unipolare del Pianeta conseguente alla crisi della superpotenza
sovietica. Non a caso questo modello sociale è entrato in crisi nel momento in cui la sua
funzione di «vetrina» esaltante le virtù del modello economico occidentale a fronte
dell'inadeguatezza del sistema collettivista in vigore nell'Unione Sovietica e nella sua
area di influenza economico-militare è venuta meno.
La nuova Europa di Maastricht, infatti, accelera la sua integrazione nel febbraio '92, a
pochi mesi dal tonfo definitivo del «nemico» sovietico. Da ciò si deduce che il
capitalismo, liberatosi del suo avversario storico, non abbia ritenuto opportuno mantenere
intatti i costosi «orpelli» che «umanizzavano» il sistema di sfruttamento
capitalistico e, con una repentina inversione strategica e consapevole che non esistono
più competizioni ideologiche nelle quali primeggiare, ripropone come essenziali al
proprio funzionamento le vecchie teorie dell'anarco-capitalismo, il liberismo puro.
Ciò che resta dello Stato Sociale, dopo un lustro di forsennati attacchi, deve, ci dicono
sia la destra che la sinistra, essere smantellato con la maggiore celerità possibile.
Anzi paradossalmente è proprio la sinistra ad accelerare le operazioni.
La recente proposta di Walter Veltroni, salutata dagli osanna della Confindustria di Fossa
e Agnelli, sulla necessità di ristrutturare lo Stato Sociale va senza alcun dubbio in
tale direzione. Al di là dei sofismi e delle perplessità dei più cauti esponenti
dell'Ulivo volti a dimostrare che «rivedere» non significa «distruggere», l'attacco al
sistema di garanzie in vigore sin dagli Anni Trenta è stato portato in profondità. E non
è questa l'unica ragione che ci porta a dubitare del persistere nell'Ulivo di una qualche
vocazione sociale; la riforma delle pensioni, ad esempio, ricalcherà sicuramente quella
abortita -grazie alla mobilitazione popolare- del governo Berlusconi.
Un intellettuale come Sylos Labini, pifferaio radical-progressista tenuto in grande
considerazione da Prodi & C., ha infatti sostenuto negli ultimi tempi la bontà
intrinseca della riforma pensionistica del Cavaliere, la quale, pur necessitando di
qualche piccola revisione, è un modello a cui la sinistra deve attenersi per portare
l'Italia in Europa. Viene da domandarsi quale sia stato lo scopo reale delle
manifestazioni oceaniche di due anni fa se poi i risultati finali sono gli stessi.
In questo quadro va inserita la riforma della pubblica amministrazione già approvata al
Senato che abolirà sei Ministeri e 25 mila Enti pubblici con l'obiettivo di creare il
sedicente «stato leggero». E se di quest'ultima decisione si può anche, seppure da
un'ottica differente, condividerne lo spirito, tenuto conto del deleterio burocratismo nel
quale da tempo si dibatte la pubblica amministrazione, di ben altra sostanza è impregnata
la fusione tra Stet e Telecom, i cui aspetti negativi saltano subito agli occhi.
Lo stesso ministro Ciampi definisce la scomparsa del colosso IRI (iniziata a suo tempo con
la poco chiara svendita del gruppo Cirio-Bertolli-De Rica) la fine di ogni possibilità di
intervento strategico dello Stato nell'economia. Si può, infatti arguire che trasferendo
la proprietà della Stet-Telecom al Ministero del Tesoro, accollandosi una quota dei
debiti IRI pari al valore presunto della Stet con tutte le sue partecipazioni, permette
all'IRI di ridurre i suoi debiti da 25 mila a 12 mila miliardi. Una operazione che ricorda
da vicino il gioco delle scatole cinesi e nel quale va sottolineato il ruolo del
commissario europeo Van Miert, che ha appalesato tutta la sua arroganza rispetto
all'italietta ancora vergognosamente statalista e monopolista mentre, contemporaneamente,
non muove rilievi alla Francia che in materia di monopoli di stato ed intervento pubblico
in economia non è certo seconda al Belpaese.
La cessione della Stet precede, di fatto, la messa in liquidazione dell'IRI. Una
liquidazione, manco a dirlo, che genererà difficoltà a tutti i gruppi che fanno capo al
colosso pubblico destinato alla vendita o, se si vuole essere sino in fondo realistici,
alla morte precoce, con danni notevoli al patrimonio industriale nazionale e col crollo
del valore di mercato delle aziende pubbliche.
Finmeccanica, Alitalia, Finmare, Fintecna: se queste privatizzazioni avevan ragione di
essere (e noi siamo comunque di parere opposto) andavano seguite altre strade.
