da "AURORA" n° 45 (Gennaio 1998)

LAVORO E SOCIETÀ

35 ore epuloniane

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L'impegno del governo a ridurre la settimana lavorativa a 35 ore deve essere inquadrato nella trasparenza storica delle trasformazioni dei rapporti di lavoro nell'era della rivoluzione tecnologica e del tempo libero. Con una disoccupazione di massa a carattere strutturale (nella sola Unione europea conta il 12% della popolazione attiva), la via maestra per modernizzare il sistema è la riduzione durevole dell'orario di lavoro, sfruttando gli aumenti di produttività. Nell'era dell'interdipendenza e della globalizzazione si avverte il bisogno non di riformare lo Stato sociale, di introdurre nel mercato del lavoro una maggiore flessibilità, di sacrificare cioè l'occupazione alla produttività, ma di una nuova «teoria generale dello sviluppo». L'innovazione tecnologica e, più in generale, gli investimenti nei settori «capital oriented» hanno sistematicamente prodotto un aumento dell'occupazione. Diverse riduzioni parziali degli orari di lavoro, attraverso modulazioni e «scambi» con festività, turni e pause, hanno già ridotto l'orario a 37 ore, e nel contempo si diffondono articolazioni dei rapporti di lavoro dette «atipiche» proprio per la circostanza di basarsi su una minore durata degli orari. La riduzione dell'orario è in pratica, per molti versi, un portato della diversificazione del sistema produttivo e si stenta a capire la veemenza della protesta padronale e le prudenze dei sindacati.

La meta delle 35 ore a parità di salario si accompagna naturalmente a un incremento della produttività se, per esempio, si annualizza l'orario e lo sfruttamento intensivo del lavoro parziale. Sono le indicazioni che vengono dalla Germania, dove alla Volkswagen le 35 ore esistono dal 1993, e dall'Olanda, dove l'occupazione a tempo pieno è diventata una merce rara.

I keynesiani sanno che il reddito è determinato dalla domanda globale e, pertanto, che se i costi non aumentano e la politica economica non diventa restrittiva non esiste alcuna ragione per cui il reddito dovrebbe contrarsi.

Dalla prima rivoluzione industriale a oggi le riduzioni dell'orario di lavoro non hanno mai provocato cali di produttività. Anzi. Tutta una serie di evidenze empiriche dimostrano come la riduzione dell'orario di lavoro si coniughi alla contemporanea difesa della produttività, attraverso, appunto, lo sviluppo.

Dal 1850 la grande sfida, che divenne ben presto un traguardo di libertà, fu quella delle otto ore. Le quarantotto ore settimanali sono state, fino agli inizi del nostro secolo, la cartina tornasole dell'evoluzione politica del liberalismo, allora trionfante, nella democrazia. Le otto ore furono introdotte in Italia da Mussolini nel 1923 con un decreto legge. Solo dieci anni dopo, nel marzo 1933, a Washington una Convenzione internazionale sancì le quarantotto ore di lavoro settimanali. Sempre all'avanguardia l'Italia mussoliniana nel 1935, alla Conferenza internazionale del lavoro, i delegati italiani, propongono, suscitando la viva protesta degli industriali europei la riduzione del lavoro settimanale a quaranta ore. La seguirà su questa strada, un anno dopo, il Fronte popolare di Léon Blum.

