da "AURORA" n° 41 (Maggio - Giugno 1997)

ECONOMIA E SOCIETÀ

La spada di Damocle sull'economia italiana

Giovanni Mariani

 

Il debito pubblico è da tempo l'argomento principe di ogni dibattito economico e politico ed è andato trasformandosi, negli ultimi anni, in una sorta di tormentone nazionale. Pensare che nel corso degli Anni Ottanta la sua vertiginosa crescita lasciava del tutto indifferenti i soloni dell'allora dominante pentapartito oggi tramutatisi in starnazzanti «oche del Campidoglio» inesauste nel rilanciare alti lai sull'allarmante stato dei conti pubblici.

Gli è che con la ratifica degli accordi di Maastricht si sono all'improvviso resi conto che per far parte del primo gruppo, quello che darà vita alla moneta unica, è indispensabile operare una significativa riduzione del debito pubblico. Ed è in quest'ottica che il fior fiore degli economisti, sia di destra che di sinistra, hanno gareggiato e gareggiano con l'obiettivo di individuare la magica formula che ci consenta comunque di entrare nel club esclusivo dei «ricchi d'Europa». Per raggiungere lo scopo il Centrosinistra ha utilizzato, come ben sappiamo, tutto il vecchio armamentario, un tempo denominato «stangate», oggi più graziosamente definite «manovrine», ma che nella sostanza poco o nulla divergono visto che la pratica è sempre la stessa e il risultato che si propone non muta rispetto al passato.

La strategia di risanamento economico, portata avanti sino alle estreme conseguenze, rischia di essere letale per tutto il sistema produttivo, e per quello di consumo, causando recessione e disoccupazione. E non hanno torto quanti paventano la pericolosità di questo continuo «raschiare il barile», essendo la pressione fiscale una delle cause del ristagnare dell'economia. Il fronte conservatore, a sua volta, propone di ridurre l'incidenza del prelievo fiscale riducendo nel contempo il livello della spesa per la pubblica amministrazione e gli sprechi a questa connessi. Questo, è bene osservare, non ebbe a suo tempo applicazione pratica in quanto il Governo Berlusconi entrò in crisi proprio in seguito al tentativo di varare una riforma pensionistica che prelevando ancora una volta risorse dalle tasca dei soliti noti lasciava in sostanza inalterate le storture ossifficate dello Stato assistenziale di democristiana memoria.

A distanza di due anni il Governo dell'Ulivo, con la parziale eccezione di Rifondazione Comunista, è andato logorandosi, almeno sotto l'aspetto dell'immagine, nella disperata rincorsa al risanamento dei conti pubblici, imposta dall'ineludibile esigenza di far parte da subito dell'Unione Monetaria e dalla non meno urgente necessità di riportare sotto controllo una spesa pubblica che rischiava, nel volgere di qualche anno, di ridurre l'Italia a mal partito.

I tagli su pensioni, sanità e scuola prospettati ed attuati dal Governo Prodi danno dunque, seppure tardivamente, ragione a quanto andava predicando il Cavaliere di Arcore? Il Centrosinistra non è stato nella sostanza costretto ad una politica di «tagli» che le oceaniche manifestazioni sindacali avevano impedito di realizzare al Governo Berlusconi? La risposta è complessa! Anzitutto va detto che la soluzione prospettata dalle destre non aveva in sé nulla di scandaloso e, in un certo senso, andava nella direzione auspicata da una parte consistente del popolo italiano che, vuoi per cattiva informazione, vuoi per precisa appartenenza sociale, confondono lo Stato sociale con le sue degenerazioni assistenziali.

La sinistra, in realtà, aveva ben compreso ove la strategia berlusconiana intendeva andare a parare: addossare sui ceti meno abbienti i costi del risanamento dei conti pubblici, ossia spianare la strada per l'Europa con una serie di tagli strutturali a pensioni e sanità così preservando intatta la pressione fiscale su imprese e grandi patrimoni. Il Berlusconi-pensiero non era, e non è, completamente avulso dalla realtà socio-economica del paese, come sopra si accennava; in esso si riconosce molto del «pensare comune» che, ben oltre i mezzi mediatici su cui può contare l'oligarca di Mediaset, ha contribuito all'affermazione di Forza Italia. Un «pensare comune» alla cui base vi è una rimozione collettiva delle responsabilità vere e diffuse sulle degenerazioni clientelari degli ultimi vent'anni nelle quali erano coinvolti e beneficiati diversi milioni di italiani che oggi, in gran parte costituiscono la massa di manovra del polo di destra o sono andati ad ingrossare le fila del delirante partito secessionista bossiano.

