da "AURORA" n° 42 (Luglio 1997)

APPROFONDIMENTO

Il «viaggio iniziatico» di Massimo Cacciari

Francesco Moricca

 

Leggendo "l'Arcipelago" cacciariano si resta affascinati dalla prosa e dallo stile che la denota. Testimonia una vera dimestichezza coi classici (soprattutto greci) ed evoca una distanza e una impersonalità che non possono non piacere a chi è infastidito dal cicaleccio supponente di tanta contemporanea «letteratura», sempre e comunque osannante al «mito» cosiddetto della modernità, con gli umori e gli interessi egoistici che variamente vi connettono gli «autori» in voga. Quasi si è indotti a dimenticare che Cacciari, parlando degli antichi Greci (e di altri «antichi» nel tempo più vicini a noi), stia invece proprio parlando della modernità, anzi stia tracciando un possibile, e auspicabile dal suo punto di vista, sviluppo della «post-modernità», quasi nei modi e coi toni -è la nostra soggettiva impressione- d'una «profezia» fondantesi su una particolare riproposizione del nietzschiano «eterno ritorno», epperò denudato dei connotati paranoici propri a una parte non marginale della speculazione del filologo-filosofo tedesco già nella sua tesi di laurea, la fondamentale e contestata dal mondo accademico ottocentesco "Origine della Tragedia". Cacciari sembra a prima vista infatti -ci si passi l'espressione- un «Nietzsche apollineo».

Il capitolo chiave del suo "Arcipelago" è il quarto, intitolato "I Rei", dove, con geniale intuizione etimologica, «rey», che in spagnolo significa «re», viene associato a «reus» -«colpevole» in latino- e dove si offre una perspicua lettura del calderoniano "La vita è sogno"; lettura che si potrebbe definire «alchimistica» per le ragioni che andranno precisandosi in seguito.

Diamo la parola a Cacciari:

«La vida es sueño, y los sueños sueños son. Quando questo si riconosce, allora nessuna apparenza ci incatena - allora, iniziamo ad uscire dalla torre, cominciamo a trarci da servitù a libertà. Non certo la libertà della superbia (ecco il «nietzschianesimo apollineo», N.d.R.), che crede di avere le stelle in suo dominio, che crede di poter spezzare il sole (finendo poi miseramente con l'abbracciare uno «stupito» cavallo per le vie di Torino, come appunto fece Nietzsche, il «Dioniso» autodefinitosi «crocifisso», N.d.R.), ma di colui che sa di poter rimediare alla propria natura, di dover avere cura di sé, di dovere e potere vincersi. Si è iniziati all'essere liberi quando non possiamo essere più ingannati» e -potrebbe aggiungersi- quando più non ci curiamo di essere ingannati, quando possiamo perfino «ingannare noi stessi mediante l'«ottimismo della volontà», e siamo capaci di farlo spontaneamente ma non sconsideratamente.

Tuttavia né Cacciari né Calderòn potrebbero assentire a fronte di una simile affermazione. Per loro infatti la «regalità» è assunzione non solo della propria «colpa» ma anche della «colpa collettiva». Sicché la «hybris» del «rey reus», la sua colpa personale, consiste sia nel distinguere, egli come tutti, il «sogno» dalla «realtà» e di riconoscere l'essenza di quest'ultima nello stato di veglia, nell'assenza più completa di «sogno» (mentre è vero piuttosto che la realtà è nel sogno e fuori dal «sogno» la realtà è nulla), sia nel fatto che egli presume di aggiungere al carico della sua colpa quello della colpa dell'umanità intera, di tutti gli uomini vissuti, viventi e futuri, e di poterla sostenere e riscattare. Se la «hybris» del «rey» (di questa personalità sacra perché rappresenta tutti i rei, coloro che vogliono redimersi e più ancora la maggior parte che non lo vuole) consiste in ciò, la sua «areté», la sua «virtus» consisterebbe nel sapere egli, a differenza degli altri uomini, che l'unica realtà è nel «sueño de la razòn», nella ou-topia. A fronte del Principe di Machiavelli, che sa come realizzare l'Utopia, il Rey reus di Calderòn non sa, è «vacilante y discursivo» e sa di essere «reus» anche per questo. L'immensità della sua «hybris» gli si rivela -direbbe Kirkegaard- «con timore e tremore». Commenta Cacciari: «Impossibile certa conoscenza, impossibile salda previsione. Sta a noi soltanto la cura (o per meglio dire la «preoccupazione», N.d.R.) e l'attendere paziente, il non presumere di sapere e il perdonare». Ma così appunto, secondo noi, la «hybris» contro ciò che Machiavelli chiamava «fortuna», non viene superata ma infranta, e con essa la possibilità stessa dell'azione tesa a contrastare, con la «buena utopia» del «sueño della razòn», la «mala utopia» della «Nuova Atlantide», della tirannide tecnocratica edonista utilitarista e «democratica» di cui Cacciari tratta nel capitolo terzo de "l'Arcipelago" intitolato «Di naufragi e utopie». Che questo annichilimento dell'azione sia plausibile e anzi incontestabilmente meritorio nel cattolico controriformista Calderòn -che prima di essere «poeta» era stato guerriero e uomo d'azione- è chiaro. Meno chiaro è come Cacciari, il «Nietzsche apollineo», possa trovarsi d'accordo con Calderòn che egli oppone risolutamente al primo ideologo della moderna tecnocrazia, il seicentesco precursore del «positivismo sociale», l'inglese Francesco Bacone.