Innanzitutto non si possono abbandonare al loro destino realtà economiche importanti
(ridotte all'attuale stato deficitario esclusivamente dall'insipienza e dalla ingordigia
criminale del partito-stato democristiano), senza alcuna idea sul loro futuro e
permettere, com'è già accaduto nel recente passato, che esse siano svendute ai grandi
gruppi stranieri ai quali viene in questo modo conferito il controllo di importanti
segmenti strategici dell'economia nazionale. Così, proseguendo nella linea tracciata
prima dai governi Amato e Ciampi e proseguita poi da Dini, anche il governo Prodi ha fatto
delle privatizzazioni un cardine base della propria politica economica. Non possiamo in
proposito non rilevare la volubilità di Rifondazione Comunista che dichiara, per mezzo
del suo Segretario politico, di essere disponibile a riconsiderare la sua politica sulle
dismissioni dell'industria pubblica. Nel gennaio '97 Bertinotti ha dichiarato alla stampa
d'essere convinto della necessità «... di una "Stet" a forte presenza pubblica
(...) è in atto una grande offensiva ideologica sulle privatizzazioni, noi siamo
favorevoli ad una grande entità italiana nel campo delle telecomunicazioni per poter
concludere accordi e competere coi colossi stranieri, ogni altra scelta significherebbe la
colonizzazione in questo settore».
Parole sante! Per tale motivo vien da pensare che la recente cena a casa del Ministro del
Tesoro, alla quale Bertinotti era ospite, abbia ammorbidito la coriacea opposizione di
Rifondazione. Infatti, al contrario di quanto sostengono i manuntengoli del liberismo più
becero, le privatizzazioni procedono, eccome.
La Comit, il Credito Italiano, l'INA, la Nuova Pignone, la Saipem, la Liquipibas (del
gruppo Agip ceduta alla concorrente francese Novogas), il gruppo SME e l'ENI, che pure
aveva dato ampia prova della sua redditività con un utile netto, nel '95, di 2.760
miliardi ed era accreditata di una crescita dei profitti di oltre il 50% per l'anno '96.
Senza dimenticare i successi del gruppo IMI che con un utile netto di 239 miliardi nel
'96, superiore del 9% a quello del '95 e la performance della Banca del Lavoro con un
+10,3 di utili nel primo semestre '96.
Sono aziende pubbliche attive quelle che vengono svendute e ciò dimostra la malafede di
quanti continuano ad indicare lo Stato come un imprenditore perennemente passivo e
fallimentare.
E non è un caso che il repentino crollo della Cortina di ferro abbia innescato in Italia
un altrettanto veloce cambio della strategia economica, in cui si sono distinti i
cosiddetti governi «tecnici» che hanno spacciato per necessaria all'ingresso in Europa
la svendita del patrimonio pubblico.
Criminali loro o criminali i loro predecessori che hanno minato la credibilità
dell'impresa pubblica gestendola con scopi ed obiettivi unicamente partitici?
Probabilmente entrambi! Perché se è vero che la sedicente Prima Repubblica ci ha
portato, tra nani e ballerine, ai limiti del collasso economico, è anche vero che
l'Italia inserita in Europa senza l'ausilio del suo patrimonio pubblico perde gran parte
del suo peso economico.
E pare sia proprio un governo dominato dalla Sinistra, in cui certe sensibilità
dovrebbero essere presenti, a concludere tale opera di smantellamento dello Stato sociale
e della economia pubblica. Tutto questo, forse, per cancellare o mitigare il peccato
originale dato dalle radici marxiste del PDS?
Al di là delle cortine fumogene è palese che una riforma di tipo liberista della
previdenza sociale anticiperà, di poco, l'abdicazione dello Stato in tema di
privatizzazioni nella scuola e nella sanità. La dismissione dell'IRI non significa solo
la fine dello Stato imprenditore e la morte dell'economia mista sulla quale si è
incardinata la modernizzazione del nostro Paese ma, più concretamente, consegna il
potere, tutto il potere, al sedicente mercato libero nel quale tutto ruota attorno al
profitto.
La «civiltà» del mercato risorge, forte come non mai. Una «civiltà» nella quale una
sinistra addomesticata farfuglia di diritti civili e di libertà d'impresa e dimentica che
l'unica vera libertà è la libertà dal bisogno, dallo schiavismo economico a cui Sua
Maestà il mercato globale ci vuole condurre. È l'ala sinistra del liberismo, capeggiata,
ormai, dagli ex-comunisti, su cui ricade la responsabilità di avere definitivamente
seppellito l'esperienza socialdemocratica. La bancarotta dell'esperienza marxista ha
portato la sinistra, nel timore di un ulteriore «errore storico», ad adagiarsi
sull'ideologia del proprio nemico sposandone in toto la causa.
Ovviamente nessuno si augurava che l'avvento della sinistra al governo coincidesse con un
ritorno all'«età dell'oro» dell'indebitamento pubblico e degli sprechi ed in tal senso
è condivisibile la volontà di uscire dal pantano della demagogia. Ma non è questo il
punto del contendere. Tra l'Ottantanove e il Novantuno abbiamo assistito alla kermesse
della reazione che festeggiava la scomparsa non solo del comunismo e della
socialdemocrazia, ma che si augurava, apertis verbis, la morte di qualsiasi
forma di Stato, esso inteso nel senso di «regolatore di rapporti» tra le diverse
componenti sociali. Lo «Stato leggero», lo «Stato vigile urbano» è l'obiettivo dei
profeti della globalizzazione che prefigurano un mondo dominato dalle banche e dai flussi
cartacei delle Borse.
Un mondo nel quale la Sinistra come è stata intesa in questo secolo non ha più diritto
di cittadinanza.
Giovanni Mariani
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