da "AURORA" n° 44 (Novembre - Dicembre 1997)

TRA STORIA E CRONACA

Nome: MSI - Paternità: SIM

Franco Morini

 

Il documento 1/97 pubblicato a cura della FNCRSI, contiene una ampia analisi con relativa critica alla genesi involutiva che ha influenzato più o meno tutta l'area neofascista a partire dalla sconfitta del '45. La premessa a tale documento recita testualmente che: «Fondato per continuare la RSI, il MSI divenne presto strumento dell'antifascismo. Venuta meno tale funzione lo strumento è stato messo da parte. Chi, come noi, prese parte alle prime riunioni e ai primi "giornali parlati" tende a respingere l'ipotesi (ancorché verosimile, ma priva di concreta dimostrabilità) che il MSI sia sorto dalla iniziativa promossa dal Viminale al fine di incanalare in un alveo prestabilito la diaspora dei "repubblichini" sbandati e pericolosi».

A questo proposito avviene che, nel battere strade periferiche di storia locale, siamo inciampati del tutto casualmente in sentieri imprevisti che a percorrerli portano dritto nella selva (davvero oscura) da cui ha tratto origine l'ex-MSI. Ciò a premessa che l'intreccio della ricerca effettuata non parte da tesi precostituite ma è piuttosto il frutto, diciamo pure selvatico, di una pianta incontrata, casualmente, nel campo delle ricerche sul fascismo e neofascismo a Parma. Qui abbiamo colto il capo di alcuni fili dell'intreccio, anche perché molti tra i fondatori occulti o palesi del MSI come Augusto Turati, Romualdi e perfino Almirante, sono nati o hanno costruito le basi della loro carriera politica nella zona di Parma.

Nel passare all'esposizione dei rari fatti riscontrati, si deve necessariamente partire al largo per cogliere l'esatta essenza dei personaggi e le loro trame. A partire dal più importante, cioè Romualdi, il quale, da direttore della "Gazzetta di Parma", divenne nell'autunno del '44 il vice di Pavolini. Per quanto riguarda strettamente la sua permanenza a Parma, vi è da dire che Romualdi si dimostrò fin dall'inizio un «duro e puro» del nuovo corso repubblicano. Si comincia dalla prima rappresaglia effettuata nel febbraio '44, che, contro il parere del Federale Carbognani, da lui viene attivata facendo intervenire una squadra di fascisti dalla vicina Reggio Emilia. (1) Il federale Carbognani, per protesta contro la rappresaglia che non condivideva, si dimetterà dalla carica per arruolarsi fra le truppe combattenti della RSI lasciando che in tal modo Romualdi ne approfitti per prendere il suo posto nella carica di Commissario federale.

Si noti che le vittime dell'azione repressiva non erano certo antifascisti di spicco, tutt'altro; avevano solo la disgrazia di rispecchiare una certa consorteria borghese-capitalista già pesantemente bollata alcuni giorni prima in un fondo sulla "Gazzetta" di Romualdi. (2) Nonostante la chiara relazione fra l'articolo pubblicato e la scelta delle vittime designate, alla fine della guerra vennero incolpati solo il Capo provincia di Parma, Valli (poi assolto) e il federale Carbognani che nel frattempo era perito nel conflitto. Anche Romualdi venne condannato a morte in contumacia dalla Corte d'Assise Straordinaria di Parma, ma per un'altra rappresaglia, effettuata in Piazza Garibaldi l'1 settembre '45.

A novembre, Romualdi viene nominato vice-segretario del PFR, e quindi deve lasciare la città per trasferirsi in Lombardia. Egli mantiene peraltro stretti rapporti con la città di Parma, continuando a firmare come direttore del quotidiano cittadino. A Milano, Romualdi trovò sistemazione in via Manzoni, 10 (Palazzo Crespi) insieme ad una piccola corte di parmigiani fra cui figuravano la segretaria Paola Ninci, l'autista Bertani, il Sotto Tenente della B.N. Scandaliato, il dottor Mattioli e infine il Tenente degli Alpini, Nadotti.

Il Tenente Gianni Nadotti, come venne poi accertato, era un pericoloso infiltrato del SIM badogliano. Scrive a posteriori il Nadotti in una sua relazione ufficiale sull'attività svolta in seno al SIM: «febbraio '44 - prendo contatto con Don Paolino Beltrame quattrocchi emissario del SIM dello S.M. del R.E. per la provincia di Parma; con cartolina precetto vengo richiamato alle armi nell'E. R. (Esercito repubblicano - N.d.R.); mi rivolgo a Don Paolino dichiarandogli di essere fermamente deciso a non presentarmi e chiedendogli indicazioni per lasciare la città; Don Paolino mi esorta invece a rispondere alla chiamata essendo che potrei essere di più valido aiuto come Ufficiale dello E. R. che come civile; Don Paolino mi autorizza a prestare, con riserva mentale, giuramento di fedeltà alla RSI. ( 3 ) (...) gennaio '45 - si presenta per me la possibilità di essere trasferito a Milano quale ufficiale di collegamento alla Direzione del PFR; sottoposta la questione al C.P. e a Don Paolino quale capo della missione "Nemo" per la maglia di Parma questi ritenendo opportuno che io occupi il nuovo posto, mi ordinano di accettare l'incarico in data 13 mi trasferisco a Milano ove mi viene affidato il Comando dell'autoparco del PFR; a Milano tramite Don Paolino entro in contatto col capo Riccardo De Haag (Mario Rossi-Fausto-Alpino) vice comandante della Piazza di Milano, vice capo rete Nemo e dopo la liberazione primo vice questore di Milano; ho la possibilità di controllare la corrispondenza del PFR e i movimenti degli esponenti del partito stesso». (3)

In realtà Nadotti spiava la corrispondenza e i movimenti degli esponenti fascisti, più ancora che dall'autoparco, per mezzo della stessa segretaria di Romualdi, Paola Ninci, con la quale convolerà a nozze proprio a Milano nei primi mesi del '45. A fine marzo il S.D. di Parma porta un grave colpo alla rete clandestina antifascista della città; in questo contesto viene a galla anche il doppio gioco del Nadotti, che viene pertanto reclamato dalla polizia tedesca. Per Nadotti la situazione sarebbe disperata se non accorresse in suo aiuto lo stesso Romualdi, che invece di consegnarlo ai tedeschi lo fa mettere sotto la tutela del Col. Volpi della GNR. Viene, è vero, denunciato al Tribunale di Guerra, ma solo per -riportiamo testualmente- aver «tentato ripetuti contatti con esponenti del predetto comitato sedicente di "liberazione" al soldo del nemico». (sic!) (4)

A voler essere proprio cavillosi, a carico del Nadotti vi era ben altro, a cominciare dal suo incarico di uccidere alla prima occasione propizia lo stesso Romualdi. Anche se, come afferma nel suo memoriale Nino Scandaliato: «... con varie motivazioni il Nadotti riuscì sempre a convincere i suoi "amici" ad attendere momenti più propizi. Probabilmente, frequentandolo, Nadotti comprese ciò che Romualdi faceva o tentava di fare per la Patria e non si senti più l'animo di portare a termine la missione che gli era stata affidata». (5) Resta da sottolineare che in data 23 aprile '45 il Nadotti dichiara di essersi tranquillamente «allontanato» dalla caserma della GNR che lo aveva in custodia, anche a questo fatto non pare estraneo il passaggio a Parma, proprio in quei giorni del suo ex-comandante, Romualdi.