L'esperienza «iniziatica» del calderoniano Rey reus è così descritta, con scoperta partecipazione personale, da Cacciari:

«(...) Il grande Gioco (del potere) possiede (in Calderòn) un senso univoco, è teleologicamente orientato alla nascita del Re, alla celebrazione del Re-natus. Nessuna onnipotenza («dionisiaca» in senso nietzschiano, N.d.R.) lo premia; nel suo stesso trionfo egli teme ancora di doversi ridestare nella cerrada prisiòn. Suo maestro è il sogno (...) e tuttavia la sua sovranità è piena e legittima. Anzi, proprio la formidabile riserva escatologica con cui si presenta sembra conferirle un nuovo indistruttibile fondamento».

Dopodiché -e il significato dei termini usati è inequivocabile- Cacciari afferma:

«Giusta, e cioè immagine di Giustizia, sarebbe, allora, quella legge che viene pronunciata da un Potere disingannato, da un Potere che ha rinunciato a perfettamente sapere (e dunque ad agire con perfetta determinazione, N.d.R.). Il dramma calderoniano non può, alla fine, rappresentare il simbolo del Potere (il simbolo di diritto e Giustizia) che nella forma del più dissonante paradosso: assoluto è giustamente quel potere che sa di non sapere; giustamente regna quel Re che non sa se è desto o se sogna».

 

In tal modo Cacciari, sulla base del «pensiero debole», deduce la «legittimità» di quella «democrazia» che nel capitolo terzo aveva correttamente stigmatizzato come funzionale alla tirannide tecnocratica e al sistema capitalistico che da essa è determinato.

Non possiamo non constatare che egli abbia della Giustizia, che pure scrive con la iniziale maiuscola, un'idea minimale. Avanziamo altresì forti dubbi sull'aderenza allo spirito calderoniano dell'interpretazione di Cacciari, se non altro perché sotto certi aspetti, la concezione del potere propria, alla Controriforma è altrettanto tirannica di quella dominante nella baconiana «Nuova Atlantide», in Bensalem. Ma ha ragione Cacciari nell'adombrare la possibilità che sia stato proprio un certo democratismo controriformistico a «insegnare» alla tirannide tecnocratica le modalità per procacciarsi il consenso della «informe massa»; e per farne il principale strumento di distruzione non del «sueño de la razòn» ma del «sueño» e della «razòn» come tali.

* * *

Riprendiamo adesso il discorso sulla lettura «alchimistica» che propone Cacciari dell'opera di Calderòn, e che, ripetiamo, è allo stesso tempo la chiave di lettura de "l'Arcipelago" e anzi, in essenza, una «alchimia» che si collega alla «geo-filosofia» dell'Autore.

Conseguentemente a ciò che si è fin qui detto, si può assumere come vero che il Calderòn fu un alchimista a tutti gli effetti, potendosi storicamente collegare la sua «ars regia» alla rinascita della Scolastica che si verificò durante la Controriforma e all'alchimia cristiana che ebbe in Alberto Magno e in San Tommaso d'Aquino i suoi più qualificati e illustri fondatori; si veda il simbolo della «rigenerazione» che è la «rossa Fenice» circondata dal tetragramma INRI (cioè: «Igne Natura Renovatur Integra»), in cui i maestri dell'alchimia cristiana, i Rosacroce compresi, vollero vedere una scopertissima allusione a Cristo Redentore; l'Aquinate tratta dell'oro alchemico nella "Summa theologica" e compone un "Trattato della pietra filosofale", nella sua "Aurora consurgens" si spinge fino al punto di rammaricarsi di aver perso molto tempo negli studi teologici, essendosi alla fine reso conto che l'«Ars regia» era in effetti la «vera Via» della conoscenza e glorificazione di Dio.

L'autore della "Nuova Atlantide", Francesco Bacone, non rientra invece nel novero degli alchimisti cristiani per le ragioni che lo stesso Cacciari analizza in profondità nel capitolo terzo de "l'Arcipelago" -e possiamo aggiungere, da parte nostra, che è proprio con l'inglese Francesco Bacone che principia l'involuzione dell'«Hars regia» in direzione della moderna «scienza sperimentale», i cui massimi teorici sono i cattolici controriformisti malgrado tutto, Galilei e Cartesio. Quest'ultimo, avendo fatto istanza di essere iniziato presso i Rosacroce, si ebbe in risposta un drastico rifiuto, nonostante i suoi «indubbi meriti scientifici» e anzi proprio in forza di questi pretesi «meriti». Quanto al Bacone, vogliamo qui ricordare che appartiene a quella «splendida» età elisabettiana in cui l'Inghilterra muove i primi passi della sua espansione «imperiale» grazie a imprese piratesche di avventurieri come Francis Drake. Secondo tutte le fonti, Bacone fu uomo corrotto e pessimo, privo, oltre tutto, di carattere e di grandezza nel male. Politicante della peggior specie come il Walpole, finì però in galera e ne ebbe la «carriera» rovinata (certe situazioni e certi personaggi non sono quindi «squisitamente italici»...). Aggiungiamo queste rapide notizie ad integrazione dell'analisi di Cacciari sulla «nuova Atlantide», in particolare su quella «hybris» mercantile affaristica tecnocratica che è propria, della nostra «civiltà».