Ma vi è anche da dire, fatta la tara delle emergenza e della costrizione imposta dalla attuale fase storica, che la sinistra è stata in qualche misura intrappolata in una politica di «centrodestra» al punto che non pochi elettori dell'Ulivo hanno non poche difficoltà nel comprendere quale siano le differenze sostanziali tra la politica propugnata e, per fortuna, non concretizzata da Berlusconi e quella del Governo Prodi. A monte vi è certo la palese incapacità di comunicare che contraddistingue il Centrosinistra, ma oltre questo si rilevano anche aspetti concreti dell'azione di governo: la minacciata manovra sulle pensioni, la progressiva emarginazione dei sindacati, la deregolamentazione del mercato del lavoro, la riformulazione delle garanzie sociali, sulle quali non sussiste a tutt'oggi la necessaria chiarezza e le difficoltà del popolo della sinistra ad affrontare i propri tabù ideologici quali, ad esempio, quello della riforma dello Stato sociale.

Ciò che contribuisce a rendere drammatico lo scenario è la constatazione che a sinistra non può essere digerita senza drammatiche rotture la svolta neo-liberista che si concretizza nel progressivo ridimensionamento del potere sindacale, nella deregolamentazione del mercato del lavoro, in sintesi nella demolizione di tutte quelle garanzie «minime» per il lavoro salariato che sono stati e continuano ad essere le ragioni fondanti per una sinistra che non voglia rimanere tale solo di nome.

E se i solerti commissari europei prefigurano una Unione Europea smaccatamente liberista -dalla quale il governo Prodi aveva l'obbligo di dissentire sin dal suo insediamento ben sapendo che l'accettazione senza riserve del Trattato di Maastricht l'avrebbe costretto ad una politica di tipo «berlusconiano»- la recente affermazione della sinistra francese li costringerà ad annacquare alquanto la politica di rigorismo monetario. Ciò apre spiragli insperati per il centrosinistra italiano il quale potrà mettere mano alla riforma dello Stato sociale senza essere costretto e tagli indiscriminati, ben sicuro che la sinistra francese farà altrettanto e che comunque mai accetterà che dal gruppo di testa dell'Unione Monetaria sia esclusa la consorella latina sia per ragioni ideologiche che per l'esigenza strategica di controbilanciare in modo efficace lo strapotere del Marco tedesco.

Le pretese dei banchieri europei si presume siano drasticamente ridimensionate nel prossimo futuro. Un segnale sicuramente significativo dell'evolversi in questo senso della tormentata vicenda della moneta unica è il braccio di ferro in atto tra BundesBank e governo tedesco sulla rivalutazione delle riserve auree. Le difficoltà dell'economia tedesca alle quali il cancelliere Kohl non può rimediare con tagli alle garanzie sociali o rincorrendo a nuovi prelievi fiscali, stante la forte contrarietà a queste soluzioni dell'alleato liberale, hanno portato in superficie i limiti di una stabilità monetaria sull'altare della quale è stato sacrificato tutto. La feroce opposizione di Kohl e Tietmeyer al «Piano» di Jacques Delors che puntava a mitigare l'impatto sociale delle politiche monetariste si è rivelata un boomerang in grado di mettere in corso la stessa egemonia dei conservatori tedeschi.

Per quanto concerne l'Italia il problema centrale delle nostre difficoltà economiche non ci pare sia stato individuato dai partiti tranne, forse, da Rifondazione Comunista. La nostra palla al piede, infatti, rimane l'eccessivo peso del debito pubblico. Debito che non può essere attribuito ai costi dello Stato sociale, compatibilmente di molto inferiore a quello sostenuto dagli altri paesi europei, né alle spese per la difesa per le quali la pacifica Italia stanzia un 1% rispetto al 2% di Francia e al 3% di Gran Bretagna. Certamente riducendo la spesa sociale all'osso e facendo tabula rasa degli sprechi, cosa della quale dubitiamo, si potranno ottenere, seppure a caro prezzo, alcuni benefici economici. Nessuno lo nega! Ma è assurdo pensare alla possibilità di annullare il debito pubblico solo ponendo rimedi alla corruzione, alla tradizionale inefficienza della burocrazia nazionale o, ancor peggio, smantellando lo Stato sociale.