Con tutto ciò siamo giunti alla drammatica fine della RSI, i cui termini non sono esenti dalle gravi responsabilità di Romualdi. Il 25 aprile, Romualdi incontra Mussolini in Prefettura subito dopo l'incontro-scontro all'Arcivescovado e, come lui stesso ci racconta nelle memorie postume: «... io gridai per lui l'ultimo saluto: A noi! Mi guardò con un affettuoso sorriso: "Romualdi, a domattina a Como". Fu l'ultima volta che lo vidi». (6) L'appuntamento a Como non era certo fra le più probabili previsioni, in quanto questa tappa era piuttosto eccentrica rispetto all'unico progetto alternativo alla difesa ad oltranza di Milano, cioè il ridotto in Valtellina. A questo punto non si spiegherebbe, si fa per dire, il tempismo col quale furono allertati i vari servizi segreti nemici (OSS, SIM) dislocati in Svizzera, i quali già nella mattinata del 26 aprile avevano inviato a Como i loro agenti già muniti di regolari credenziali delle autorità alleate per trattare il passaggio dei poteri (resa) con i fascisti. (7)

Proseguiamo per tappe cronologiche. Alle prime ore del mattino parte da Milano in direzione di Como, dove giungerà circa alle 8 del mattino, la colonna di Pavolini e Romualdi composta da 5.000 Camicie Nere trasportate da circa 200 camion, fornite di armamento leggero e pesante. Mussolini e il suo ristretto seguito erano giunti da Milano diverse ore prima; ma il Capo provincia di Como -che era già passato agli ordini del CLN- lo convinse a proseguire affermando che per la sua relativa scorta la città non era affatto sicura. Sicché, quando iniziò il concentramento su Como di Pavolini e delle altre colonne il movimento nel Nord, il Duce si trovava a poche decine di chilometri, nella zona di Menaggio. Saltato l'appuntamento, Pavolini s'affanna avanti e indietro sul lago di Como, prima per rintracciare la colonna Mussolini e poi per mettere in salvo in Svizzera la sua amante. Romualdi dal canto suo preferisce rimanere a Como; per organizzare, dice, le altre forze che stavano convergendo sulla città.

Durante la giornata del 26, sia tramite il Prefetto che il vice-federale di Como, giungerebbero proposte di resa che, pare, sarebbero state riferite anche a Pavolini. Poi improvvisamente con la notte la situazione sembra divenuta incontrollabile. Erano le tre della notte del 27 aprile, quando Pavolini lasciava Como quasi solo per raggiungere Mussolini. Più o meno alla stessa ora, Romualdi incaricava il cappellano militare Don Russo e il federale di Mantova, Motta, di firmare un «accordo» con gli esponenti antifascisti a cui era stato perfino concesso di insediarsi nella Prefettura (di fatto già un passaggio d'autorità). Così mentre Mussolini attendeva con sempre meno speranze la colonna Pavolini, da parte sua Romualdi trattava la resa -perché di questo si trattava- delle forze fasciste, che dopo l'allontanamento di Pavolini dipendevano ormai solo da lui.

Sarà Mino Caudana che negli anni '50 raccogliendo varie testimonianze sui fatti di Como, poi riportate nell'opera "Il figlio del fabbro" svelerà incidentalmente al pubblico tale coincidenza fra la partenza di Pavolini e la resa del suo vice. Romualdi, unico tra i sopravvissuti a rifiutare fino alla morte il suo contributo memorialistico, questa volta volle intervenire dalle pagine della sua rivista "l'Italiano" per rettificare quanto riportato da Caudana circa i fatti del 26-27 aprile. (8) Significativamente, nel caso in questione, fu la prima volta che Romualdi interloquiva sull'argomento, che notoriamente non era di suo gradimento. Difatti la tesi di Romualdi è che tutto quanto è successo fra Como e Dongo si deve unicamente al «mancato appuntamento» nella città di Como. Insomma la responsabilità ricadrebbe su Mussolini o meglio chi lo ha consigliato di spostarsi di qualche chilometro avanti sul lago.

«Pavolini non promise nulla di quanto non fosse vero. Se il gruppo del governo non fosse stato male consigliato ad abbandonare Como nel corso della notte, contrariamente a quanto stabilito, alle otto del mattino del 26 a Como, Mussolini avrebbe avuto a disposizione più di tremila uomini». (9) A parte che gli uomini disponibili a Como secondo la totalità delle fonti, Romualdi escluso, erano più di cinquemila, senza contare le altre colonne che ivi stavano convergendo, riportiamo a mo' di risposta quanto scrisse in proposito lo Spampanato:

«Ripeto che l'errore più grosso si commette a Como il 26 mattina. Una colonna di 5 mila nomini, ben armati, tutti autotrasportati, con numerosi pezzi, con abbondanza di armi leggere, ancora con il morale alto, e che potrebbero profittare della situazione generale quasi tranquilla si ferma alla prima tappa invece di accelerare verso la sua destinazione. Una fermata sarebbe plausibile se a Como si rosse ancora trattenuto Mussolini. Ma Mussolini ha proseguito nella nottata, ha lasciato detto per la colonna di raggiungerlo: e del resto Pavolini e gli altri comandanti sanno che il Duce non potrebbe fare a meno di loro, messosi in marcia a sua volta con poche armi e con una esigua scorta. Se le Brigate partigiane non sono ancora in scena lo saranno da un'ora all'altra, e in quel caso diventerà difficile spostarsi, e più difficile evitare che Mussolini resti sopraffatto coi suoi pochi uomini tagliati fuori da ogni rinforzo». E aggiunge: «Ma anche ammesso che il percorso possa essere contrastato, una forte colonna -come quella di Milano- con mezzi di artiglieria, ben comandata e soprattutto decisa ad arrivare, avrebbe avuto perdite, ma si sarebbe spianata da sé la strada fino a destinazione. (...) L'alt a Como è assurdo, ma più assurdo che si prolunghi tutta la giornata del 26 e ancora oltre». (10)

Per quanto riguarda la resa, Romualdi così si giustificava: «... fu solo verso le 11 (le 23 del 26 aprile - N.d.R.) che privi di notizie e non vedendo ancor giungere nessuno (riferimento a Mussolini - N.d.R.) fui pregato dai miei collaboratori (?!) di prendere direttamente l'iniziativa per concordare una tregua, un patto, un accordo, qualcosa che riguardasse l'ordine in tutta la zona». (11) Non risulta, fra l'altro, che almeno a Como per tutta la giornata del 26 si fossero avuti problemi di ordine pubblico da parte antifascista, mentre i fascisti peccavano semmai nel senso inverso di una ingiustificabile catalessi, sia pure indotta ad arte da certi loro comandanti.

Prosegue comunque Romualdi: «Così nacque, dopo laboriose trattative svoltesi in prefettura, la famosa tregua d'armi il cui testo è pressappoco quello pubblicato da Caudana ecc ...». (12) Resta magari d'aggiungere che nel testo pubblicato da Caudana come in quello dello Spampanato ed altri ancora, il termine «tregua d'armi» -posto che si fosse mai combattuto- non figurava assolutamente, essendo scritto invece a chiare lettere che si trattava di «resa a carattere militare» in mano alleata. Perciò la tregua, che in realtà impegnava solo le forze fasciste, si riferiva al periodo d'attesa -stimato in non più di quattro giorni- per darsi agli americani. Proprio in attesa di ciò i fascisti, secondo l'accordo, dovevano raggiungere la vicina Valle d'Intelvi nei pressi del confine italo-svizzero.