Veniamo ora all'«alchimia» di Cacciari, quell'«arte» con cui egli vorrebbe trasformare il «piombo» di Bacone usando di Calderòn come «Pietra filosofale». Se adoperiamo le virgolette riferendoci all'«arte» di Cacciari, non è, ben inteso, per disprezzo pregiudiziale e acritico, sebbene più sopra si sia con chiarezza e motivatamente espresso il nostro dissenso. Vogliamo dire che, per quanto dissentiamo, ci rendiamo ben conto delle difficoltà che il più qualificato alchimista incontrerebbe nell'«operare» su una «materia prima» ostica e riottosa come l'attuale. Quindi apprezziamo il tentativo di Cacciari e non esitiamo a ritenerlo tanto più meritorio in quanto quasi certamente destinato all'insuccesso, ovvero, contro le intenzioni dell'Autore, a tornare funzionale al gioco perverso dei «Saggi di Bensalem», come egli sembra paventare senza tuttavia paventare il Naufragio, quasi condannato, da un destino beffardo a ripetere la tragica vicenda dell'Ulisse dantesco, o anche a pervenire ad un «pelasgismo» psichico come quello di Leopold Bloom, l'Ulisse joyciano.

Sono qui necessari alcuni richiami sull'ultimo Nietzsche. Dioniso è presentato ne "La volontà' di potenza" come il «dio» in cui magicamente si identifica il «Super-uomo» nella sua versione ultima, come «l'affermazione religiosa della vita totale, non rinnegata né frantumata», come l'accettazione orgiastica della vita come essa è e come via via viene presentandosi secondo forme che «si ripetono» sempre uguali a se stesse nella loro primordiale e irriducibile ferocia (op. cit., ed. 1901, par. 479). L'uomo dionisiaco vuole l'«eterno ritorno» di questa ferocia e pretende che il «restituire» la ferocia alla «civilizzazione», bandendo da essa ogni ipocrita illusione di «progresso» ma anche tutti i meccanismi concretamente orientati a contenere gli effetti distruttivi della ferocia, abbia l'effetto di realizzare la palingenesi del mondo moderno, di liberare le potenzialità della «civiltà del super-uomo» che sono presenti nella inferiore «civiltà dell'uomo» ispirata dalla astuta menzogna «giudaico-cristiana». Ma Dioniso è «crocifisso» al fluttuare perenne del suo psichismo, perché egli «possiede» la Volontà di potenza attraverso la «rappresentazione» psichica dello stato orgiastico, e non, come ancora nel suo maestro Schopenhauer, attraverso la sua «rappresentazione» filosofica e cioè «apollinea», capace di distacco e comunque controllabile attraverso la «negazione della volontà» (la «Nolontà») che si realizza asceticamente estinguendo ogni desiderio, il desiderio che è il principale veicolo, per Schopenhauer come per Buddha, con cui agisce sugli esseri viventi e semplicemente esistenti la Volontà della Vita biologicamente intesa, in ciò che essa si manifesta come «principio del piacere», come tendenza a persistere in una immobilità estatica e, nella natura inorganica, come «principio di inerzia» e come «entropia». Al contrario, l'orgiasmo dionisiaco, come totale abbandono alla voluttà del fluire nella psiche della Volontà (di potenza) è la più completa negazione di ogni «ubi consistan», è un «navigare» joyciano in un «arcipelago senza approdo», dove si approda soltanto per poter ripartire e in cui non è possibile la libertà come volontà di mai più ripartire: cioè la mia volontà e non la volontà sub-personale della Volontà (di potenza). Così, nell'ultimo Nietzsche, il «Super-uomo, l'uomo dionisiaco» sembra essere soltanto l'«uomo pelasgico» di Klages: l'Ulisse che, secondo una penetrante intuizione di Hölderlin, Omero ci presenta come l'antitesi del vero eroe «solitario ed estatico» del suo eroe che è Achille, e soltanto Achille.

Se per Hölderlin il vero protagonista della "Iliade" è Achille, proprio perché assente quasi sempre dall'azione e presente solo quando deve uccidere Ettore, e per morire egli stesso ucciso da Paride (uomo pelasgico «par exellence» essendo seduttore-rapitore della bella Elena, violatore dell'«oikos» di Menelao e causa della guerra di Troia, città «pelasgica» in quanto padrona dell'accesso agli empori del Mar Nero e grande potenza commerciale), se il mito attribuisce all'astuzia di Ulisse la fatale partecipazione di Achille alla guerra di Troia e dell'astuzia di Ulisse ne fa una vittima più di una volta (anche nella persona di quell'altro Achille che è Aiace Telamonio); è lecito domandarsi perché Omero, invece di scrivere l'"Odissea", non abbia scritto la «Achilleide». La risposta sembra essere implicita nell'intuizione di Hölderlin. Achille è l'eroe che tramonta, rappresenta il passato «feudale» degli Achei; al contrario Ulisse re di un'isola dell'arcipelago ionio, è l'eroe che sorge e sorge sull'«Arcipelago». Ulisse è l'«irresistibile», vocazione degli Achei all'impero marittimo e commerciale, dopo che essi sono entrati in contatto coi Cretesi e ne hanno abbattuto la talassocrazia, sostituendosi ai Cretesi e mettendosi in una situazione di inevitabile conflitto con Troia. In questo senso, Ulisse, costringendo Achille a partecipare alla guerra di Troia, ne deve «fatalmente» causare la morte. E ne deve scontare il fio con vent'anni di assenza dalla propria casa, essendoglisi rivoltato contro, «fatalmente», il dio delle «acque infere», quel Nettuno che invece avrebbe dovuto favorirlo quanto la stessa Minerva. Ad Omero interessa più Ulisse che non Achille, per il semplice fatto che Ulisse rappresenta il presente della Grecia (e più ancora il suo futuro) che deve riconciliarsi col passato rappresentato da Achille. Nonostante tutte le interpretazioni (compresa entro certi limiti quella di Cacciari), Ulisse non appartiene alla tipologia dell'uomo «pelasgico». Nei dieci anni delle sue peregrinazioni egli ha un solo pensiero, ritornare a casa. È essenzialmente per questo che Nettuno lo ostacola in ogni modo: il dio delle «acque infere», che è fratello del dio della ricchezza Plutone, sa che, tornato ad Itaca, Ulisse non ne ripartirà mai più. Ed è questo il motivo per cui all'eroe è favorevole Minerva, la Atena Parthenos greca che è sicuramente e totalmente una divinità solare. L'Ulisse omerico è in definitiva un tipo «apollineo» che resiste a tutte le fascinazioni «pelasgico-dionisiache» (le Sirene, Circe), che non le cerca ma le incontra sul suo cammino e le vince, come vince Polifemo, il figlio di Nettuno, il nipote di Plutone, che ha un solo occhio equivalente mostruoso del «terzo occhio» iniziatico. Ulisse non è che un Achille che deve affrontare l'esperienza «pelasgico-dionisiaca», che la affronta e la supera ed è reintegrato, ma arricchito del trionfo nella prova suprema per un eroe, nella sua condizione originaria.

