da "AURORA" n° 50 (Luglio - Agosto 1998)

DINAMICHE ECONOMICO-SOCIALI

 

Il totalitarismo neoliberista in Italia:

avvio di un'analisi

Filippo Ronchi

 

Premessa

Le trasformazioni verificatesi nel nostro Paese durante gli anni Novanta dimostrano come l'instaurazione del totalitarismo neoliberista (più mercato, più competizione, meno protezione, meno assistenza) non produca benessere, ma faccia crescere l'ingiustizia e la disgregazione sociale. Questo contributo per un'analisi dei processi in corso focalizza l'attenzione su due dimensioni che appaiono particolarmente indicative in tal senso.

 

Gli Italiani se ne vanno

L'andamento demografico è forse il segnale più vistoso dei cambiamenti profondi che investono un popolo e la sua cultura. I rapporti ISTAT del '97 hanno confermato come continui il saldo negativo (che prosegue ormai da 4 anni) per la natalità in Italia. La differenza tra nascite e decessi si è attestata, infatti, lo scorso anno al meno 0,4 per mille: 540.048 contro 564.679. Per avere un termine di paragone, si pensi che nel 1963, quando si verificò il «baby-boom», videro la luce un milione di bambini all'incirca. Se, in termini assoluti, la popolazione continua a crescere, ciò è dovuto unicamente agli immigrati. Bisogna tornare alle guerre tra Goti e Bizantini, alla peste nera del Medioevo e a quella seicentesca di manzoniana memoria per ritrovare nella nostra storia fenomeni del genere. In età contemporanea, infatti, si era verificato un solo episodio simile, ma per un motivo ben evidente: la falcidia dei soldati contadini nel corso della Prima guerra mondiale.

La tendenza al declino durava, per la verità, ormai da anni ed era stata ampiamente prevista. Quello che sorprende gli stessi statistici e demografi è l'accelerazione assunta dalla denatalità, che sorpassa perfino le pessimistiche previsioni degli esperti.

Le interpretazioni sulla grande inversione demografica, che accomuna tutto l'Occidente, ma che proprio in Italia tocca le sue punte più alte, sono divergenti. I neoliberisti dipingono una società del futuro con sessantenni sempre più pimpanti e attaccati al lavoro, con famiglie in cui i figli assumono un peso specifico maggiore, con ampi spazi per la scomparsa della sovrappopolazione, con schemi logori che saltano sotto la pressione dei flussi migratori ed annessi incontri tra culture diverse. In base alle esperienze concretamente vissute dagli Italiani negli ultimi anni, ci sembra di poter affermare, invece, che sarà molto più probabile trovarsi a vivere in una società di anziani abbandonati, di figli unici intimoriti e disorientati, di tensioni provocate nelle fasce sociali più deboli dalla spinta degli extracomunitari, di individualismo esasperato e generalizzato Anche senza voler scadere nel catastrofismo che prevede la «estinzione» degli Italiani tra due secoli se si mantiene l'attuale tendenza, è innegabile che le cifre evocano, ormai, un tramonto di civiltà. Che cosa succede? Accade che il neoliberismo morde sempre più forte, si espande la disoccupazione degli adulti e la non-occupazione dei giovani. Non parliamo poi delle difficoltà di trovare casa anche per chi un lavoro ce l'ha. A questo proposito è da ricordare la bonaccia di matrimoni che si sta verificando: nel 1993 c'è stato il folgorante record negativo delle nozze. Per dare un'immagine reale, diciamo che ogni mille abitanti si sono sposate solo cinque coppie, mai così poche dall'Unità d'Italia. Si obietterà che il nostro non è l'unico Paese a vivere una crisi economica, che le possibilità di consumo non sono precipitate con ritmi pari alla caduta demografica. Il che è vero, ma quello di cui non si tiene conto è della novità costituita dalla instaurazione del totalitarismo neoliberista in Italia. È aumentata, nella coscienza di uomini e donne, l'allarmante consapevolezza di tutto ciò che è necessario per garantire ad un figlio una base economica tale da consentirgli di partecipare con qualche speranza di successo alla «competizione» sempre più spietata per trovare una collocazione nella società spaccata tra «vincenti» e «perdenti». Di fronte ad un sistema che ha creato un ideale di vita fatto solo da una serie di lussi piccoli o grandi obbligati, che si inseguono e si moltiplicano come le rate, aumentano la prudenza e la paura.