Un quinto ed ultimo punto di quel «qualcosa che riguardasse l'ordine pubblico», per dirla con Romualdi, riguardava direttamente il Capo del Governo della RSI, per cui secondo tale accordo: «Alcune macchine avrebbero rilevato (sic!) Mussolini portando anche lui nella zona neutra di Intelvi». (13)

Ricapitoliamo gli avvenimenti essenziali:

- alle ore 23 del 26 aprile, Romualdi si accorda in Prefettura per la resa;

- alle ore 03 del 27 aprile, Pavolini parte per raggiungere Mussolini;

- alle ore 03 del 27 aprile, Romualdi incarica i suoi delegati di firmare la resa peraltro già concordata.

Si dovrebbe dunque ritenere che anche Pavolini fosse più o meno invischiato nella faccenda, ma il suo successivo comportamento smentirebbe tale ipotesi. Anzi, dalla dinamica degli avvenimenti, si direbbe proprio che la partenza di Pavolini sia valsa solo a sbloccare qualsiasi ritegno nel passare subito alla resa. Probabilmente il segretario del PFR o era stato ingannato ovvero nulla sapeva dei reali maneggi in corso a Como. Con tre autoblindo in circa un'ora raggiunse Mussolini a Menaggio, per condividerne la sorte fino in fondo. Considerato altresì il breve tempo in cui Pavolini riuscì a raggiungere Mussolini ci si chiede -in modo seppure accademico- quale problema avrebbe avuto l'intera colonna a coprire lo stesso percorso? C'è poi da dire che Mussolini, dopo aver ricevuto Pavolini, incaricò Vezzalini di tornare subito a Como con due delle autoblindo di scorta a Pavolini, per organizzare urgentemente una colonna di fascisti che avrebbe dovuto poi raggiungerlo. È lecito pertanto affermare che gli «accordi» intercorsi a Como non riguardavano Pavolini e contrastavano apertamente con tutte le direttive del Duce.

Ma il particolare più interessante di tutto l'intrigo riguarda l'identità -sorpresa finale!- delle persone con cui Romualdi intavolò le trattative di resa. Guarda caso, i suoi referenti alla Prefettura di Como erano rispettivamente il comandante di fregata della Regia Marina, Giovanni Dessì, incaricato per l'Alta Italia del SIM e il dottor Salvatore Guastoni del Servizio informazioni della Marina Italiana ma dipendente diretto dell'OSS americano; ai due emissari si era aggiunto il barone Sardagna, accreditato come rappresentante ufficiale del gen. Cadorna. I primi due personaggi, come già accennato, erano calati su Como dalla Svizzera già nella mattinata del 26 ed erano evidentemente stati preavvertiti che Mussolini aveva scelto quella città come base del ritiro in Valtellina del Governo della RSI. Come non sospettare che tutto fosse preordinato per l'eventuale resa, anche al fine di evitare più inquietanti incognite?

Del resto solo così si può spiegare l'assurdo incagliarsi in quel di Como, visto ormai come centro eletto di questa trama. Sarà una coincidenza, ma, per quanto riguarda l'Italia, si scopre che le forza più ideologizzate, quelle che più dovevano resistere fino all'ultimo respiro, cioè le SS tedesche da una parte e le Brigate Nere dall'altra, si arresero entrambe previo contatto e accordo con i servizi segreti nemici. Insomma Romualdi come il gen. Wolff. E bene gliene colse, dal momento che sia Wolff che Romualdi furono poi trattati con particolare riguardo, avendo essi salva non solo la vita, ma scontando solo simbolicamente una lieve pena, un trattamento di tutto riguardo rispetto ai loro più sfortunati subordinati.

In breve: dopo varie peripezie che impedirono perfino il previsto concentramento in Val d'Intelvi e portarono alla prevedibile resa senza condizioni dei fascisti concentrati a Como a partire dalla stessa mattinata del 27 aprile, vi è solo da aggiungere che, mentre i militi venivano uccisi o stipati nelle varie carceri, Romualdi riusciva ad allontanarsi in borghese dalla Prefettura di Como andandosene tranquillamente come se nulla fosse. Più tardi verrà accusato dai camerati di essersi «involato da Como con la cassa del PFR». (14) E d'altronde da qualche parte questa cassa del partito deve essere pur finita, anche se l'argomento non è mai stato troppo in auge come quello della consorella cassa del governo, finita nei meandri di Dongo.

Gli è che, a differenza di Almirante che per sopravvivere in clandestinità doveva piazzare saponette, Romualdi non sembra affatto toccato da qualsivoglia problema economico. A Roma, dove si è presto trasferito da Como, viene conosciuto nell'ambiente dei nostalgici come Giuseppe Versari o più comunemente come il «dottore» e, per prima cosa si fornisce di un suo organo di stampa. Nome del foglio clandestino: "Credere", non a caso: una volta escluso dal trinomio mussoliniano «obbedire» e rinunciato ovviamente a «combattere», non restava che «credere» direttamente al «dottor Versari».

Per emergere nel magma neofascista di Roma, il «dottore», che farà dell'ANTI-nostalgismo la sua nuova bandiera, per il momento la bandiera -o più precisamente un lenzuolo tinto di nero- la farà issare sulla Torre delle Milizie a Roma, nella ricorrenza del 28 ottobre '45. Altro colpaccio goliardico attribuito all'organizzazione romualdiana è l'assalto alla stazione radio di Roma IIIª a Monte Mario, con la messa in onda del disco di "Giovinezza", seguito da un proclama.

Questa incursione era stata programmata per la notte tra il 28 e il 29 aprile, nel primo anniversario della morte di Mussolini, ma poi si dovette rimandare di 24 ore. Infatti il turno successivo di polizia si rivelò più propizio alle sorti dell'impresa, dal momento che la "Celere", chiamata subito dopo l'irruzione neofascista, sbagliò opportunamente strada arrivando sul luogo con circa un'ora di ritardo. Se quasi nessuno fra la popolazione romana si accorse, almeno di persona, dei fatti narrati, all'interno del mondo neofascista le gesta ebbero notevole risonanza e ciò servì egregiamente a Romualdi per farsi conoscere ed apprezzare. Solo più tardi, quasi per chiedere venia di questi atti nostalgici, Romualdi scriverà che tali azioni dimostrative -giacché quelle più serie furono escluse o sabotate in partenza- erano finalizzate più che altro ad aumentare la forza contrattuale dei neo-fascisti in merito al problema dell'amnistia. (15) Come dire insomma l'omeopatia applicata alla politica dove, con piccole dosi di tossine nostalgiche, si mirava a debellare l'intossicazione antifascista. In realtà Romualdi sfondava una porta aperta, quando si pensi che lo stesso Parri, già nel '44, si poneva in prospettiva il problema della «necessità di estirpazione non fittizia e non repressiva del fascismo». (16)

I gruppi più o meno organizzati in clandestinità erano a Roma una mezza dozzina mentre a Milano operava principalmente Leccisi con un suo PDF (Partito Democratico Fascista). Non trovando una precisa intesa fra loro, questi gruppi costituiranno un sedicente «Senato» in cui confluiranno i vertici delle varie organizzazioni. Fra questi non poteva mancare Romualdi, ma vi troviamo anche Pini, Pettinato, Massi e in particolare il vecchio segretario del PNF caduto poi in disgrazia e confinato, Augusto Turati.