Col che, nell'"Odissea" più che nell'"Iliade" è dato di intendere cosa per il Greco pre-classico sia Dike, l'ordine solo apparentemente variabile di una invariabile Giustizia cosmica, in ciò che racchiude il «mistero filosofico» dell'Uno parmenideo, tanto più «misterioso» per un Platone in quanto, nella cosiddetta «età classica» e per l'«inesplicabile» trionfo del pelasgismo nell'Atene periclea, il Greco viene a scoprire Tyche, la «casualità» che sconvolge e infine soppianta definitivamente il regno di Dike. La «casualità» come irrazionalità di Dike è proprio quel «radice quadrata di tre» che emerge dal tentativo di risolvere il problema della quadratura del cerchio col teorema di Pitagora, «radice quadrata di tre» che vanifica il preteso carattere «sacro» del Quattro, della «santissima Tetrakis» pitagorica. Risulta parimenti non sacro il simbolo della «greca», del «motivo ornamentale» a tutti noto, la quale rappresenta le onde del mare e deriva, «per quadratura», dalla «greca» spiraliforme raffigurata nelle «padelle» e nei vasi della più remota arte fiorita nell'area greca, appunto nell'arcipelago delle Cicladi: simbolo, la «greca» cicladica, di quel «pelasgismo dionisiaco» alla cui prova Dike volle sottomettere il suo Ulisse, e che quest'ultimo ridusse alla dimensione apollinea, «quadrandola», della «greca» nella sua forma più conosciuta.

L'origine della tragedia greca come genere drammatico, con buona pace di Federico Nietzsche, non è affatto «dionisiaca» ma «apollinea»: nasce proprio da una crisi dell'apollinismo omerico che in parte, per quel che si è detto, ha ragioni banalmente economiche. Ma il «sentimento» della crisi è tanto più sconvolgente in quanto contemplato dalla pura, e distaccata ragione apollinea: non solo nel «reazionario» Platone o nell'ignoto autore della "Costituzione degli ateniesi", ma anche in «intellettuali progressisti» come Tucidide, Sofocle, Euripide. Io credo che la parola definitiva sull'origine della tragedia la abbia detta un autore molto meno noto e «scandaloso» di Nietzsche, l'Autore di "Forma ed Evento", l'illustre grecista Carlo Diano, allievo di Giovanni Gentile e per molti anni Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Ateneo padovano. Carlo Diano, fra l'altro, seppe dare il giusto peso alle ragioni storico-economiche della tragedia, senza eccedere comunque in senso «spiritualistico-esistenzialistico», nella sua "Introduzione all'Alcesti di Euripide". Qui egli individua il nodo tragico in una «defectio voluntatis» dell'eroe Admeto, l'«aristos» messo in crisi dalla marea montante dei «kakoi del demos», dei quali finisce con l'assumere la mentalità utilitaristica consentendo che la moglie Alcesti muoia al suo sosto. Sicché quest'ultima, una donna, viene ad assumere tutti i caratteri virili che mancano al suo uomo, e s'erge ad ultima e stregua assertrice dell'«areté» piuttosto che dell'«oikos». La situazione tragica si risolve con l'intervento di Ercole, il dio della «areté» apollinea per antonomasia, che non rimprovera a Admeto la sua «umana debolezza», ma la sua mancanza di fede nell'assoluto valore dell'«areté». Se tu mi avessi invocato -dice Ercole- io non avrei mancato di venire in tuo soccorso.