La condizione della donna è un'altra ragione di fondo della curva demografica in calo. Le ragazze si diplomano e si laureano in proporzione crescente, per poi gettarsi nel «mercato». Ma i meccanismi di funzionamento del neoliberismo, tesi alla compressione dei costi sociali dello Stato, nulla o quasi fanno per aiutare le donne a trovare un equilibrio fra lavoro e famiglia. Se nella società contadina avere figli era una necessità, oggi la scelta di non averli o di limitarsi (uno basta e avanza) è dettata da altre necessità, di segno contrario. Insomma non c'entrano l'egoismo e l'edonismo del nuovo Italiano medio, come affermano certi moralisti del Vaticano secondo cui si distingue solo fra quello che è comodo o scomodo, fra quello che rende oppure no. Il calo demografico è soprattutto frutto della crisi profonda dei valori della nostra società e della nostra cultura, provocata dall'affermazione senza più argini del totalitarismo neoliberista. Una politica attenta alla conciliazione delle esigenze del lavoro e della famiglia offrirebbe alle coppie una maggiore libertà di scelta, che potrebbe portare a un lento ritorno verso i due figli per donna, il minimo indispensabile per iniziare ad invertire la linea demografica attuale. Ma ciò implicherebbe un deciso intervento dello Stato, inquadrato in una cornice di difesa della identità comunitaria di un popolo, e una simile ipotesi è apertamente conflittuale con il modello sociale imposto dal totalitarismo neoliberista, che è dunque riuscito a mortificare la nostra gioia di vivere più profonda. Siamo spinti ad essere «creativi», «intraprendenti» nel quotidiano, però non possiamo più creare al di là di noi.

 

Il lavoro che non c'è

Alla fine di giugno 1998, due dati hanno rivelato drammaticamente quali siano state le altre conseguenze dei processi innescati dall'imposizione del modello neoliberista nella economia e nella società italiane: l'incremento del tasso di disoccupazione, che è arrivato al 12,5%, e una crescita del numero delle famiglie povere, che in un anno sono aumentate di 200mila unità. Tra il '96 ed il '97 la povertà è passata, così, dal 6,5% al 10%. Due milioni e 245mila famiglie su poco più di 20 milioni vivono oggi «sotto la soglia», cioè con meno di 600mila lire mensili a testa. L'orgia di retorica per l'ingresso della lira nell'Euro, orchestrata dagli opinionisti dell'Ulivo, è servita a nascondere per un po' che l'Italia «ha staccato il biglietto per l'Europa» con la povertà che soffia sul collo di sette milioni di persone, ossia quanto gli abitanti dell'intera Austria o due volte tutti quelli della Norvegia. Ma la verità, prima o poi, viene a galla e l'economia dei tecnici assillati dalla loro visione ragionieristica della realtà, l'economia virtuale basata su inganni scritti e guadagni ipotetici si è accartocciata come una stagnola. Nell'Italia di Maastricht aumentano le famiglie che fanno i conti per arrivare alla fine del mese e che ogni giorno combattono contro la miseria. La povertà, invece di diminuire, cresce. Non si tratta solo di anziani. L'ondata investe anche i giovani (salgono dall'8,6% all'11% le famiglie indigenti con un capo che abbia meno di 35 anni di età) e non è più raro che questi ultimi siano in possesso di un elevato titolo di studio. La maggioranza di centrosinistra ha perseguito soltanto un «risanamento finanziario» fatto di tagli crescenti allo Stato sociale, inasprimento della pressione fiscale, crollo degli investimenti pubblici per la rigida disciplina di bilancio imposta dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Deutsche Bank. L'unico intervento, gli incentivi per la rottamazione delle auto, è stato un atto dovuto nei confronti dei settori del padronato e di quella che un tempo sarebbe stata definita «aristocrazia operaia», che tanto avevano contribuito alla vittoria elettorale dell'Ulivo nel '96, ma paradossalmente esso ha dimostrato una volta di più che nel Paese la domanda di consumi può riprendere solo se interviene con un ruolo determinante lo Stato.

