da "AURORA" n° 53 (Dicembre 1998)

L'APPROFONDIMENTO

 

Testa di turco

Francesco Moricca

 


 

«Il bosco si chiama lucus perché non vi penetra la luce»

proverbio romano

 


 

Un esame anche sommario della storia dei popoli turco e kurdo rivela fra i due una non marginale comunanza. Ne spiega la conflittualità dei rapporti recenti e recentissimi risalente agli esiti del primo Conflitto mondiale, quanto la sostanziale non conflittualità (almeno) del lungo periodo precedente, quando i Kurdi ebbero largo impiego negli eserciti ottomani impegnati nella «guerra santa» contro la cristianità d'Oriente e d'Occidente. Non è irrilevante notare che la proverbiale inimicizia dei Kurdi verso gli Armeni, ariani al pari di loro, non può che avere una causa religiosa, non solo genericamente «culturale», perché gli Armeni furono sempre cristiani, anzi diedero alla genesi del cristianesimo storico un contributo originale, per qualche verso notevole in negativo per via di forti influenze giudaiche.

Pertanto l'«insanabile» contrasto turco-kurdo è sicuramente più una costruzione della storia del XX secolo che un dato «storicamente tradizionale». C'è stato e c'è tuttora chi alimenta il nazionalismo dei due Popoli alimentando il «fanatismo» che ne costituirebbe il carattere saliente «atavico» e non immediatamente riconducibile alla conversione all'islamismo (nel Corano vi è quasi nella stessa misura l'incitamento al «fanatismo» e al suo contrario, così come atteggiamenti di vera tolleranza sono presenti perfino nella dottrina iniziatica degli Ismaeliti). Il «fanatismo» è comune a Turchi e Kurdi quanto qualità certamente invidiabili come la pensosa serietà, la squisita cortesia, le spiccate virtù militari. Per tale motivo, quella che agli Occidentali può apparire la loro «ferocia» andrebbe ridimensionata. Bisognerebbe distinguere fra il terrorismo «fondamentalista» a loro proprio e il terrorismo che in tempi recenti si riscontra nel mondo cristiano: dal terrorismo di matrice laica della destra e della sinistra europea al terrorismo di matrice religiosa degli Irlandesi e degli Jugoslavi.

Ma nel caso di Ocalan e del PKK, trovandoci di fronte a una ideologia marxista tendenzialmente estranea all'ortodossia fondamentalista islamica, non si può mettere in discussione la fondatezza giuridica dell'accusa di terrorismo che è mossa dall'Occidente e da una Turchia formalmente occidentalizzatasi. Giusto quindi che Ocalan venga giudicato da un tribunale occidentale, perché il suo marxismo ne fa un occidentale; mentre, se fosse giudicato da un tribunale islamico, difficilmente ne uscirebbe assolto rischiando di esser condannato come apostata o, nel migliore dei casi, come eretico ed eresiaca. Giuridicamente, secondo il puro formalismo giuridico, che Ocalan sia processato da un tribunale internazionale europeo oppure da un tribunale italiano è indifferente, egualmente fondato sul medesimo principio, anche non tenendosi conto che Ocalan potrebbe essere effettivamente implicato nell'attentato al Pontefice Giovanni Paolo II.

Tuttavia, il caso Ocalan è un caso politico e non può essere esaminato secondo le regole del formalismo giuridico. È da escludersi categoricamente, nell'ottica «politicante», persino la possibilità di un criterio di giudizio misto di formalismo giuridico e di considerazioni «politiche» e magari «umanitarie», perché, a rigore, lo stesso criterio del formalismo giuridico esclude, anche sotto l'aspetto di considerazioni umanitarie, il concetto di «contaminazione». L'averlo introdotto nella parte del diritto internazionale che concerne i cosiddetti «diritti umani», la destituisce di qualsiasi vero fondamento nel senso proposto dal formalismo giuridico (al riguardo di questa classica contraddizione del diritto borghese -di cui peraltro il formalismo giuridico è la più perfetta e «alta» espressione- è illuminante il caso «Pinochet» su cui torneremo più avanti).