Specialmente il Turati, contendeva a Romualdi la leadership del neofascismo romano. Compito principale del «Senato» fu di prendere accordi con tutti i partiti del CLN e con la Monarchia per trattare una eventuale amnistia. Si è spesso sostenuto che fu Romualdi a trattare direttamente con i rappresentanti politici dei vari schieramenti interessati all'esito del referendum istituzionale, ma ciò non è esatto. Anche Giuliana De' Medici nel suo libro "Le origini del MSI" (17) scrive a pag. 35 che «fu appunto il "dottore" a condurre le trattative con tutti i partiti del CLN», smentendosi poi alla successiva pag. 97 quando riferisce che con i comunisti trattarono invece Pini e Pettinato. In effetti il «dottore» contattò lo schieramento di centrodestra e anche i socialisti, ma solo quelli della fazione legata all'OSS (poi CIA), gli stessi cioè che poi, con i fondi americani, organizzarono la scissione di Palazzo Barberini e il nuovo partito socialdemocratico.

L'influenza soverchiante di Romualdi si svilupperà particolarmente all'interno dei FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), il nuovo organismo sorto dopo il referendum istituzionale dall'unione dei vari gruppi clandestini. Particolarmente illuminante ci appare il programma stilato dai FAR. A parte un preambolo di princìpi pseudo-rivoluzionari dove si afferma che: «Il Fascismo è solo contro il mondo borghese, sia di destra che di sinistra, esso non può avere alleati spirituali perché tutto ciò che non è prettamente ed esclusivamente fascista è, in maniera automatica, antifascista», la strategia dei FAR ci appare veramente antesignana di quello che sarà in seguito l'essenza del MSI. Ecco alcune perle: «Nel secondo periodo che va dal 25 aprile '45 al 2 giugno '46, e che è dominato dal problema istituzionale, il Fascismo ha assunto per motivi puramente tattici, un indirizzo prevalentemente monarchico». E poi conclude con questa lungimirante iniziativa da «grande destra»: «... abbiamo ridotto di metà i nostri nemici, non solo, ma contro l'altra metà non siamo solo noi a combattere, perché ci possiamo valere di quel 46 per cento che è rimasto deluso dal referendum».

Magari si potrebbe obiettare che se, puta caso, invece della monarchia avessero puntato sulla svolta repubblicana, certamente più congeniale ai reduci della RSI, si sarebbe potuto contare addirittura sulla maggioranza del 54 per cento: un'area, questa, non del tutto insensibile ai princìpi sociali fatti propri dall'ultimo fascismo repubblicano. I FAR invece, quelli nati «contro il mondo borghese sia di destra che di sinistra» programmavano la loro futura azione rivoluzionaria con analisi di questo genere: «La lotta politica non si potrà più mantenere sul piano parlamentare, ma trascenderà in disordini di piazza, in violenze e in una tensione generale. Le forze di destra, che hanno per caratteristica distintiva una vigliaccheria congenita unita ad una sacrosanta paura di perdere i loro privilegi, saranno alla ricerca disperata di una forza qualunque capace di fronteggiare validamente l'estrema sinistra. Quello sarà il nostro momento. Si tratta insomma di creare nel paese una psicosi anticomunista tale da costringere tutti i partiti ad appoggiare il Fascismo come il più dinamico dei movimenti anticomunisti, così come già fecero i comunisti creando una psicosi antifascista tale da costringere tutti gli ANTI-fascisti, anche di destra, ad appoggiare il comunismo. (...) il Fascismo dovrà fungere da massa d'urto dell'anticomunismo e la maggioranza degli italiani -anche se non fascista- ci appoggerà, per odio al comunismo. Allora si chiuderà il terzo periodo ed entreremo nella quarta fase, caratterizzata dalla lotta contro la destra. In questa quarta fase al Fascismo si proporrà la conquista integrale dello Stato». Il programma dei FAR chiude il Manifesto programmatico con un finale coerente con i suoi assurdi postulati: «La sorte del Fascismo, che si era andata facendo sempre più precaria dai primi rovesci d'Africa e d'Albania, fino a precipitare nelle giornate di fine aprile del '45, ha cominciato a capovolgersi proprio da questa data». (18)

Le elezioni del '48 dimostreranno ampiamente che l'anticomunismo fine a se stesso teorizzato dai FAR recherà vantaggi unicamente alla «diga» democristiana, che infatti assorbirà, e in parte definitivamente, i voti di milioni di ex-fascisti. Nonostante la scelta del cavallo perdente, l'amnistia venne comunque subito dopo il referendum per iniziativa del segretario del PCI e Ministro della Giustizia, Togliatti, per cui circa trentamila fascisti uscirono dalle carceri. L'aver quindi puntato sulla monarchia al fine di ottenere l'amnistia o altro, si dimostrò in breve una doppia sconfitta, politica e morale. Politica perché, escludendo eventuali frodi elettorali, la scelta monarchica era in contrasto con la tendenza popolare ma, soprattutto, con i presupposti fondamentali della RSI. Morale, dal momento che l'amnistia venne quasi elargita da una posizione di forza da parte di nemici in guerra e accesi avversari in politica.

Se molti fascisti potevano uscire dalle carceri come dalla clandestinità, su Romualdi permaneva la solita condanna a morte pronunciata dalla C.A.S. di Parma che non era amnistiabile. Fra l'altro la questione della condanna a morte che pendeva sulla testa del «dottore» fa intendere con quale spirito poteva condurre le trattative una persona che i suoi interlocutori potevano consegnare in qualsiasi momento al boia per essere giustiziato. Una tal controparte era evidentemente esposta a qualsiasi ricatto o imposizione. Pertanto il fatto che Romualdi sia stato lasciato libero di agire addirittura protetto, se non foraggiato, dimostra che il personaggio in questione era particolarmente funzionale ai disegni politici dei suoi interlocutori, i quali, in caso contrario, non gli avrebbero permesso di capeggiare una formazione clandestina e sedicente rivoluzionaria. Vedremo infatti che i «rivoluzionari» dei FAR più che minare il sistema ciellenista, erano orientati a sovvertire le idee del fascismo. All'interno dei FAR, tuttavia, si erano delineate tre tendenze:

- rimanere in clandestinità;

- infiltrarsi in altri partiti per condizionarli dall'interno;

- formare un movimento politico legale.

Se queste erano le possibili strategie, sul piano teorico i FAR erano divisi in due fazioni sul tipo delle odierne correnti. Da una parte gli integralisti fedeli agli ideali del fascismo e della RSI in particolare; dall'altra i pragmatici, i quali, preso atto del nuovo quadro politico, cercavano una strategia per inserirvisi. I più integralisti erano tendenzialmente per la lotta clandestina, mentre i pragmatici volevano uscire al più presto alla luce del sole con un loro movimento politico.

Fra queste due ali, la posizione intermedia era occupata dai meno schierati, più favorevoli alla tecnica infiltrativa per condizionare le altre forze politiche, mantenendo però inalterati i vecchi ideali. Gli ortodossi si riconoscevano nell'ex-federale della RSI a Roma, Pizzirini, i pragmatici facevano capo a Romualdi, mentre Turati saltellava qua e là al solo scopo di consolidare la sua posizione personale. Curiosamente, Mario Tedeschi, affiliato ai FAR e seguace del «dott. Giuseppe», nel suo libro di memorie "Fascisti dopo Mussolini" divide le due citate linee politiche fra «utopisti» e «rivoluzionari», dove naturalmente i «rivoluzionari» sono i seguaci di Romualdi mentre gli «utopisti» sono «quelli legati a dogmi o folli speranze». E scendendo ai particolari, aggiungeva: «Gli utopisti sembravano credere che le idee e le impostazioni in materia di politica estera e sociale intorno alle quali l'attenzione italiana si era polarizzata per vent'anni, sarebbero tornate d'attualità sol nel momento in cui fosse stato raggiunto il primato delle fazioni cui esse erano legate. I loro oppositori, i rivoluzionari, fautori d'un intervento immediato erano invece convinti della assoluta validità delle loro idee anche in quel mondo che era nato dalla sconfitta».