Certe favole giovano unicamente alle rapaci mire delle finanziarie assicurative impazienti di sostituirsi allo Stato nell'organizzare la previdenza o ai grandi monopoli farmaceutici desiderosi di spazzar vie la residua sanità pubblica. Al contrario di quanto comunemente si asserisce ci si renderà conto col passare del tempo che nonostante i continui tagli e l'eliminazione delle garanzie sociali, il debito pubblico non calerà di un centesimo. Ciò si è potuto rilevare con solare evidenza durante la parentesi governativa reaganiana negli USA: più si tagliavano le cosiddette spese sociali, più si allontanava lo Stato dalla sfera economica e tanto più saliva il debito pubblico, con buona pace di Milton Friedman, che a dispetto del suo Premio Nobel diresse personalmente la sgangherata e discutibile operazione.

Qualcosa di simile è accaduto nell'Inghilterra thatcheriana e post-thatcheriana che pur avendo privatizzato l'impossibile (nella recente campagna elettorale i conservatori hanno proposto la privatizzazione separata delle varie linee della metropolitana londinese) non è riuscita a svincolarsi convincentemente dal peso del debito pubblico pagando, in termini sociali, un prezzo che solo i cittadini sono in grado, per averlo subito sulla loro pelle, di quantificare. Tutto ciò, nonostante le mirabilanti virtù attribuite alla deregulation, con effetti spaventosi sui dati occupazionali. Effettivamente la progressiva marginalizzazione dei sindacati, specie in Inghilterra, e la flessibilità nel mercato del lavoro non hanno prodotto gli effetti enunciati; se, infatti, la razionalizzazione del lavoro, con largo utilizzo di nuove tecnologie, aumenta la redditività nella produzione, dall'altra innesca una vistosa regressione del potere d'acquisto grazie alla contrazione delle retribuzioni e al calo occupazionale.

La massa enorme dei «nuovi poveri», sia in Inghilterra che negli USA, tende a dilatarsi quotidianamente superando di gran lunga le percentuali di paesi meno ricchi, riducendo a livelli di vita da Terzo e Quarto Mondo grandi masse residenti nelle grandi periferie urbane per di più costretti a confrontarsi continuamente con la ricchezza e lo spreco più sfacciati.

Nonostante questi allarmanti risultati parte del PDS continua ostentatamente a riproporre la deregolamentazione del mercato del lavoro, senza avere, lo speriamo, coscienza di ciò che questo nella realtà significhi, anche considerando che dal punto di vista politico esso finirebbe col produrre un ulteriore vantaggio elettorale per Rifondazione Comunista.

Quello che maggiormente preoccupa è che nessuno, sia ministro che quotato economista, si è impegnato nell'analizzare e rendere di pubblica ragione il vero nodo gordiano dell'economia italiana. Preferiscono glissare su una realtà che resta sospesa, novella spada di Damocle, sul futuro della Penisola. Ed è ragionevole pensare che se in una prima fase l'Europa si accontenterà dello smantellamento di parte del Welfare State, della dismissione in toto dell'economia statale, con grande tripudio delle multinazionali, in un secondo tempo si arriverà per forza ad una resa dei conti con un Erario che avrà di non poco aumentato il proprio debito.

La svendita dei segmenti strategici della economia pubblica -IRI, ENI, TELECOM, Banche, ect.- perpetrata in modi e tempi che possiamo senz'altro definire criminali -in quanto effettuate ben al di sotto dei valori reali di mercato- se al momento può produrre qualche flebile beneficio per le casse dello Stato, alla lunga si rivelerà per quello che in effetti è; una vergognosa e folle operazione antieconomica, strategicamente inutile in quanto sul groppone dei cittadini continueranno a pesare i passivi delle aziende tenute in vita con la svendita dei settori attivi dell'economia pubblica.

E non è necessaria una laurea in economia per capirlo: solo un pazzo può vendere le aziende attive per mantenere in vita quelle passive, e di pazzi o finti tali sembrano essercene molti ai vertici politici e economici di questo disastrato Paese. Da una simile palude non si viene fuori né con le chiacchiere né con stratagemmi dilatatori; prima o poi si sarà costretti a guardare il toro negli occhi e a fare i conti con le sue corna.