In quest'ottica, allora, l'«oikos» dei Greci non è la casa «stricto sensu» intesa, né l'«arcipelago», ovvero la relazione dialettica dell'una con l'altro vista nel rapporto «Hospes-hostis» (i due termini non potendosi considerare sinonimi neanche in una pretesa condizione originaria di «pelasgismo dionisiaco», perché la logica mercantile, anche a livello di baratto primitivo, esclude l'orgasmo e ne ammette soltanto la finzione a scopo per così dire pubblicitario). L'«oikos» dei Greci è invece una dimensione tutta interiore in cui si misura la fedeltà ai valori, in cui l'«arcipelago» si definisce nelle molteplici deviazioni dai valori che non solo si verificano ma che possono anche verificarsi teoricamente. Questi valori sono comuni a tutti, compresi i «kakoi del demos», che tali sono non perché li ignorano, ma perché deliberatamente li violano per trarne un vantaggio materiale. La casa del Greco era il Tempio e la Piazza («Agorà»). Nella Piazza egli manifestava la propria interiorità, dialogava e faceva politica. Nel Tempio, adorando il Dio, nel suo simulacro venerava il suo Essere Uno nei Molti.

Sicché per il Greco la casa non è un «tempio», come lo diventerà con l'avvento del cristianesimo per il quale essa è precisamente il tempio privato di cui la donna è la custode e la sacerdotessa. Per tale motivo, noi non possiamo condividere l'interpretazione cacciariana dell'Alcesti e della Antigone. Essa ha il difetto di vedere le due eroine giusto dal punto di vista del cristianesimo, attribuendo ad esse valori e «sentimenti» che storicamente non potevano loro appartenere. Su Alcesti abbiamo già detto. Quanto ad Antigone, il suo conflitto con Creonte non nasce dall'essere ella lo «spirito dell'oikos» in irriducibile antitesi con quel «più grande oikos» che è lo Stato, ma piuttosto da una vera e propria «mania», da una presunzione affatto soggettiva e patologica, da collegarsi al «fato» che incombe sulla progenie dell'incestuoso Edipo. In Antigone si ridesta il retaggio del demetrismo pre-ellenico, l'ossessione di quella promiscuità incestuosa in cui era inconsapevolmente ricaduto un eroe come Edipo, apollineo perfino dopo la «caduta», in quel suo «accecarsi». Questo demetrismo arcaico che si trova alla base dello stesso pitagorismo e di quello che è poi il dionisismo storico, è l'elemento conflittuale irrisolto della spiritualità greca, il vero motivo della sua finale dissoluzione nel «periodo classico», nell'Atene periclea. Attraverso l'influenza di tale demetrismo si fa strada, riemergendo nell'imperialismo marittimo di Atene, il primitivo pelasgismo cicladico, cioè quel che noi abbiamo chiamato «pelasgismo dionisiaco». Antigone non è che il veicolo di questo processo, che nella "Lisistrata" e nelle "Ecclesiazuse" di Aristofane giunge ad esprimersi con connotazioni decisamente «femministiche» in senso modernissimo, in aperta contraddizione con l'ascetismo rigoroso, quasi «mariano», del demetrismo più evoluto, quello pitagorico. E ancora, la «mania» di Antigone ha qualcosa per cui trascende il piano della mera patologia, qualcosa per cui si connette alla teologia in crisi del pitagorismo, alle sconcertanti scoperte relative al tentativo di risoluzione del problema della «quadratura del cerchio»: alla scoperta dei «numeri irrazionali» e alla scoperta, ben più sconvolgente, della realtà dell'Irrazionale. Per tale motivo il Greco fu radicalmente sempre anti-femminista, tanto da considerare la donna, più che la «sacerdotessa della casa», una vera e propria prigioniera della casa, pressoché una reclusa nel «gineceo»; ragione in più, questa, contro le tesi cacciariane di Alcesti e Antigone «sacerdotesse dell'oikos», il cui intento sarebbe nella sostanza quello di problematizzare ed attenuare la ferrea e «maschilista» concezione dello Stato dell'uomo greco, che è quanto dire la triade (non la «tetratide» pitagorica) costituita da Achille-Ulisse-Creonte.

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Se il punto nodale de "l'Arcipelago" cacciariano è nella letteratura «alchimistica» del dramma di Calderòn, la storicizzazione di questa lettura, nel senso della «geo-filosofia», è nei capitoli successivi che conducono alla conclusione del saggio, in alcuni «passaggi» ricalcanti in qualche modo lo schema della degenerazione e della dissoluzione dello Stato nella «democrazia» e nella «tirannide», come descritto da Platone nel dialogo della "Repubblica".

Il primo «passaggio» ci conduce da "La vita è sogno" di Calderòn a "La Torre" di Hofmannsthal. Il «Rey» di Calderòn -dice Cacciari- «può ancora esibire autorità estetica, (suscitare ammirazione per quelle qualità che lo distinguono dagli altri), etica (educare gli altri, attraverso la propria vicenda e la propria parola - essere per gli altri un ponte verso la verità) e religiosa (accendere con l'esempio una passione simile alla sua). In questa forma egli si rappresenta agli altri, consapevole, certo, dei pericoli che essa, nasconde, ma anche fiducioso di poterli oltrepassare». Una simile «fiducia» viene invece del tutto a mancare ne "La Torre". Qui il «Re» è Signoreggiato dall'idea fissa d'una impossibilità «ontologica» dello Stato, e dunque si sé stesso. Per lui, la sua stessa vita non è «sogno»: semplicemente non è, non è nemmeno nel senso -poniamo- in cui un vegetale dotato di coscienza potrebbe percepire il proprio «vegetare». «L'immagine della città -dice Cacciari- si è contratta in quella della civitas hominis; la civitas dei neppure è sentita come un nondum, come contenuto di una, magari cieca, speranza, ma piuttosto come un morto passato. E la civitas hominis, non più in tensione con la civitas dei, abbandonata, non può che crescere in un senso, in una direzione sola: quella dell'amor sui, della philopsychìa prepotente e inospitale, usque ad cotemptum dei». E questa «philopsychìa» -dobbiamo aggiungere- è quella del «dionisismo» politico di Nietzsche, ma anche del «pelasgismo psichico» di Joyce, con tutte le componenti derivate dalle influenze sub-personali, e anzi demoniache stricto sensu, del freudismo. L'Oliver de "La Torre" diventa così, in virtù dell'abdicazione di re Sigismund (abdicazione che è psichica prima che «ontologica»), «la volontà di potenza che ha rinunciato ad ogni apparenza regale», una volontà che è ormai perfettamente funzionale alla tecnocrazia baconiana. Il Rex-Pontifex, preda di una «mania» che ha assunto connotati «filosofici» come quella di Antigone, cede il trono al «medico» Oliver, il quale, in Hofmannsthal, non è che il «doppio» degradato, la «scimmia» del Creonte Sofocleo.

