da "AURORA" n° 49 (Giugno 1998)

PRECISAZIONI

A proposito di autocritica

Francesco Moricca

 

La lettera di Tiziano Galanti apparsa nel n° 48 di "Aurora" mi ha indotto a diverse riflessioni, anche riguardo alla risposta del Direttore, che condivido in larghissima parta specie per la sua ponderatezza. Quanto segue, credo, è altrettanto ponderato; e tuttavia intende ampliare il discorso oltre il limite della politica in senso stretto. Ciò è tanto più utile quando l'interlocutore non è di «area» e nel contempo è serio ed onesto intellettualmente come l'amico Galanti.

La parte centrale dell'intervento di Galanti riguarda l'autocritica. Sappiamo il significato che il termine ha storicamente acquistato nei regimi totalitari, ma lo accettiamo lo stesso a due precise condizioni: che essa non deve presupporre un referente esterno a quella che vorrei definire «ragione persuasiva» piuttosto che, kantianamente, «ragion pura-pratica» e che essa non deve indurre «sensi di colpa», secondo quei meccanismi psicologici, trasmessi a livello cultural-genetico, che sono stati creati dall'Inquisizione cattolica e ripresi, nel nostro secolo, da quella bolscevico-stalinista.

A queste condizioni l'autocritica può essere costruttiva, ma lo sarà effettivamente solo se condotta con rigore maggiore di quello di cui può essere capace un tribunale dell'Inquisizione. Nel nostro caso, siamo noi stessi i giudici e non il nostro interlocutore amico, né vi è bisogno alcuno di avvocati difensori, la «difesa» essendo inutile e anzi controproducente.

In una parola, occorre saper essere spietati con sé stessi ma guardandosi bene dalla tentazione in agguato di autoflagellarsi ovvero di difendere ad ogni costo la propria opinione.

Vale la pena di sviluppare un'analisi del secondo caso. Accade che l'autodifesa non sia rivolta tanto a giustificare le proprie scelte oppure a spiegarle, quanto piuttosto a salvare per il futuro certe convinzioni che in passato hanno costituito la ragione di tutta la nostra vita. Sono, quelle convinzioni, ciò che impropriamente si definisce «mito». In realtà i veri miti sono essenziali ed «eterni» in quanto riproducono situazioni esemplari della condizione umana. Se le circostanze storiche sono mutevoli, è tuttavia immutabile il rapporto dell'uomo di fronte al divenire: al divenire come messa in crisi dolorosa di uno stato precedente. I veri miti fanno sempre appello all'eroismo, perché il dominio del dolore e il superamento della crisi, di qualsiasi crisi, ha bisogno di eroismo, non di medici, di assistenti sociali, psicologi e psicoanalisti. I falsi miti, invece, si riconoscono subito perché o non fanno appello all'eroismo, o ne danno una interpretazione utilitaristica e pragmatica, sempre «storicizzata» e pregiudizialmente ostile alla parola «eternità» quando essa non significhi «eternità della mutevolezza». Per tale ragione i falsi miti sono sempre «revisionisti», tendono a conservare il peggio del passato piuttosto che il meglio. Sono anti-eroici, perché l'eroismo implica un dispendio eccessivo di energie; è, in una parola, anti-economico in ogni senso. Anche sul piano psicologico e culturale: il che è particolarmente rilevante in tema di autocritica. Per questa via e in questa prospettiva, si può capire la profonda crisi esistenziale dei comunisti, di tutti loro. Anche di coloro che non si riconoscono in D'Alema e in Bertinotti. Questi ultimi soffrono più degli altri, per nostra disgrazia viste le loro responsabilità di governo, perché godono di privilegi che sanno bene di non potere meritare e forse di non meritare neanche secondo la morale borghese. La loro «cattiva coscienza» è al limite della malafede ed essi, credo, non lo ignorino.