Nell'attesa non resta che cimentarsi nel tentativo di dare una soluzione. Il che non è semplice perché i Buoni del Tesoro sono già di per sé una sorta di labirinto economico nel quale non è agevole individuare le vie d'uscita. I titoli pubblici non sono certo una trovata contemporanea anche se il loro uso improprio si è manifestato in tempi relativamente recenti e precisamente alla fine degli Anni Settanta per esplodere, in tutto il loro drammatico vigore, nella prima metà degli Anni Ottanta allorché i governi di quel tempo si persuasero di aver individuato un metodo più semplice e meno oneroso per finanziare le casse dello Stato fino allora sostenute nei momenti di crisi dalla desueta emissione di banconote, (responsabile, tra l'altro, dei processi inflattivi).

Al momento parve l'uovo di Colombo e bisogna pure ammettere che nel corso degli Anni Ottanta l'inflazione fu ridimensionata rispetto agli anni precedenti. Ma per incentivare tale pratica che obbligava lo Stato a rastrellare i risparmi di milioni di italiani per farli affluire nelle proprie esauste casse, esso fu costretto ad innalzare in modo sempre più vistoso i tassi di interesse dei titoli pubblici, invogliando così i risparmiatori a convogliare risorse fino ad allora appannaggio delle banche.

Man mano che il risparmio dei cittadini andava riversandosi nelle casse dello Stato -che garantiva interessi fino al 18% annuo- si innalzava l'indebitamento dell'Erario. Indebitamento, in qualche modo, a fondo perduto non reinvestendo lo Stato l'imponente massa finanziaria rastrellata in forme economiche che garantissero un utile superiore, come avviene del resto per qualsiasi Istituto di credito.

Al contrario i soldi prestati dai cittadini venivano profusi in attività non redditizie ed è perfino inutile ricordare in queste pagine la lunga serie di sprechi, ruberie e mala-amministrazione che ha condotto nel vicolo cieco di un debito pubblico incontrollabile. È vero che una piccola parte delle cifre rastrellate attraverso i Titoli di Stato veniva reinvestita in attività economiche -pensiamo al finanziamento del passivo delle grandi holding pubbliche- ma anche queste erano passive, comunque con una redditività di molto inferiore agli interessi corrisposti dallo Stato.

Nel volgere di un quindicennio la spirale del debito pubblico si è ingigantita avviluppandosi su sé stessa: più soldi lo Stato rastrellava e più esso si indebitava finendo con l'incamerare prestiti al solo scopo di finanziare gli interessi sui debiti pregressi. Ciò, di governo in governo, sino all'attuale situazione.

E non si può non rilevare che, a parte alcune inascoltate Cassandre, il dramma dell'indebitamento dello Stato non è mai stato al centro dell'attenzione politica sia di maggioranza che di opposizione. E se oggi lo si considera in termini allarmanti è solo perché il problema ci è imposto da organismi transnazionali ai quali, seppure obtorto collo, dobbiamo rendere conto.

Anche l'occhiuta pretesa dell'Unione Europea ci appare poco comprensibile visto che, almeno fino a qualche tempo addietro, si accontentava di alcuni palliativi marginali quali il ridimensionamento dello Stato sociale, la progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro, la privatizzazione dell'impresa pubblica. Ed è da ipotizzare che nel prossimo futuro ci venga chiesto uno sforzo ancor più grande: il contenimento progressivo degli interessi passivi derivanti dal debito pubblico. In quel momento la farsa si trasformerà in tragedia in quantochè la presa di coscienza su quello che significano i titoli pubblici in termini di freno all'economia nazionale -e allo stesso tempo della necessità di disporre di tale risorsa- diffonderà tra i risparmiatori sensazioni allarmistiche creando situazioni spinose dalla non facile soluzione. Infatti i Titoli di Stato rappresentano, nell'inconscio dei piccoli risparmiatori italiani, l'essenza stessa del concetto di investimento grazie alla loro redditività senza esporre a rischio alcuno ed hanno alimentato la ritrosia ad investimenti alternativi nel settore pubblico e privato già largamente diffusa nel nostro Paese.

