da "AURORA" n° 43 (Agosto - Ottobre 1997)

RILEGGENDO

«Italia per bene»

Giorgio Pini

Tristemente nostalgica del più grigio passato, la vignetta di copertina di un fascicolo de "il Borghese" presentava due carabinieri in contemplazione di un aulico ritratto di Umberto I, con la didascalia: «L'Italia per bene».

Queste assurde, incredibili serenate a un tempo che fu e che non tornerà, ispirate all'ottusa concezione dello Stato di polizia, non sono sentite nemmeno da chi le suona per sfruttare ai fini editoriali i deteriori sentimentalismi dei ceti conservatori più chiusi, dei pensionati ancora vaghi delle fallite imprese autoritarie dei Bava Beccaris e dei Pelloux, squallidi eroi dell'Italia umbertina, e per deviare su strada sbagliata le idee dei giovani più sprovveduti.

Italiani onesti, dotati di civiche virtù, ce ne furono senz'altro in quel periodo spiritualmente e materialmente depresso dopo il magnifico slancio risorgimentale, come ce n'erano stati prima, ce ne furono dopo, ce ne sono, checché ne dicano i disfattisti professionali di oggi, e ce ne saranno domani. Ma resta fermo che l'Italia dell'ultimo quarto dell'Ottocento visse una fase spiritualmente, politicamente, socialmente, economicamente depressa, di paese che stentava a maturare come nazione e a rendere tutti i cittadini partecipi alla vita dello Stato.

Ai lodatori del passato per diffamare il presente, che non sanno o fingono di non sapere cosa davvero fu quel passato, potremmo rinfacciare autorevoli testimonianze e giudizi degli scontenti di allora. Ma occorrerebbero volumi. Basti ricordare i famosi versi coi quali il Carducci fustigò la classe dirigente sua contemporanea. «Più che ci allontaniamo dalla grande rivoluzione -scrisse Crispi- e più gli animi diventano gelidi, meschini, quasi anti-patriottici». Di ciò fu non meno insofferente Oriani denunciante come reazionaria la monarchia.

Clamorosi, gravissimi furono gli scandali scoppiati in quell'«Italia perbene», che i borghesi de "il Borghese" vogliono far passare per candido agnello. Nulla, da allora, si è visto di simile allo scandalo della Banca Romana, che coinvolse i maggiori politici del tempo, e sfiorò la Corte. Non parliamo dei brogli elettorali, del trasformismo politico, ch'era il contrario e molto peggio della partitocrazia, delle lotte personali fra notabili condotte senza esclusione di colpi, delle occulte influenze della massoneria in tutti i settori pubblici, burocratici, giudiziari e perfino militari. Fu quella una Italia tutt'altro che da rimpiangere; un'Italia che non meritò affatto poeti come Carducci, Pascoli, e D'Annunzio, come non meritò e perfino misconobbe un Oriani, un Marconi.

Solo degli snobs discendenti dei «consorti» che per decenni fecero il bello e il brutto tempo, dei «padroni» dalla mentalità feudale, dei baroni latifondisti, degli oziosi salottieri possono rimpiangere quell'epoca di squilibrio economico, di sottoproletariato costretto alla fame o alla emigrazione, di piccola borghesia ridotta cliente della grossa borghesia insaziata di privilegi e di sovvenzioni, arbitra dello Stato, i cui funzionari perseguivano come malfattori quanti si impegnavano in difesa dei diritti del lavoro, e li diffamavano con motivazioni come la seguente a carico di Andrea Costa, arrestato e denunciato «per oziosità, vagabondaggio, e per sospetto di reato contro le persone e la proprietà»: motivazioni che marcano di supremo ridicolo la mentalità di quell'«Italia perbene» e del suo braccio secolare.

Povera Italia uscita con le «mani nette» dalla conferenza di Berlino, perdente la partita di Tunisi, battuta ad Adua, priva di un programma per il Mezzogiorno abbandonato alla estrema miseria, ma rifiutante a lungo il diritto di sciopero, insidiata dall'opposizione clericale, dalle «questioni morali» che Crispi e Giolitti si rilanciavano. «Solo l'interesse materiale, la borsa, le importazioni e le esportazioni sono diventati il nostro Dio», scriveva nel suo Diario il presidente del Senato Domenico Farini. E se oggi Merzagora lamenta gli eccessi della partitocrazia, allora Farini deplorava invece la mancanza di una netta distinzione fra i partiti, e così dipingeva la Camera dei Deputati dell'epoca: «Una bettola dove trenta energumeni urlano come ossessi, bestemmiano come ubriachi e si impongono col chiasso, col turpiloquio, colle minacce alla grande maggioranza». Aggiungeva: «Come noi abbiamo uno spaventevole disavanzo finanziario, ne abbiamo un altro non meno spaventevole di forza e di rispettabilità militare».

Ecco serviti gli adoratori dell'Italia umbertina, che sono poi i destrorsi conservatori, autoritari, ossia la più dannosa e tenace gramigna che da un secolo infesta la vita politica nazionale.

A motivarne la condanna siamo d'accordo con le ragioni esposte da Silvano Spinetti nel suo "Vent'anni dopo - Ricominciare da zero", edito da Solidarismo. «Lo Stato liberal-capitalista -scrive Spinetti- si propone l'assoluto prepotere del potere economico sul potere politico, la subordinazione all'interesse economico di una minoranza del benessere della maggioranza, lo Stato al servizio dell'imprenditore da considerare come l'unico o il più grande benefattore della collettività, presentato come la vittima incompresa o tartassata del potere politico che egli invece indirettamente dirige o pone al suo servizio».

«Si consideri la storia d'Italia dall'unità all'avvento del fascismo. La storia di uno Stato che, essendo apertamente o dietro le quinte diretto dai liberali o dai possidenti del tempo, fece dell'Italia il paese dove le distanze sociali erano maggiormente sentite. Fra il Nord e il Sud, fra gli imprenditori e i lavoratori. Fra i proprietari terrieri e i contadini. Dove le ricchezze e le terre erano più iniquamente distribuite. Dove si riscontrava il maggior numero di analfabeti e di disoccupati, il minor numero di ospedali, i più scadenti servizi pubblici».

Questi, non altri, i veri connotati della «Italia perbene» cui si rivolgono i sensi elegiaci de "il Borghese" e la sua frusta apologia ispirata da aprioristica smania di contraddizione al presente, da una presentuosa formula etica, estetica e di costume che va respinta, soprattutto da furbo sfruttamento dell'animo dei farisei «benpensanti» e «uomini d'ordine», individualisti fanatici del più tetragono conservatorismo, dei più gretti egoismi antisociali.

Ma peggio della speculazione editoriale sul vizio conservatore è la vergogna dei politici monarchici, missini, liberali che si assumono di sostenere in Parlamento non gli interessi della nazione, ma quelli di una classe, sempre di quella, soltanto di quella detentrice del potere economico, mai delle altre, con una tenacia degna di cani da guardia.

Avete sentito come sono scattati mentre Gronchi confermava le sue vedute sociali al Senato? Nelle loro interruzioni si smascherava uno zelo sfacciato assolutamente unilaterale, e si scopriva la incredibile vocazione al rinnegamento di ciò che di valido resta del passato ciclo politico in tal modo offeso proprio da certuni che pretendono rappresentarlo.

Giorgio Pini

 

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