Il «passaggio» successivo che ci propone Cacciari è dato dalla figura dell'«ultimo eroe», di colui che «crede» nella possibilità di redimere la «democrazia» dal suo peccato originale, il quale consiste nell'essere la democrazia «figlia» della mala alchimia dei «monstratores» di Bensalem, cioè figlia della «prestidigitazione» tecnocratica. Cacciari individua l'«ultimo eroe» in Max Weber, poiché egli ha distinto l'«abissale contrapposizione (...) fra un agire etico che obbedisce esclusivamente all'imperativo di tener desta la fiamma del proprio Fine, e un agire che deve invece calcolare gli effetti delle proprie decisioni, cercare i mezzi idonei a realizzarli, tra i quali non può non esservi anche il possibile ricorso alla violenza, lo scendere a patti e compromessi con le potenze diaboliche che stanno in agguato in ogni violenza». Ma la vera potenza diabolica con cui deve misurarsi l'«ultimo eroe», è data da quell'apparato burocratico senza cui egli non potrebbe «agire sulla storia», senza cui egli non sarebbe un «politico» ma un «santo». Infatti la burocrazia e la tecnocrazia sono quasi l'identica cosa (e fra poco vedremo perché «quasi» e non «del tutto»). In definitiva è la necessità della burocrazia ciò che spinge l'«ultimo eroe» a diventare «tiranno». Se egli saprà contrastare questa tendenza, essa tuttavia si affermerà inevitabilmente dopo la sua morte. L'«etica della convinzione» in cui consiste il «carisma» dell'«ultimo eroe»; e cioè la sua perfetta santità, diventa, per il carattere necessario della burocrazia, «etica della responsabilità», ciò per cui il Politico vale più del Santo, essendo il Politico, nello stesso tempo e in forza dello stesso principio, perfettamente Santo e perfettamente Reo, La sua «santità» consiste in ciò: che egli accetta il rischio della «dannazione eterna»; sa che, per compiere la sua missione, deve soccombere al rischio, deve essere «dannato da Dio» ed esecrato dagli uomini, in eterno. L'«ultimo eroe» può identificarsi in Max Weber solo nel senso che questi «filosoficamente» ha indicato la via, e ne ha spiegato a fondo la necessità, ai dittatori del XX secolo. Questa via è l'unica possibile -il paradosso è solo apparente- per riaffermare il Regno della libertà in un mondo da cui esso era stato bandito, irreversibilmente secondo ragione, sin dall'epoca in cui fu scritta la baconiana "Nuova Atlantide", a fronte della quale il dramma di Calderòn non può neanche interpretarsi come la risposta polemica della «buena» e cioè della vera «outopia», ma come un «utile puntello» alla mala outopia, finalizzato alla penetrazione di quest'ultima fra le nazioni latine, dove un certo cattolicesimo controriformistico sarà una componente non secondaria del fascismo (si pensi a Maurras) e la causa prima delle sue tendenze involutive.

Come Weber, e come noi pure, Cacciari dovrebbe essere convinto -e senza alcuna riserva- che non il capitalismo ha determinato la tecnocrazia, ma che, viceversa, è stata la tecnocrazia a determinare il capitalismo per realizzare compiutamente il suo progetto di dominazione universale: un progetto -diciamo noi- che deve affermarsi come dominio astratto d'un capitale finanziario sempre più svincolato dall'economia «naturale» (produttiva di beni atti a soddisfare i bisogni primari dell'uomo e non confliggenti con la sua spiritualità), di un capitale che ormai si autoproduce secondo la «vetusta» logica dell'usura e per mezzo dei «modernissimi» ultra-sofisticati strumenti informatici, in sostanziale conformità alla originaria essenza dell'«utopia» baconiana, d'una tecnocrazia di cui i tecnocrati non sono che agenti materiali: in quanto dire «schiavi», o soltanto «servi», sarebbe già troppo, ai tecnocrati riconoscendosi ancora una parvenza di umanità, che è invece in stridente contrasto con la «metafisica autoposizione» della tecnocrazia, con la tecnocrazia da vedersi non come «opera in definitiva pur sempre umana», ma come una sorta di filiazione delle «potenze diaboliche» contro cui nulla vi sarebbe da fare, se non l'assunzione di un atteggiamento di «apollinismo nietzschiano» (geo-filosofico) come delineato nel capitolo finale de "l'Arcipelago", in direzione di un'apertura illimite nei confronti del «theòs xénos».