L'introduzione per legge delle 40 ore fu celebrata da Prévert e Aragon, commosse registi come Carné e Ronair, impegnò attori come Arletty e Jouvet, fu immortalata da fotografi come Cartier-Bresson e Doisneau, mentre a Charles Trenet ispirò due dolcissime melodie, Bateau d'amor e Y'a de la joie. Altri tempi. Oggi l'Italia è un esempio in negativo. Da elemento propulsivo, luogo di una lungimirante politica di elevazione umana, oggi, priva di una salda coscienza nazionale, riesce solo ad andare a rimorchio di altri paesi. La promessa delle 35 ore settimanali del governo Prodi, per il 2001, ricalca la promessa del capo del governo francese Lionel Jospin per il 2000. Con ciò non si vuol respingere il proposito governativo. Non crediamo alle pessimistiche previsioni del presidente della Confindustria Fossa, impegnata a dare il via ad una campagna a livello europeo contro le 35 ore, concertata con il padronato francese e tedesco. Non comprendiamo nemmeno le riserve e cautele del segretario della CGIL. Quando Cofferati sostiene l'esigenza di inquadrare la riduzione dell'orario «dentro il quadro stabilito dalla politica dei redditi», dimentica che l'accordo con la Confindustria del 23 luglio non contempla affatto spazi di «contrattazione» sull'orario. Assumendo la riduzione d'orario come «costo del lavoro» e disfacendosi della «patata bollente» delle 35 ore lanciandola a un tempo ben oltre il 2001, somiglia troppo a Fossa per riuscire credibile.

Il problema è un altro. È la sua limitatezza, il suo ridursi a uno sgravio di lavoro, alla eliminazione degli aspetti più fastidiosi di un rapporto alienante, che resta comunque tale, anziché cercare di rimuovere le cause generanti l'alienazione. Ora che il lavoro non è più prestato alle condizioni aberranti del passato il lavoratore ha poco da entusiasmarsi alla prospettiva di smontare un'ora prima.

Quanto gioirebbe lo schiavo che si vedesse aumentare la già sufficiente razione alimentare? Probabilmente non la rifiuterebbe ma sicuramente farebbe salti di gioia per un piccolo passo fuori dalla condizione di schiavitù!

Questo dovrebbe capire il signor Bertinotti. Ma forse è chiedere troppo a un riformista borghese con la maschera rossa. Ritiene di fare già molto e candidamente ammette che la spinta alla riduzione dell'orario «non muove dall'interno del mondo del lavoro» (intervista a Bertinotti in "Flessibilità", ed. Sole - 24ore), pavoneggiandosi di essere in posizioni più avanzate dello stesso movimento operaio, senza accorgersi di perdere a mano a mano il seguito.

Mussolini, avendo sperimentato personalmente le condizioni del lavoro, quando al cantiere di Orbe in Svizzera, trasportava massi da costruzione per undici ore al giorno, a 32 centesimi all'ora, tra le ingiurie dei padroni che deploravano il suo decoro nel vestire e le parole sprezzanti al momento della paga: «ecco il vostro avere ed è rubato», affronta il problema del lavoro in maniera diversa. Nel 1919 insieme alla riduzione dell'orario di lavoro chiede contestualmente:

1) La formazione di Consigli nazionali tecnici del lavoro, dell'industria, dei trasporti, dell'igiene sociale, delle comunicazioni ecc. eletti dalle collettività professionali e di mestiere, con poteri legislativi, e con diritto di eleggere un Commissario generale con poteri di Ministro;

2) La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell'industria;

3) L'affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici;

4) Una necessaria modificazione del progetto di legge di assicurazione sull'invalidità e sulla vecchiaia, abbassando il limite di età proposto attualmente da 65 anni a 55 anni.

Un progetto vecchio in termini temporali ma di straordinaria attualità alle soglie del 2000.

Il lavoratore è un uomo capace di conferire un costruttivo apporto valutativo, decisionale, operativo. Non lo si dimentichi se si vuol essere decisamente dalla sua parte. Le elemosine, date e tolte a seconda delle circostanze economiche, (pratica costante del riformismo borghese), hanno fatto il loro tempo, non sono più credibili. Una significativa parabola evangelica, quella di Epulone, chiarisce i termini della questione. Epulone non è né ozioso né cattivo ma finisce ugualmente all'inferno perché -pulito, superalimentato, signore- non riconosce nel povero piagato, che siede alla sua porta, il fratello. La parabola non dice che Epulone nega a Lazzaro la sua elemosina; su questo particolare tace significativamente. L'elemosina è solo elemosina appunto, non partecipazione di vita, non vincolo condiviso di fraternità, non volontà di riconoscere nell'altro, in ogni altro, statura umana.

In ciò consiste il terribile peccato di Epulone. In ciò consiste l'enorme colpa della politica miope.

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