Quindi non salverei nulla del marxismo che non esuli dalla mera contingenza storica, e più per il passato che non per l'avvenire. Il marxismo in ogni sua variante è oggi al massimo uno strumento di conoscenza della realtà contemporanea. Ma la conoscenza non serve a nulla, non solo in termini immediatamente politici, se manca la volontà o se essa è deviata oppure debole. Qui è da cercare il vero merito della resa incondizionata del comunismo al «capitalismo trionfante». Il «trionfo» di quest'ultimo è dipeso non dai suoi meriti reali, ma dall'inadeguatezza del comunismo, che però, dopo essersi spacciato come una «religione alternativa», continua a spacciarsi come l'«unica vera cultura», la quintessenza della «cultura liberale». Purtroppo la maggioranza continua a crederci; ci crede anche l'amico Galanti e non senza qualche profonda ragione.

Noi abbiamo il massimo rispetto per le convinzioni altrui molto più di quanto ne abbiano mai avuto i cosiddetti liberali e coloro che furono comunisti e come «maestri di libertà» oggi aspirano a far da maestri agli stessi liberali. Almeno -nessuno può negarlo- non ci siamo mai serviti dei mezzi subdoli della «tolleranza repressiva».

Questo però non significa che non ci sentiamo in dovere di avvertire i nostri amici interlocutori dei loro errori. È l'amicizia che essi ci offrono e che noi sentiamo di dover ricambiare, che ci obbliga a non usare mezzi termini per un malinteso senso di «urbanità». Noi proponiamo i nostri pensieri a chi ce li chiede e non pretendiamo nulla che non provenga dal libero assenso dettato dalla persuasione. Va da sé -ma è bene dirlo- che siamo disponibilissimi a correggere i nostri errori, non soltanto con le parole.

 

* * *

Ciò detto circa il problema dell'autocritica, esponiamo di seguito schematicamente i nostri punti di vista riguardo alle tesi di Galanti, tesi che sono tutte collegate al suo modo di concepire l'autocritica e ne risentono i limiti.

Quanto alla nostra pretesa «faziosità» nei confronti degli USA, vorremmo aggiungere alla puntuale risposta del Direttore, che, se è bene distinguere e prendere il buono «ovunque si trova», è ancor meglio non dimenticare che il carattere di un popolo è determinato dalle sue classi dirigenti e non viceversa. Ciò è il contrario di quanto affermano le democrazie moderne, ma almeno non consente di demonizzare interi popoli, parimenti impedendo di guardarli con un'eccessiva «ecumenica benevolenza». Bisogna ancora non dimenticare che il Nord America fu colonizzato dalla feccia d'Europa, e non mi riferisco tanto a persone dalla «dubbia moralità», quanto in specie a «persone per bene» ma seguaci in gran parte di quel calvinismo che Max Weber individuò come «religione del capitalismo». Gli USA furono così il «terreno di cultura» dell'«infezione» che, partita dall'Europa, ritornerà poi in Europa diffondendosi nel resto del mondo. Va riconosciuto che gli USA ebbero in Jefferson l'unico grande Presidente che, con la sua "Rivoluzione del 1800", cercò di determinare una inversione di tendenza lottando strenuamente contro il prepotere delle banche espressione compiuta della «spiritualità» calvinista. Ma, dopo la sua morte, il suo tentativo in chiave socialista e nazionale riecheggiante le migliori tradizioni europee, non ebbe seguito alcuno, se non qualche episodio negli Stati del Sud, strozzato sul nascere con la Guerra di Secessione (1861-65).

Da quanto precede, è chiaro che il nostro «amore» per la «civiltà europea» ne esce alquanto ridimensionato. Nella fattispecie, la infelice conclusione delle guerre di religione che sconvolsero l'Europa fino al 1648 (fine della Guerra dei Trenta Anni) -conclusione vittoriosa per i protestanti, da collegarsi alle origini degli USA- è per noi il segno della debolezza del cattolicesimo romano e della Spagna che allora rappresentavano il fronte della vera civiltà europea, debolezza che denuncia un malessere preesistente che risaliva almeno al 1200, di cui la Riforma fu la principale conseguenza. Questo «malessere» aveva cause interne. Per cui io credo che il calvinismo, il capitalismo, la conquista e l'asservimento dell'Europa agli USA con quanto ne deriverà a tutt'oggi sono precisamente una nemesi storica.