E allora, per noi, l'«ultimo eroe» non potrà essere Max Weber e neanche Karl Marx, il suo precursore «proletario». Sì, invece, Lenin o Mussolini indifferentemente, e, perché no, lo stesso «principe del Male» Adolf Hitler, o il suo «più fortunato» collega di «nequizie» Giuseppe Stalin. Essi, come Weber e Marx, come l'«ultimo eroe», dovevano essere sconfitti secondo il principio irriducibilmente antinomico dell'eroismo nella sua «ultima» riproposizione storica: il principio della conflittualità fra «etica della convinzione» ed «etica della responsabilità». Ma dovevano essere sconfitti anche «fatalmente», per dirla con Cacciari, in quanto la tecnocrazia non poteva non vincere. La loro sfida alla tecnocrazia era infatti l'impossibile sfida al «nuovo dio» e anzi all'ultimo «Vero Dio» (nel senso della «Simia dei» dell'ermeneutica apocalittica). Gli «ultimi eroi» sono folgorati come il Capaneo del mito greco, ovvero travolti dai flutti come l'Ulisse dantesco in vista della Montagna del Purgatorio, sulla cui vetta è posto il Paradiso terrestre. A differenza di Cacciari, noi non vediamo nella «tragedia degli ultimi eroi» la riproposizione ennesima e in definitiva senza senso dell'«eterno ritorno». Ci è estranea la «contemplazione apollinea» di questa «tragedia». Ci è estranea l'idea, parimenti, che ad essa si debba partecipare «filosoficamente» epperò anche «sentimentalmente», attraverso una «philìa» e una «filantropia» in definitiva cristiane, calderonianamente cristiane, le quali restano per noi, malgrado duemila anni di cristianesimo cattolico, forme evolute di dionismo, al riguardo potendo essere assai illuminanti i nessi individuati dal Bachofen fra demetrismo e dionisismo, come si vedrà più avanti. Degli «ultimi eroi» non ci interessa tanto il «titanismo», l'avere essi romanticamente «osato l'inosabile», e neanche il tanto decantato «volontarismo». Tutto ciò ha la sua importanza, ma concerne ancora i piani meno elevati della Politica. Nelle «realizzazioni» degli «ultimi eroi» ci interessa piuttosto ciò che è stato in concreto fatto a partire dalla consapevole assunzione del principio antinomico dell'etica della convinzione-responsabilità, che è stato fatto oltre la logica «umana» del successo-insuccesso, e anzi, precisamente, contro questa logica, che deve ritenersi «umana» solo in senso tecnocratico-borghese. Noi diciamo che ciò che è stato fatto può essere fatto ancora e sempre, che non esiste il fato se non come condizione della scelta della vera libertà. La colpa dell'uomo non è che il suo essere al di sotto della possibilità della libertà: il volervi «umilmente» restare per rendere necessaria la presenza di un «Sotere» e di un «Paracleto». La colpa è non saper essere soli, stare da soli. Crediamo che solo così si possa veramente incontrare l'altro, evitando sia di renderlo schiavo della propria «volontà di potenza» (che è un eufemismo indicante l'«utile» e in definitiva l'«interesse bancario»), sia la stolta e risibile presunzione della «philìa» ad ogni costo, come non fosse vero che il più delle volte, e a prescindere dagli aspetti patologici della xenofobia che pure vanno attentamente considerati, l'«hospes» finisce, effettivamente e intenzionalmente, col trasformarsi in «hostis», in un nemico (nelle «guerre fra poveri, chi può ragionevolmente negare che non vi siano sempre stati dei «poveri» che per interesse e in piena consapevolezza stanno dalla parte dei «ricchi»?). La «solitudine», la «misantropia» iniziatica si pone esattamente al centro fra due atteggiamenti «troppo umani» e in essenza identici: quello della misantropia vera e propria (e della stessa xenofobia) che nasce dal «risentimento», e quello della filantropia (della xenofilia e del cosmopolitismo) ad ogni costo; il quale ultimo ha la sua origine in un «risentimento» timido e senza possibilità alcuna di acquistar nerbo: e tanto meno di sublimarsi effettivamente nella «charitas» cristiana, che oggi, a differenza del passato (di un passato neanche troppo remoto) non è in effetti capace di un concreto annientamento dell'Io-dio. Il primo atteggiamento è quello proprio al giudaismo, il secondo quello proprio al cristianesimo cattolico. Le due religioni non a caso sono tanto identiche quanto divergenti e irriducibilmente nemiche. Ma nel cattolicesimo l'annientamento dell'Io-dio, dato come effettivamente realizzato, distrugge misticamente, nel dio personale e misteriosamente trino, l'Io come coscienza e lucida, impersonale consapevolezza. Il santo cattolico ha bisogno di annientarsi in Dio, di «assaporare», sentimentalmente e sensualisticamente, questo annientamento. In qualche modo egli vuole rientrare nell'utero paterno. Per tale ragione prima si collegava il cristianesimo al dionisismo e, nello stesso tempo, al demetrismo: beninteso, non considerando nel cattolicesimo altro che la componente giudaico-cristiana, non quella platonica e «pagana».

È ora opportuno il richiamo a Bachofen che più sopra si era annunciato.