La classificazione di Tedeschi non induca a pensare che l'opera dei cosiddetti «rivoluzionari» tendesse in qualche modo a sovvertire, magari con la forza, quel mondo che era nato dalla sconfitta». Egli infatti poco oltre puntualizzava che «l'organizzazione (dei FAR) disponeva di clandestini che non avevano il coraggio di riconoscersi sovversivi». (19) Infatti, mentre la «volante rossa», dopo aver identificato il responsabile dei FAR per la Lombardia nell'ex-generale della Milizia Ferruccio Gatti, provvedeva alla sua soppressione, i FAR si scatenavano facendo esplodere bombe carta tipo castagnole e tric e trac. Eppure le intenzioni rasentavano quasi la megalomania, quando si pensi che la organizzazione paramilitare dei FAR si era denominata Esercito Clandestino Anticomunista. In realtà si dimostrò l'esercito più pacifico del mondo, se è vero, come è vero, che non fece una sola vittima, neppure per errore,

È un fatto che dopo essere stati massacrati in guerra, ma soprattutto dopo, nei modi più barbari e inumani a decine se non a centinaia di migliaia, in tutto il dopoguerra non si conta fra gli uomini fascisti un solo gesto clamoroso di replica. Abbiano specificato «uomini fascisti», perché da parte femminile vi furono in effetti alcuni sporadici casi di decisa reattività, come nel caso di Maria Pasquinelli, che uccise a Trieste il rappresentante inglese d'occupazione, o di un'altra donna di cui ci sfugge il nome, che vendicò la madre uccisa davanti ai suoi occhi, sparando al colpevole diventato frattanto sindaco del suo paese.

Si è spesso affabulato di «stragismo nero», quando Walter Audisio -fosse o meno il vero responsabile della morte di Mussolini- visse fino all'ultimo tranquillamente senza scorta, inserito perfino sull'elenco del telefono e quindi chiunque avrebbe potuto raggiungerlo. Parlare di «rivoluzionari» appare decisamente eccessivo. L'intenzione magari c'era, ma tra il dire e il fare ... Un giorno i FAR decidono di far saltare il palazzo sede del PCI in Via delle Botteghe Oscure. Si procurano perfino 30 chili di tritolo, ma poi l'impresa sfuma perché non si trova il modo di trasportare l'esplosivo e d'altra parte rubare un'auto esulava dai loro sani princìpi. Del resto quando non interveniva l'etica, suppliva la delazione. Capita infatti che, a seguito della condanna a morte pronunciata in Tribunale contro l'ex-federale di Alessandria, i FAR decidano il rapimento del ministro di Grazia e Giustizia, il liberale Giuseppe Grassi, per chiedere poi, se non lo scambio, almeno l'annullamento o la sospensione della pena capitale. Sennonché, pochi giorni prima dell'azione, la polizia debitamente preavvisata operava una serie di arresti all'interno dei FAR. Si è sempre sospettato che la delazione provenisse da Tedeschi (20), ma il segretario di Romualdi al tempo della clandestinità, Luigi Battioni, si è dichiarato convinto che la «soffiata» fu opera di Romualdi stesso che così, a dire del Battioni, intendeva forzare gli integralisti ad uscire dalla clandestinità. (21)

Ma nemmeno questa manovra -se tale era l'intenzione-si dimostrò sufficiente a smuovere gli integralisti e per questo motivo si arrivò alla scissione. La notte del 25 luglio '47 (potenza delle date), il gruppo «rivoluzionario» già messo in minoranza all'interno del Direttorio Centrale, abbandonava l'organizzazione. I rimanenti, seppure scombussolati dalla scissione e dalla repressione poliziesca, reagivano con la dichiarazione del 4 agosto '47, in cui fra l'altro si inneggiava alla futura seconda Repubblica Sociale. Contemporaneamente alla permanenza nei FAR, Romualdi e altri come Turati lavoravano già da tempo al progetto del partito politico. Ciò faceva parte delle varie e possibili opzioni, che spaziavano dalla legalità fino all'esercito clandestino, solo che il Re ne avesse cercato l'aiuto. L'ipotesi del partito inserito nel nuovo sistema era del resto assai cresciuta specie dopo i vari contatti referendari con gli esponenti ufficiali del centrodestra.

Prima ancora dell'esito del referendum istituzionale, Turati e Romualdi avevano incontrato a Roma il maggior esponente del neofascismo clandestino milanese, Domenico Leccisi, con cui intavolarono fin da allora un inquietante discorso. Questo incontro-scontro è così riportato nelle memorie di Leccisi: «A Roma si facevano molte chiacchiere da parte di Romualdi e dei suoi amici. Per la vicinanza con i centri di potere e la fitta rete di contatti stabilita con molti ex-fascisti -che avevano tempestivamente cambiato casacca e continuavano ad operare all'interno dei partiti- il gruppo degli ex-gerarchi che facevano capo ad Arturo Michelini, nello studio del quale in Viale Regina Elena s'incontravano, aveva potuto intavolare trattative sia con esponenti repubblicani, sia con ambienti monarchici. Per questo avevo deciso di raggiungere la capitale e rendermi conto di persona della situazione. (...) La situazione mi si rivelò in tutti i suoi aspetti soltanto quando condotto da Michelini e Romualdi, mi trovai faccia a faccia con il redivivo ex-segretario del PNF, Augusto Turati».

Secondo l'impressione ricevuta da Leccisi, in quel periodo era proprio Turati che «... menava la danza e che sia Michelini che Romualdi pendevano dalle sue labbra». Ciò dovette apparirgli piuttosto strano, dal momento che Turati, a parte i precedenti, si era perfino rifiutato di aderire alla RSI. Inoltre Leccisi fa presente che proprio Turati in precedenza «... si guadagnò la fama di "normalizzatore" e di grande epuratore dei ranghi dello squadrismo. Si disse che centomila fra squadristi e ribelli al nuovo corso (seguito alla fine della segreteria di Farinacci - N.d.R.) -che esigeva il rientro nella disciplina all'interno del partito e nella vita civile- e fascisti, non prontamente allineatisi alla direttiva del momento, furono allontanati o espulsi, per volontà di Turati, il quale aveva pure imposto la subordinazione dei segretari federali ai prefetti». Caduto poi in disgrazia durante il regime e confinato in Egeo, Turati era rimasto pieno di risentimento, specie contro Mussolini, da lui definito «... un cinico ... un prodigioso istintivo senza la preparazione necessaria per essere il capo di una Nazione».

Avendo dunque presenti questi precedenti dell'ex-segretario del PNF, Leccisi si dispose ad ascoltarlo con le riserve del caso ed infatti i suoi argomenti si dimostrarono subito sospetti. Quale preambolo Turati pose il problema politico dell'inserimento nella legalità, per consentire «... la nostra partecipazione, di pieno diritto, alla vita democratica del Paese ... e, a quel punto la rinuncia dell'aggettivo "fascista" sarebbe stata una scelta obbligata e conseguenziale». Turati, continuando nella sua esposizione precisò che l'orientamento a consentire la costituzione di un movimento politico che raccogliesse gli ex-fascisti e coloro che ne avevano accettato il programma, beninteso restando nell'alveo democratico, si stava facendo luce presso alcuni uomini politici come De Gasperi e i notabili democristiani, con l'appoggio dei liberali, qualunquisti e monarchici. Anzi con questi ultimi il dialogo era in fase avanzata essendo disposto il Re a offrire determinate garanzie non solo riguardanti il provvedimento di amnistia, in cambio di un appoggio, se del caso anche armato, dei gruppi fascisti alle forze monarchiche impegnate in uno scontro durissimo contro le sinistre». Turati poi concluse che «... per rendere fattibile il compromesso con il governo (e si trattava del governo del CLN ! - N.d.R.) e facilitare l'intesa con il Re era necessario smobilitare i gruppi clandestini armati, apprestandoci a far affluire gli ex-fascisti in un movimento politico in grado di svolgere la propria attività alla luce del sole nella legalità democratica».