Questa situazione non ha precedenti nella storia italiana degli ultimi quaranta anni. Nel labirinto dei numeri è comunque facile trovare un filo conduttore: quello del progressivo peggioramento delle condizioni di vita degli Italiani -per la prima volta in ciò accomunati dal Nord al Sud- in coincidenza del progressivo affermarsi del modello neoliberista. Ma la maggioranza dell'Ulivo, spalleggiata da Rifondazione Comunista, pare impegnata unicamente a consolidare la cosiddetta «società dei due terzi», considerata evidentemente un portato naturale dello «sviluppo» capitalistico entro la cornice della liberaldemocrazia, e annuncia, significativamente, un'elemosina di 500mila lire -chiamata «sussidio di povertà»- per... 12.000 persone. Non stupiscono, perciò, i commenti del ministro del Lavoro Treu, ex-sindacalista CISL, secondo cui le cifre sui senza-lavoro «non sono così negative», perché «c'è una crescita dell'occupazione soprattutto al Sud» e quindi «i dati andrebbero letti meglio di come qualcuno li ha presentati». Soprattutto non sorprendono le dichiarazioni del superministro dell'economia Ciampi, per il quale «il ragionamento sull'occupazione non può essere fatto che sui tempi lunghi» e l'obiettivo primario resta quello della stabilità politica, cioè la permanenza dell'Ulivo al governo, poiché essa sarebbe «essenziale per lo sviluppo e per il rilancio dell'occupazione». Simili affermazioni vengono fatte mentre è stato già ampiamente dimostrato che i posti di lavoro creati nel prossimo triennio supereranno di poco i 300mila, ossia meno della metà di quelli promessi da Prodi. Tuttavia, l'Ulivo e Rifondazione sono riusciti a creare un circuito di consenso massmediatico che assicura loro l'impunità. Hanno potuto raccontare fandonie, tipo l'Agenzia per il Sud e la grande Conferenza per il lavoro, sempre annunciata da quando Prodi diventò premier e sempre rinviata. Hanno potuto farneticare, con il ministro delle Finanze Visco, di «premesse per ripetere il boom degli anni Cinquanta». I «contratti d'area» tanto strombazzati produrranno, a quanto pare, in prospettiva, un migliaio di occupati in tutto. Si è voluto far credere che l'andamento attuale dell'economia italiana dipendesse dalla «crisi asiatica», tacendo che altri Paesi europei, nella prima parte del '98, hanno avuto un balzo di crescita, perché in verità gli effetti di quella crisi ancora non si sono sentiti. La realtà è che le continue «manovre», ultima quella da 65mila miliardi varata nel '97, hanno avuto pesanti ricadute prima sulla finanza pubblica, poi sull'economia reale. La riduzione del deficit è stata vista come salvacondotto in grado di consentire la «ripresa», la «fase due» che avrebbe permesso di cominciare a «godere» dei presunti frutti di Maastricht. Sta fallendo, invece, l'intera strategia di politica economica del Centrosinistra, basata sul presupposto che la riduzione del deficit pubblico, ottenuta attraverso il graduale smantellamento dello Stato sociale, assieme alla contrazione dei tassi d'interesse, avrebbe automaticamente rilanciato la domanda per consumi e investimenti, generando sviluppo con trascinamento positivo nell'occupazione. È in conseguenza di questa impostazione che Ciampi si ostina a ripetere che ormai il governo la sua parte l'ha già fatta e che «il lavoro adesso lo devono creare le imprese». Ma che cosa accadrà quando finiranno gli sgravi auto e quando veramente si sentiranno gli effetti negativi delle svalutazioni competitive dei Paesi dell'Estremo Oriente, in particolare del Giappone?