Le ragioni di questo atteggiamento sono molteplici. Nell'italiano medio ha storicamente sempre prevalso il concetto di risparmio rispetto a quello di investimento. Infatti l'investimento più arrischiato nel quale si sono cimentati alcuni milioni di connazionali non ha mai sconfinato dal solito mattone; la casa, bene visibile, solido, consistente e facilmente vendibile.

La totale assenza di qualsiasi vocazione investitrice degli italiani ha precise connotazioni psicologiche. Prescindendo dalla tassazione, lo Stato ha sempre rappresentato, agli occhi di gran parte dei cittadini, una specie di grande mamma: affitti da parte degli Enti statali a prezzi bassissimi e senza alcun pericolo di sfratto, previdenza e sanità comunque assicurate, tolleranza all'assenteismo, pensioni facili, mutui agevolati e pressione fiscale minima per intere categorie in cambio di sostegno elettorale. Una sicurezza, specie rispetto all'economia privata, che richiama sempre al rischio e al sacrificio personale.

Siamo dunque tutti statalisti? Viviamo in una sorta di sindrome post-comunista? In un certo senso è così! E per certi versi sia il Ventennio fascista che il regime democristiano sono riusciti ad inculcare in larghi strati popolari un concetto di Stato simile ad un Ente assistenziale che tutto vede e a tutto provvede; ovviamente è necessario disporre delle giuste conoscenze e di una morale flessibile. In una nazione come la nostra in cui nulla è mai stato stabile a cominciare dai governi, lo Stato assistenziale e sprecone ha finito col divenire il simbolo, lo quintessenza della stabilità e della sicurezza. In termini storici gli italiani non hanno avuto torto nel confidare sulla magnanimità dello Stato: basti qui ricordare quanto accaduto agli sfortunati azionisti del Banco Ambrosiano e di tutti gli avvenimenti similari dei quali abbonda la cronaca degli ultimi anni.

Sarebbe stato certo più logico e più proficuo per l'economia nazionale se gli italiani avessero investito anziché risparmiato; il settore industriale ne avrebbe tratto indubbi vantaggi. Ma non si può certo accusare l'italiano medio di non aver il coraggio di osare quando è noto che gli stessi industriali privati hanno per lungo tempo privilegiato il risparmio in titoli di Stato ai necessari investimenti nelle loro aziende. La psicosi del titolo pubblico ha contagiato persino le banche e gli investitori stranieri, molti dei quali debbono in parte la loro fortuna attuale a quel 18% lucrato nel corso degli Anni Ottanta.

La febbre del titolo pubblico ha investito trasversalmente la società italiana a partire dai ceti meno abbienti sino a quelli privilegiati, dai banchieri nazionali agli investitori esteri senza che nessuno si chiedesse con quali mezzi lo Stato potesse far fronte alla massa enorme delle passività. Ora che si è giunti alla resa dei conti -o almeno alla prima fase di questa che consiste nell'alleggerimento del passivo- si arriverà a colpire inesorabilmente l'ultima speranza: l'appiglio fittizio degli italiani al boom economico degli Anni Ottanta.

In quel momento torneranno in primo piano le proposte di Fausto Bertinotti, durante la campagna elettorale del '94, sulla necessità di tassare i BOT al di sopra dei 200 milioni che spaventarono i risparmiatori italiani fino a costituire uno dei capisaldi del successo elettorale di Berlusconi. Una proposta che solo apparentemente poteva ritenersi sensata visto che Bertinotti si dimenticò di aggiungere che gli interessi sui BOT erano già tassati del 12,50%. Quindi se una tale proposta venisse riesumata sortirebbe comunque effetti devastanti.

A prescindere che la proposta di Bertinotti incideva solo su somme superiori ai 200 milioni v'è da rilevare che la rendita dei BOT si è di molto assottigliata rispetto al recente passato ed è destinata a calare ulteriormente in concomitanza della diminuzione del tasso inflattivo. Quindi operando ulteriori prelievi oltre il 12,50 attuale rimarrebbe ben poco nelle mani dei risparmiatori. Infatti, su un risparmio di 300 milioni (cifre di questa entità investite in BOT non sono pochissime) arrivando a un interesse del 5%, percentuale ipotizzabile nel breve periodo, volendolo gravare, ad esempio, di un prelievo fiscale del 20%, il risparmiatore avrebbe realizzato un netto di 12 milioni annui, il che non invoglierebbe i risparmiatori a mantenersi fedeli a questo tipo di investimento.