Nutrendo qualche perplessità in merito, Leccisi provò a ribattere che prima di smobilitare dalla clandestinità pretendeva garanzie che non si trattasse dell'ennesima fregatura. «L'imprevidenza -disse a gran voce all'ex-segretario del PNF- c'era costata sangue e sofferenze inenarrabili. Ricadere nell'ingenuità di credere nella buonafede degli avversari potrebbe avere conseguenze ancora una volta gravissime per il movimento e per quanti ci seguono». Turati reagì vivacemente a queste obiezioni e con tono autoritario gli notificò che da quel momento egli rispondeva direttamente a lui e a un non ben precisato gruppo dirigente istallatosi a Roma, delle sue azioni. Leccisi prese cappello e se ne andò insalutato ospite. (23)

A nostro parere quanto esposto da Leccisi fotografa un istante particolare di tutte le varie acrobazie politiche effettuate da Turati nel dopoguerra; che si possono così riassumere:

Inizia cercando di avvicinarsi, inutilmente, al partiti del CLN. Dopo di che prende posizioni di sinistra all'interno dei FAR e, contemporaneamente, si collega al Movimento Tricolore per spingere i suoi aderenti a mettersi al servizio dei circoli dinastici e dei generali badogliani. Dopo l'uscita di Romualdi dai FAR, non avendo ottenuto un posto adeguato nel MSI, Turati si pone alla testa del gruppo dissidente dei FAR. (24) Concluderà la sua carriera negli anni '50 al servizio di Gedda e dei suoi Comitati Civici. (25)

Dunque, parallelamente ai FAR, si andava coltivando l'opzione legalitaria del Movimento politico. Nel novembre '46 si erano incontrati a Roma vari esponenti fascisti per vedere di concordare una linea comune; l'iniziativa fallì più per i persistenti personalismi che per contrasti di natura politica. Il 3 dicembre successivo s'incontrarono l'ex-deputato Biagio Pace, il direttore del periodico "Rivolta Ideale" Giovanni Tonelli, Romualdi e Michelini. Sono costoro che riescono a concordare il documento comune in cui si auspica la nascita di un «organismo politico nazionale» con la denominazione di Movimento Sociale Italiano (MO.S.IT).

La sigla MO.S.IT. oggettivamente richiamava più alla memoria una S.r.l. che non un partito politico ed evidenziava anche una certa preoccupazione nell'esporsi con sigle evocanti il passato: il più diretto e decifrabile MSI parve infatti un po' troppo assonante sia con Mussolini che con la RSI.

Bisogna tener conto che all'epoca vigeva il decreto luogotenenziale 16 aprile '45, a ricordo della monarchia, che comminava gravi sanzioni penali -fino a 20 anni- per qualsiasi tentativo di ricostituzione del PNF. (25) Ciò comportava che l'attività neofascista dovesse necessariamente attuarsi in clandestinità o per mezzo di gruppi politici che venissero quanto meno tollerati.

Il documento stilato il 3 dicembre contava dieci punti programmatici molto generici, salvo un esplicito richiamo (punto 8) ai princìpi della socializzazione (compartecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende e alla ripartizione degli utili), mancando necessariamente qualsiasi accenno al fascismo. (26) Tra il 3 dicembre e il 26 dello stesso mese, data ufficiale di nascita del MSI, altre firme si aggiunsero al documento, mentre alcune vennero ritirate. Vi è comunque da dire che per diversi mesi, almeno per tutta la prima metà del '47, il MSI restò del tutto inoperante, un recipiente vuoto, una opzione potenziale e alternativa ad altre ipotesi come l'intervento armato a fianco di circoli militari reazionari.

In questo intermezzo il MSI non ebbe neppure un segretario nazionale, ma solamente il responsabile di una non ben identificata Giunta esecutiva nazionale, nella persona di tale Giacinto Trevisonno. (27) Almirante fu infatti designato segretario del MSI solo «... nel maggio-giugno 1947». (sic!) (28)

La pausa si rendeva necessaria per indurre i recalcitranti FAR ad optare per la legalità, ma anche per superare i contrasti sulla designazione del vertice. È chiaro infatti che il potere politico avrebbe tollerato o agevolato l'iniziativa solo nel caso in cui i responsabili del nuovo movimento fossero stati in grado di assicurare una linea di destra, espressione di un anticomunismo di servizio. Ma nell'immediato Romualdi e Turati, che pure si erano perfettamente subordinati a questo aut-aut, non potevano essere utilizzati, dal momento che uno era condannato a morte e l'altro penalizzato per aver ricoperto la carica di segretario nazionale del PNF. C'era inoltre la lotta interna fra i due per la supremazia e i loro veti incrociati si elidevano a vicenda.

In questa situazione riuscì ad affermarsi Giorgio Almirante, allora tanto sconosciuto e insignificante da non essere neppure ricercato come ex-funzionario della RSI. In tutti i casi Almirante si era dato ad una volontaria latitanza, rimanendo in apnea a Milano fino al varo dell'amnistia. Al Nord era stato ospitato da un certo Levi, che durante la RSI Almirante aveva a sua volta nascosto «... sotto falso nome, mentendo persino al Ministro (Mezzasoma - N.d.R.) nella foresteria del Ministero». (29) Reso più audace dall'amnistia di Togliatti, Almirante con Baghino e pochi altri elementi, andò a formare il Movimento Italiano di Unità Sociale (M.I.U.S.), che al momento buono gli servì da trampolino per approdare alla segreteria del neonato MSI. Il suo compito era in realtà quello di tenere in caldo la poltrona per le altre «personalità» che nel frattempo stavano sbrigando altri problemi.

Nell'autunno di quello stesso anno a Roma si dovevano tenere le elezioni amministrative e nell'occasione il MSI decise di parteciparvi con una propria lista. Giovandosi, seppure in misura limitata, della crisi che aveva investito il movimento qualunquista, il MSI con circa il 4% dei voti riuscì a conquistare 3 seggi al Comune di Roma. L'apporto di questi seggi fu determinante per la creazione di una giunta di centrodestra (41 seggi contro 39) che sarà guidata dal democristiano Rebecchini.

All'interno del MSI, discretamente corroborato dall'affermazione elettorale, si coagularono ben presto due tendenze: la «socializzatrice», che faceva riferimento alle esperienze rivoluzionarie di sinistra della RSI e la «corporativa», che prediligendo invece la collaborazione sociale tra le classi si poneva in una posizione più duttile e assai meno radicale. Almirante si presentava (in privato) come l'alfiere dell'integralismo sociale; per questo motivo venne attaccato da Romualdi, che lo accusava inoltre di gestire il partito allo scopo di «... farne un feudo per le sue ambizioni». (30)

Dopo lo scontro con Almirante, il 17 marzo '48, Romualdi venne arrestato, sembra su delazione, nei pressi del giornale fiancheggiatore del MSI "Ordine Sociale". A questo proposito il Murgia scrive: «Subito, negli ambienti del rinascente partito, si sparge la voce che a fare la spiata alla polizia sia stato lo stesso Almirante, e la voce non si spegne tanto facilmente. Ad alimentarla ancor più vengono le indiscrezioni sussurrate a mezza voce dall'Ufficio politico della Questura: il Romualdi, malvisto dagli stessi fascisti, è cascato nella rete dietro una denuncia degli stessi suoi camerati». (31) Ciò era plausibile poiché la polizia ben poco si era attivata autonomamente alla ricerca di Romualdi.