Credo di poter parlare non solo a titolo personale, se affermo che l'europeismo di Sinistra Nazionale si fonda sulla chiara consapevolezza di ciò e si pone come atto di riscatto di una «colpa storica» plurisecolare di tutti gli Europei, compresi i protestanti e perfino, perché no, gli «europei statunitensi». Però secondo la Tradizione romana dell'Europa, e contro l'«infezione» calvinista, nordamericana e mondialista.

Secondo tale prospettiva il nostro «nazionalismo» di Europei italici non può essere tacciato di particolarismo egoistico, e magari sciovinistico. Se poi si nota come la nostra rivista dia spazio ai problemi dei popoli non europei, non europei neanche per origini, ci si dovrebbe concedere che siamo a nostro modo internazionalisti: precisamente, internazionalisti in quanto anti-mondialisti e solo per questo motivo, (escludendosi, cioè, per noi categoricamente il cosmopolitismo sotteso nella concezione «proletaria» dell'internazionalismo).

Quanto al nostro presunto nazionalismo italiano «di marca fascista», il Direttore ha usato nella sua risposta a Galanti parole molto forti, quando riconosce amaramente che in ogni italiano vi è un Arlecchino e un Pulcinella: sulla base -aggiungerei- di uno scetticismo e di un cinismo «culturali» che rendono la «maschera dell'Italiano» più bieca che comica. Alcuni sostengono che lo scetticismo e cinismo degli italiani (di vecchia data, se si pensa a Machiavelli e in specie a Guicciardini), sia dovuto all'«antichità» della civiltà italica e all'essere essa il frutto dell'«incontro di civiltà diverse e a volte diversissime». Tesi tipicamente intellettualistica, e «progressista» che spaccia un vizio immondo per un'eccelsa virtù. A nostro modo di vedere, invece, lo scetticismo è il cinismo italici derivano dal pessimo esempio delle classi dirigenti: che è quanto dire della Chiesa che è riuscita a fare della Penisola il centro del «patrimonium Petri» (pagine a sostegno di questa nostra «opinione» si trovano in Machiavelli e in Guicciardini, specie nei "Discorsi sulla I deca di Tito Livio" e nei "Ricordi"). E forse si dovrebbe risalire molto più indietro nel tempo: al proliferare della legislazione romana nel tardo periodo repubblicano e durante l'età imperiale, che un illustre romano del tempo, espertissimo della cosa pubblica, giudicò molto negativamente in quanto «troppe leggi uccidono la legge».

Non ci si può neanche accusare, quindi, che il nostro «culto» della romanità (che certamente ereditiamo dal miglior fascismo e che fu anche di Gramsci) sia «acritico».

 

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E, per concludere, le nostre considerazioni su quanto Galanti dice e sottintende riguardo a Marx.

«Marx -egli scrive- era un uomo, con tutte le sue debolezze e contraddizioni». L'«ultimo Marx», quello che sarebbe ritornato alla «giovanile filosofia», proprio nella consapevolezza dei propri «limiti umani», non avrebbe potuto che condannare ciò che faranno i suoi seguaci fino a Pol Pot, e in cui -sembra di capire dal tono del discorso di Galanti- Nietzsche avrebbe il ruolo di «istigatore».

Sulle «debolezze umane» di Marx invitiamo a riflettere l'amico Galanti, perché è dubbio possano definirsi in questa forma «riduttiva». Per fare qualche esempio: è una «debolezza umana» escludere che una propria figlia sposi un proletario e desiderare per lei un «buon partito»? è una «debolezza umana» essere orgoglioso di aver sposato una baronessa sorella del Ministro degli Interni prussiano, costringere lei e i propri figli a un'esistenza di stenti mentre si delapidavano somme considerevoli e di dubbia provenienza giocando in Borsa? è una «debolezza umana» avere un figlio con la persona di servizio della propria moglie e attribuirne la paternità all'amico Engels? è una «debolezza umana» aver ricevuto da questi frequenti e consistenti aiuti finanziari sfruttandone senza remore la generosità e la fedeltà a tutta prova? è solo una «debolezza umana», magari dovuta all'arteriosclerosi,, gongolare come bambini, da vecchi, perché si è stati ricevuti dalla regina Vittoria?