Verificandosi queste ipotesi milioni di italiani si precipiterebbero agli sportelli della Banca d'Italia per vendere il più celermente possibile i loro titoli; le conseguenze sono facilmente intuibili in quanto siamo ben certi che lo Stato non è assolutamente in grado di rifondere il dovuto ai malcapitati a meno che non intenda prosciugare le riserve di valuta ed auree (che comunque non sarebbero adeguate) o, peggio, stampando carta moneta.

Di fronte a queste ipotesi c'è da augurarsi, a mani giunte, che la proposta che fu del Bertinotti non venga riesumata, almeno nella sua forma primitiva. Il problema comunque permane e la proposta del Segretario di Rifondazione, pur se negativa, rimane l'unica proposta concreta e il primo sforzo nel tentativo di dare soluzione ad un problema destinato nel tempo ad acuire la propria drammaticità e che, ad onor del vero, nessun altro uomo politico ha avuto il coraggio di affrontare.

Nascondere la testa nella sabbia serve a poco e non aiuta certo la nostra economia a disfarsi dalla pesantissima ipoteca del debito; la differisce solo nel tempo, ma prima o poi dovrà essere affrontata.

Se i solerti commissari del FMI e dell'UE ci impongono di privatizzare e di ridimensionare il Welfare State, puntano il dito su un falso problema in quanto Danimarca, Svezia, Francia e Norvegia in materia di monopoli di Stato non sono certo seconde all'Italia e la spesa sociale di quasi tutti i partners europei è ben superiore a quella della Penisola.

«A pensar male si commette peccato -sosteneva Andreotti- ma quasi sempre ci si azzecca», non è quindi azzardato ipotizzare che quando l'Italia avrà supinamente eseguito gli ordini della congrega liberista, sulle privatizzazioni e sullo Stato sociale, gli sarà ordinato anche di sistemare una volta per tutte il debito pubblico. Solo allora gli smemorati politici di casa nostra renderanno di pubblica ragione che lo Stato sociale e l'economia pubblica non erano le cause reali del disavanzo statale. Si dovranno imporre ulteriori sacrifici per rimanere nell'Unione Europea. Un sacrificio mastodontico, smisurato, se si tiene conto che la cifra che lo Stato esborsa annualmente per gli interessi sul debito pubblico è di 180 mila miliardi di lire.

A questo punto torneranno a fiorire le fantasie retoriche da parte di una classe politica imbelle che ci ha condotti in questo vicolo cieco. Speriamo solo -la speranza è l'ultima a morire- che prevalga, sulle altre, l'ipotesi di non incidere tanto sugli interessi dei titoli -che come abbiamo già detto andrebbe ad innescare un panico dalle non prevedibili conseguenze- ma ci si orienti verso la progressiva diminuzione, indolore, del sistema finanziario pubblico.

Si può ipotizzare, ad esempio, un calo dei tassi d'interesse sui titoli accompagnato da facilitazioni fiscali per i risparmiatori fino all'esaurimento del debito statale o, al contrario, mantenere inalterati i tassi odierni fino ad esaurimento o forte riduzione per i nuovi titoli, il che almeno limiterebbe la precipitosa vendita da parte dei vecchi risparmiatori. Ma siamo sicuri che al momento opportuno fior di economisti sventoleranno le più astruse ricette. Quotidiani, riviste, radio e televisioni organizzeranno dibattiti e sondaggi e la sensibilità del cittadino sulle esigenze dell'economia sarà stimolata in tutti i modi.

Purtroppo dubitiamo che la scelta futura sarà quella giusta o, comunque, la più vantaggiosa per il popolo italiano; come al solito prevarrà la soluzione che gli organismi internazionali riterranno più confacente ai loro interessi. Al momento nessuno sembra rendersi conto dell'incongruenza delle privatizzazioni mantenendo inalterata la massa del debito pubblico. Ciò significa ingannare i cittadini, privandoli delle garanzie sociali con l'aggravante del non risanamento reale dei conti dello Stato.

Nessuno sembra voler contestare questa criminale tendenza. Non la destra liberista e privatizzatrice, né la sinistra che non solo non si oppone ma pare vergognarsi d'essere tale.

Giovanni Mariani

 

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