Sono peraltro noti i rapporti diretti fra il Viminale e gli organizzatori del MSI tramite il generale dei carabinieri Giuseppe Pièche, ex-capo della 3ª sezione del SIM e, nel dopoguerra, incaricato da Scelba di riorganizzare i servizi segreti italiani. Per copertura, il generale Pièche era stato messo a capo della Protezione civile e dei servizi antincendio del ministero dell'Interno. Occorre tener presente che la protezione civile era stata progettata inizialmente come un corpo civile speciale da utilizzare in caso di guerra o calamità naturale, con l'intento abbastanza scoperto di usare questa struttura anche contro la sovversione comunista tramite una progettata rete di super-prefetti i quali, a tempo debito, avrebbero accentrato ogni potere nella zona di competenza. Tutti i membri della Protezione civile avrebbero costituito all'occorrenza una forza organizzata, da utilizzare in caso di pericolosi tumulti di piazza o spinte rivoluzionarie. Tale iniziativa, bocciata dal Parlamento, venne sostituita dall'organizzazione segreta "Gladio" nei primi anni '50. (32) Paradossalmente, ma non troppo, si potrebbe perfino dire che la fiamma del MSI venne appiccata dal servizio antincendio del ministero dell'Interno.

Ora, indipendentemente dal fatto che Romualdi abbia avuto più o meno rapporti diretti con il Viminale che di fatto lo proteggeva, c'era sempre la possibilità -siamo nella Roma degli anni '40- d'inciampare accidentalmente in una delle tante retate organizzate contro la malavita e i mercati della borsa nera. In questo caso Romualdi veniva preavvisato delle incombenti incursioni poliziesche tramite una signora parmigiana, Mina Magni Fanti, residente a Roma in Via dei Riari, la quale a sua volta riceveva apposita segnalazione direttamente dal deputato di Parma alla Costituente e successivo Ministro della Marina, il democristiano e vetero antifascista Giuseppe Micheli. (33)

In tutti i casi l'arresto di Romualdi avviene solo quando il compito di costituire un partito legale di neo-fascisti era cosa ormai fatta e quindi al «dottore» spettava comunque il giusto compenso. Per cominciare il processo a carico di Romualdi fu affidato in sede giudicante al padre del noto dirigente del MSI, Mario Cassiano. Accade anche che l'imbarazzante teste a carico, il capitano della B.N. di Parma Egisto Maestri, una volta trasferito da Porto Azzurro a Roma in vista del processo, muoia in cella in seguito a collasso cardiaco. A rompere le scatole ci si mise però il patrono di parte civile, Avv.. Sotgiu, il quale tanto fece che riuscì a far trasferire il processo ad altra sede, avendo evidenziato la sintonia politica che univa il Presidente del Tribunale all'imputato. Dopo una fase interlocutoria al foro di Milano, il 23 maggio '51 il Tribunale di Macerata assolveva con formula piena da ogni accusa Pino Romualdi. (34)

Fondamentali ai fini dell'assoluzione si dimostrarono le testimonianze a suo favore di Gianni Nadotti, agente del SIM badogliano, nonché del cappellano partigiano Don Guido Anelli. Tanto per rimanere in tema, Don Anelli si presentò alla Corte di Macerata come persona informata dei fatti nella sua qualità di agente dell'OSS operante a Parma. Circa la rappresaglia del 1 settembre in Piazza Garibaldi a Parma, Don Guido Anelli scaricò ogni responsabilità sulle spalle dei Tedeschi, che in tal modo «... volevano incutere terrore alla popolazione e ai partigiani». (35)

C'è da dire che effettivamente la strage in questione è sempre stata avvolta nel mistero, sia nella sua dinamica sia rispetto alle dirette responsabilità; questo perché la rappresaglia venne attuata in piena notte con la città deserta per il coprifuoco, sicché, a parte un caso inaspettato, non vi furono testimonianze dirette dell'accaduto e dell'identità dei partecipanti. Anche chi scrive, avendo presa per buona la testimonianza del prete partigiano, difese ripetutamente in pubblicazioni locali e su giornali cittadini la figura di Romualdi, indicato come il responsabile dei fatti nonostante la sentenza assolutoria. È però di pochi mesi fa una scoperta che rimette tutto in discussione. Sono stato infatti contattato da un ex-milite della RSI che nella fatidica notte della rappresaglia si trovava casualmente presso il comando della B.N. di Parma. Questo testimone, che visse tutto lo svolgersi degli avvenimenti, ammette francamente la responsabilità della B.N. di Parma nelle esecuzioni, che, essendo state eseguite con il colpo alla nuca, potevano far pensare ai più sbrigativi metodi tedeschi.

Quella sera Romualdi non era presente nella sede della B.N.; tuttavia si fece vivo al telefono conversando pure con il teste suddetto del cui padre era amico. Proprio mentre Romualdi telefonava, erano in corso i preparativi per i «processi» di ogni singolo giustiziando, sicché appare impossibile che il tutto sia avvenuto a sua insaputa o addirittura contro le sue disposizioni. In tutti i casi, fosse o meno d'accordo sulle esecuzioni, rimane il fatto che Romualdi, in quanto Comandante della B.N. di Parma, aveva comunque una responsabilità oggettiva riguardo all'operato dei suoi uomini. E poi, quale subalterno avrebbe potuto decidere una cosa così grave come la più pesante rappresaglia fascista eseguita a Parma? Non risulta che nessuno sia stato punito o allontanato dal Corpo delle B.N. per questo fatto. Si può dunque concludere che la testimonianza del prete partigiano assume valenze troppo di favore, anche perché la precedente Corte di Milano aveva già escluso quella pena di morte che sola poteva giustificare una falsa testimonianza da parte di un prete, sebbene partigiano nonché agente dell'intelligence americana.

Ugualmente sospetta risulta la testimonianza in suo favore dell'agente del SIM Gianni Nadotti. Al suo ex-segretario Battioni, che gli chiedeva la ragione dei suoi ottimi rapporti con il «traditore» Nadotti, Romualdi rispondeva che in fin dei conti l'agente del SIM «aveva fatto il suo gioco». (36)

Tenuto conto dei precedenti, per quanto ci riguarda incliniamo a credere che Romualdi sia stato invece ripagato dai vari servizi segreti italiani e stranieri, per il suo operato sia durante l'ultima fase della RSI che successivamente. La nascita del MSI ottemperava infatti alle strategie politiche interne e a quelle connesse alla spartizione dell'Europa. In campo interno si rafforzava la posizione centrista del governo De Gasperi; ponendosi alla sua destra, il MSI garantiva alla DC la lucrosa politica dei «due forni» enunciata da Andreotti. Nel contempo veniva eliminato il fascismo clandestino e in tal modo i neofascisti potevano essere controllati ed eventualmente ingaggiati per bassi servizi. Nel quadro internazionale si dovevano poi convertire gli ex-«repubblichini» alle posizioni filo-atlantiche di supporto della NATO, facendo loro accantonare -e poi dimenticare- l'originale pregiudiziale ANTI-plutocratica; e ciò in nome di una Patria (che non era più la loro) da proteggere dal comunismo, peraltro già escluso dal potere in Italia in virtù degli accordi di Yalta.