I tecnici dell'Ulivo, allevati alla scuola del Fondo Monetario Internazionale, pensano e vivono in termini di macro-economia. Gli Italiani comuni mortali appartengono alla micro-economia, che è un altro mondo. Però cominciano a capire che il loro benessere familiare è totalmente indifferente alla macro-economia. La disillusione, perciò, cresce ogni giorno di più, rafforzata da spettacoli come quello offerto dalla «manifestazione per il lavoro» organizzata da CGIL-CISL-UIL il 20 giugno scorso. Essa, oltre a registrare una partecipazione inferiore alle aspettative, si è conclusa con l'elogio della stabilità politica da parte del segretario della CGIL Sergio Cofferati, secondo cui parlare di sciopero generale contro questo governo (dai confederali d'altronde fortemente voluto e sostenuto) «è sbagliato, la pressione continuerà, ma senza esasperazioni e senza demagogia, che non ci appartiene». Resta la vergogna di sindacalisti che operano per «rinsaldare la maggioranza» e convocano dimostrazioni per protestare contro la disoccupazione.

L'aspetto più preoccupante, che da tempo andiamo denunciando sulle pagine di "Aurora", è che attualmente non esistono, a livello parlamentare, forze politiche di opposizione che rappresentino un'alternativa sistemica al neoliberismo. Le analisi e le soluzioni proposte dal Polo delle libertà e dalla Lega Nord sono, infatti, quanto di più lontano possa esistere per chi voglia portare avanti una lotta antagonista. Rispetto ai problemi della disoccupazione e della povertà, la diagnosi di Forza Italia, Alleanza Nazionale, Lega Nord, gruppi cattolici vari, è che essi derivano dallo «statalismo imperante» in Italia, che non permetterebbe attività industriali concorrenziali e remunerative, provocando la fuga di capitali e la de-localizzazione delle attività all'estero. Viene così completamente fraintesa la dinamica della globalizzazione del modo di produzione capitalistico nella fase storica attuale. Sarà, infatti, sempre vano l'inseguimento dei padroni per convincerli a non trasferire le loro attività in zone del pianeta dove non esistono garanzie previdenziali, sanitarie, tutele di alcun genere per i lavoratori e dove, quindi, i costi della manodopera risultano enormemente più bassi. Come si può, ad esempio, convincere la dirigenza della General Motors a continuare a montare i cruscotti delle auto nei suoi stabilimenti statunitensi a 46 dollari l'ora, se in Messico la stessa lavorazione viene pagata un dollaro e 5 centesimi?

Le proposte del Polo della Libertà e della Lega Nord sono, del resto, note e inaccettabili: diminuzione delle tasse per i redditi più elevati, azzeramento dei sistemi pensionistici, educativi e sanitari dello Stato. Per il lavoro, in particolare, va di moda prendere ad esempio Paesi come Olanda, Spagna, Portogallo, dove sono stati liberalizzati i contratti a termine, con il vantaggio per le imprese di rimandare a casa il lavoratore dopo 3 o 6 mesi e dove è stata data la possibilità ai padroni di licenziare «ad libitum» l'1% dei dipendenti ogni mese. Con questi metodi si creerebbe, a detta degli esperti di Polo e Lega, lavoro «vero», non «drogato» dall'assistenzialismo statalista e, per qualche arcano meccanismo incomprensibile ai profani, crescerebbe l'occupazione.

Filippo Ronchi

 

 

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