«Nella lotta fra il principio eterico (dominante nel «pelasgismo» cicladico, N.d.R.) e quello demetrico (delle civiltà pastorali-agricole della cosiddetta «mezza luna fertile» dell'area medio-orientale del Mediterraneo, N.d.R.) il prorompere del culto dionisiaco rappresenta una nuova svolta e una ricaduta deleteria dell'intera civiltà antica. (...) Dioniso ci appare come uno dei grandi antagonisti del matriarcato e soprattutto della esasperazione amazzonica (femministica ante litteram, N.d.R.) di esso. Irriducibile avversario della degenerazione innaturale di cui la donna, quale Amazzone, si era compiaciuta, egli si mostra invece conciliante e benevole dovunque la legge monogamica sia osservata, dovunque la donna riprenda la sua funzione di madre, dovunque sia riconosciuta la superiorità e la grandezza propria alla sua natura fallico-virile. Da questo punto di vista il culto dionisiaco sembrerebbe aver sostenuto il principio demetrico del matrimonio ed aver notevolmente contribuito al vittorioso affermarsi della teoria paterna. Se un tale aspetto del dionisismo non può esser contestato, pure sta il fatto che il culto dionisiaco ha anche fomentato energicamente un orientamento eterico (edonistico-consumistico in senso contemporaneo, N.d.R.) della vita, cosa provata dalla storia dell'influenza da esso esercitata sull'intero mondo antico. La stessa religione che dette posto centrale alla legge monogamica favorì, più di ogni altra, il ritorno della vita femminile al puro naturalismo dell'afroditismo; essa, che dette al principio virile un risalto assai maggiore che non al principio materno, doveva contribuire notevolmente alla degradazione dell'uomo e persino al suo soggiacere alla femmina» (dall'Introduzione a "Das Mutterrecht", con finale nostro).

Ciò che balza agli occhi nel testo bachofeniano, è che quanto detto circa il dionisismo, dalle origini alle sue espressioni ultime, vale a capello anche per il cattolicesimo, oltre che per il cristianesimo in generale. Il rapporto del dionisismo con la degenerazione dell'apollinismo acheo-dorico (simboleggiato per noi dall'Ulisse omerico) nel pelasgismo mercantile-imperialistico dell'Atene periclea, richiama, anche qui con sorprendenti analogie, la «protestantizzazione calvinistica» del cattolicesimo: non può essere un caso se, più o meno nello stesso periodo in cui compare la "Nuova Atlantide" baconiana, si diffonde in Francia, in un «milieu» fortemente segnato dalla presenza calvinista degli Ugonotti, il movimento giansenista. Nell'abbazia di Port Royal i Padri Arnauld e Nicole studiano la logica indipendentemente dalle sue implicazioni teologiche, e il loro allievo Blaise Pascal, l'autore dei tormentati "Pensieri" e uno dei precursori della filosofia esistenzialistica, si occupa di meccanica dei fluidi, di calcolo delle probabilità e di altri importanti questioni di matematica e geometria che gli consentono di mettere a punto il primo computer moderno a funzionamento meccanico. Il giansenismo influenzerà in maniera consistente il cattolicesimo liberale del nostro Manzoni, e col Concilio Vaticano II troverà un «modus vivendi» perfino coi Gesuiti, determinando tutto ciò che di profondamente ambiguo permane nell'attuale orientamento della Chiesa cattolica: nel suo spasmodico modernismo, nel suo cercare il «dialogo» con le altre fedi e persino con le più «primitive», nel suo «patteggiare» con lo «spirito» della scienza sperimentale (che è ben altra cosa dal riconoscere la realtà e persino l'utilità delle sue «scoperte»), nel suo «ritrattare» la condanna inflitta a Galilei, nel suo «riconsiderare» gli «immortali princìpi della Rivoluzione francese», e, in una parola, nello «storicizzare» la verità eterna di una fede che non può adempiere il suo compito di guida della storia, ove ridurci ad affermare dogmaticamente, chiaramente e incontrovertibilmente la sua assoluta autorità, la superiorità della teologia, rispetto a qualsiasi logica umana, quand'anche essa si fondasse sulla pretesa «verità dei fatti» e anzi del fatto: perché il «credere nel fatto», nella violenta imposizione del fatto, è pur sempre una «fede», con buona pace di tutti i nemici delle fedi religiose, l'opporsi ai quali, con pari e anzi superiore protervia (se si è abbastanza forti, forti nella fede), diventa una necessità razionale per lo stesso illuminista onesto. Non ci curiamo affatto se ci si dirà che il nostro modo di ragionare è quello tipico del fanatismo. A noi interessa piuttosto evidenziare che questa logica non è quella del dionisismo. Se essa presenta caratteri di «tragicità», questi non sono certo «apollinei» nel senso della «filosofia», perché dovrebbe essere ormai chiarissimo che non abbiamo nessuna fede nella «filosofia»; che ci precludiamo persino la «fede nella fede» che «filosoficamente» dovrebbe essere per noi obbligata), in quanto l'unica fede, cui siamo cromosomicamente e fortissimamente inclinati «per educazione», non può soddisfarci più perché ormai troppo dionisiaca. Questa fede cattolica apostolica romana non è più neanche capace di essere veramente demetrica. Quale forza «fallico-virile» essa esprime in concreto. Aspettiamo un Savonarola e un Lutero in gonnella, e potremmo anche «piegare il ginocchio» perché il nostro radicale anti-femminismo non è pregiudiziale, non è nato dalla «retorica» ma dalla «persuasione», e dalla «persuasione» potrebbe essere «ucciso». Epperò giammai da una «persuasione» che facesse appello ai «sentimenti». Sappiamo bene che il vero demetrismo, quello pitagorico, quello che è stato anche della Chiesa medioevale, disdegnava questi argomenti «troppo umani».

Francesco Moricca

 

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