Queste tesi del resto non sono nuove, essendo già state enunciate per esempio dal redattore di Radio Milano durante la RSI, Fausto Brunelli, che già negli anni '50 scriveva: «Il CLN, anzi i partiti anticomunisti del CLN, avevano creato il MSI per due motivi ben precisi: 1) per eliminare il fascismo clandestino giacché se le masse ex-RSI si fossero inalveate in esso, se fossero esistiti cospicue forze politiche clandestine, la democrazia si sarebbe trovata in crisi; 2) per inserire i fascisti ex-RSI nel fronte anticomunista prima che i partiti della estrema sinistra, per accaparrarseli avanzassero ad essi qualche offerta degna di considerazione. Si mirava così ad inalveare le forze ex-fasciste entro il gioco politico democratico ed a tenerle prigioniere in esso fino alla loro liquidazione, si mirava a sviare il carattere vero del fascismo, parimenti avverso alla plutocrazia ed al comunismo, alle potenze occidentali ed all'URSS e formando un neofascismo ad intonazione solo anticomunista e quindi non più bandiera della lotta per l'indipendenza nazionale dalle ingerenze della Gran Bretagna e degli USA». (37)

Bisogna peraltro considerare che la DC e gli altri partiti di governo si erano cautelati nei confronti del MSI, che, nato da ricatti e blandizie, non doveva uscire dal suo alveo specificamente anticomunista. La «legge Scelba» contro la ricostituzione del PNF dava infatti facoltà al Governo -più che alla magistratura- di sciogliere eventuali movimenti d'intonazione neofascista. A maggior ragione il MSI è sempre vissuto in libertà vigilata e con la condizione di dover ottemperare al ruolo assegnatogli nel gioco delle parti, pena l'eventuale scioglimento e la conseguente drammatica perdita di posizioni nel Parlamento e negli Enti Locali. La successiva «legge Mancino» ha ulteriormente allargato il raggio d'azione e di discrezionalità nei confronti di «fascisti» non omologati -o non omologabili- dall'attuale sistema politico. Vi è una curiosa costante nella strategia del potere politico in Italia, che tende da una parte a condizionare con leggi speciali la «destra» più o meno neofascista, mentre alla «sinistra» si preferisce opporre una strategia basata sulla reazione controrivoluzionaria («Rosa dei Venti», «Gladio», ecc.).

Fino ai nostri giorni tali manovre sono perfettamente riuscite, anche perché sedicenti «neo-fascisti» hanno sempre appoggiato le trame più reazionarie del potere nei confronti dell'estrema sinistra, così come quest'ultima ha sempre collaborato ad inasprire le leggi liberticide nei confronti del neofascismo.

 

Franco Morini

 

(1) Testimonianza resa allo scrivente dall'ex-segretario del Federale di Reggio Emilia, Dante Scolari.

(2) P. Romualdi "Scovarli" in "Gazzetta di Parma" del 29 gennaio '44 e sempre di Romualdi "Capitalismo alla sbarra" in "Gazzetta di Parma" del 20 febbraio '44 e "Certa borghesia" in "Gazzetta di Parma" del 18 marzo '44.

(3) Relazione autografa sull'attività svolta dal ten. Nadotti Giovanni nel periodo marzo '44 - maggio '45 (arch. M'orini).

(4) Denuncia cr/Sc del 43° C.M.P. del 14/4/45, indirizzata al Tribunale Militare di Guerra - Sez. del 202° Comando Militare Regionale di Brescia (arch. M'orini).

(5) Di questo memoriale ho ricevuto copia fotostatica dall'originale da parte del prof. Marino Viganò, già curatore delle memorie postume di Pino Romualdi edite con il titolo di "Fascismo Repubblicano", Varese, 1992. Si deve rimarcare che, fatto strano, le memorie dello Scandaliato nel succitato libro sono state epurate proprio della parte di cui sopra senza peraltro segnalarlo al lettore (in op. cit. pag. 216).

(6) P. Romualdi "Fascismo Repubblicano", op. cit., pag. 172.

(7) Cfr. G. Bianchi-F. Mezzetti "Mussolini, aprile '45: l'epilogo", Novara, '85, pag. 34.

(8) P. Romualdi "Cronaca di due giorni", in "l'Italiano" n° 4, aprile '60.

(9) P. Romualdi, art. cit., in "l'Italiano", pag. 39.

(10) B. Spampanato, "Contromemoriale", Roma, '52 - 3° vol. (Il segreto del Nord), pag. 134.

(11) P. Romualdi, art. cit. in "l'Italiano", pag. 37.

(12) P. Romualdi, ibid.

(13) M. Caudana, op. cit., pag. 698

(14) P. G. Murgia, "Ritorneremo!", Milano, '76, pag. 281.

(15) P. Romualdi, "Il 18 brumaio dell'On. De Gasperi" su "l'Italiano" n° 8, '59.

(16) F. Parri, "Due mesi con i nazisti", Roma, '73, pag. 23.

(17) G. De' Medici, "Le origini del MSI", Roma, '86.

(18) Cfr. M. Tedeschi, "Fascisti dopo Mussolini". Roma, '50, pp. 102-107.

(19) M. Tedeschi, op. cit., pp. 119-121.

(20) Secondo Tedeschi l'operazione di pubblica sicurezza contro i FAR era da attribuire ad infiltrazioni ad opera di comunisti e polizia - op. cit. pp. 169-171.

(21) Testimonianza resa da Luigi Battioni, ex-segretario di Romualdi nel periodo clandestino.

(22) Cfr. D. Leccisi, "Con Mussolini prima e dopo piazzale Loreto", Roma, '91, pp. 304-310.

(23) P. G. Murgia, op. cit. nota n° 4, pp. 299-300.

(24) P. G. Murgia, op. cit. nota n° 4, pp. 296-297

(25) R. Comini-G. Rabaglietti, "Le leggi dell'Italia libera", Bologna, '45, pag. 206.

(26) I Consigli di gestione delle aziende socializzate sopravvissero alla caduta della RSI fino a quando, il 6 dicembre 1945, un accordo stipulato fra CGIL e Confindustria stabilì che, in cambio di alcuni miglioramenti e l'istituzione della scala mobile, i Consigli di gestione venivano aboliti.

(27) Cfr. G. De' Medici, op. cit., pag. 61.

(28) Cfr. G. De' Medici, op. cit., pag. 61.

(29) G. Almirante, "Autobiografia di un fucilatore", Milano, '74, pag. 133.

(30) P. G. Murgia, op. cit., pag. 99.

(31) P. G. Murgia, op. cit., pag. 100.

(32) F. G. Murgia, "Il Vento del Nord", Milano, '75, pag. 295; dello stesso A., "Ritorneremo!", cit., pp. 188-189. Si veda inoltre C. De Lutiis "Il lato oscuro del potere", Roma, '96, pp. 25-29.

(33) Testimonianza di Luigi Battioni, cit.

(34) "L'assoluzione del Romualdi richiesta dalla pubblica accusa", in "Giornale dell'Emilia" del 24 maggio '51.

(35) "Testi a discarico nel processo Romualdi", in "Giornale dell'Emilia" del 17 maggio '51.

(36) Testimonianza di Luigi Battioni, cit.

(37) F. Brunelli, "La crisi del MSI e delle altre destre". Roma, '56, pag. 105.

 

 

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