Ammesso che queste siano «debolezze umane», quale consistenza etica si può seriamente attribuire a un «socialismo dal volto umano» che fondi il proprio «umanesimo» in negativo piuttosto che in positivo? Quali meriti «scientifici» -che saranno poi utilizzati, come sappiamo, non solo da Pol Pot- possono compensare una simile sostanza «umana», così «comune» nei suoi tratti addirittura piccolo borghesi?

Quanto alla «puzza d'umano», forse l'avvertiva assai più, nel suo esasperato arrivismo piccolo-borghese, Marx che non Nietzsche. Il quale, quanto meno, fece male -e molto male- prima di tutto a se stesso.

Venendo alla «filosofia» di Marx, non dobbiamo dimenticare che anche per il «giovane Marx» era hegelismo «capovolto» nel senso di orientato verso la immediata pratica realizzazione. Ciò può spiegare non solo il motivo «ideologico» delle «debolezze umane» di Marx, ma anche le «aperture» verso i contadini segnalate nell'ultimo Marx da Galanti. Non esiste affatto contraddizione fra le tesi classiche sui contadini, quelle del "Manifesto" e del "Capitale", e le tesi della corrispondenza con la Zasulic: perché la prassi rivoluzionaria è più importante della teoria; i conti con la teoria potendosi sempre fare dopo la rivoluzione, come iniziò Lenin e fece compiutamente Stalin, risolvendo con «metodi drastici» il problema dei Kulaki. Forse che è pensabile che Marx avrebbe consigliato Lenin di fare la rivoluzione d'Ottobre solo perché la Russia era ancora un paese prevalentemente contadino, assai più di quanto lo fosse l'Italia o l'Ungheria nello stesso periodo?

Non sembri, comunque, che simili riflessioni su Marx e i suoi «continuatori feroci» siano dettate da animosità preconcetta. Ove non bastasse quanto sostenuto da me in qualche articolo più dettagliato e approfondito di queste rapide note (su Marx in particolare e sul rapporto di Marx con la destra radicale e il cosiddetto «nazionalbolscevismo), vorrei qui aggiungere: 1) che per me la questione della «giustizia distributiva», pur con tutti i limiti della soluzione marxista-leninista, rimane essenziale per una risposta alla questione veramente importante della Giustizia (senza nozione della quale, col pretesto di attuare la «giustizia distributiva», si finisce soltanto col «distribuire in maniera diversa l'ingiustizia»), restando fermo e indiscutibile che, privilegiando il valore della Giustizia e poco o affatto curando la «giustizia distributiva», si offende la Giustizia e se ne cancellano le ultime tracce nella «memoria collettiva»; 2) che, in questa speciale prospettiva, i legami del fascismo col comunismo risultano assai più stretti di quanto siano disposti a riconoscere gli stessi fascisti e gli stessi comunisti, in ciò commettendo un imperdonabile errore, errore che non è soltanto «intellettuale», che -vorremmo dire con un paradosso- rientra nella categoria degli atti propri della «intelligente stupidità».

Secondo il nostro personale modo di intendere la «autocritica», potremmo dire allora che mai si avrà esatta comprensione del fascismo, della stessa natura dei limiti del fenomeno storico del fascismo, se prima non si saranno fatti i conti con l'origine marxista del fascismo; fino a quando non si sarà depurato il fascismo da tutte le scorie del marxismo, tanto «revisionista» quanto «rivoluzionario».

Dovrebbe essere chiaro, non solo per l'amico Galanti da cui attendiamo altri interventi chiarificatori, quali sono le vere cause del nostro «personale accanimento» verso Marx, che è critico nella stessa misura in cui è autocritico.

Francesco Moricca

 

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