È, secondo questa prospettiva, innegabile che D'Alema si sia mosso nel gestire il caso Ocalan come meglio non si poteva (o come «peggio» non si poteva dal punto di vista del puro formalismo giuridico, restituendo così al diritto la sua dimensione reale, e cioè politica, forse, come ci sembra non superando i limiti della scuola giuridica marxista). Le critiche sconclusionate che la destra gli ha rovesciato addosso mettono a nudo senza vergogna una ben triste verità per coloro che ancora, nel chiuso della propria coscienza e fuori, ritengono un onore riconoscersi di destra: non sono che bassezze da legulei che la dignità nazionale e la Legge stessa misurano con la «partita doppia», meglio di come farebbe un ragioniere, anzi con l'istinto innato del venditore di piazza.

Accollandosi la soluzione del caso Ocalan, checché ne dica la cosiddetta «destra», l'Italia ha dato un notevole contributo all'unità politica europea laddove Russia, Francia e Germania non potevano più nulla se non compromettendo, specie la Francia e la Germania, la propria sicurezza interna con conseguenze molto negative per i destini dell'Europa di domani.

Certo, rischieremmo non poco, attirandoci le ritorsioni statunitensi, più pericolose delle minacciate ritorsioni turche, se celebrassimo in un nostro tribunale il processo Ocalan. Ma già D'Alema ha rischiato abbastanza e, si deve ritenere, potendo contare su qualche punto di forza (il Vaticano ha subito levato la voce in difesa dei Kurdi e del loro leader). Potrebbe a nostro avviso rischiare ancora, acquistando presso gli europei molto più credito di quanto concesso a Prodi e poi ritirato, nessuno può dire ancora con ragionevole sicurezza se giustamente.

Se invece si dovesse ripiegare sulla soluzione di sottoporre Ocalan al giudizio di una Corte internazionale (evitando l'estradizione, il che sarebbe tutt'altro che misera consolazione), ciò, secondo noi, avrebbe una precisa motivazione e una sola: o il Vaticano non ha avuto forza necessaria per conseguire tutti gli obiettivi prefissisi, oppure vi ha rinunciato per considerazioni che preferiamo ritenere ispirate direttamente dal buon Dio.

In ogni caso ce la sentiremmo di attribuire al solo D'Alema la responsabilità di quella che per noi sarebbe una mezza vittoria. In un precedente intervento avevamo annunciato che saremmo stati con lui critici molto severi. Qui ora ognuno potrà constatare che la nostra severità è capace di non travalicare, per passione di parte, i limiti precisi della giustizia. Così ci pare eccessivo e ingeneroso l'appunto mosso a D'Alema da Massimo Fini sul "Borghese" -in un articolo che ci trova largamente consenzienti- e secondo cui D'Alema avrebbe sbagliato nel proporre al Capo del Governo turco un incontro in occasione della partita di calcio a Istanbul alla quale egli avrebbe presenziato fra i pochi rappresentanti della tifoseria juventina. Nessuno può negare che una simile proposta, a prescindere da ogni valutazione di merito che però urterebbe contro lo scoglio delle qualità di tattico della politica fin troppo consumato che distinguono D'Alema, implica un apprezzabile coraggio fisico. Merce rara, anzi rarissima fra i «tattici della politica» della «seconda» più ancora che della «prima» Repubblica.

Infine, se il processo Ocalan si celebrasse in un tribunale internazionale anziché italiano, non si potrebbe evitare l'emergenza della reale comunanza degli interessi veri del Popolo kurdo e di quello turco, nel più vasto contesto dell'Europa e dei suoi antichissimi rapporti col Medio Oriente e con l'area del Golfo Persico. I quali appartengono pertanto di diritto agli Europei e ai naturali eredi dell'Impero ottomano. E magari ai Russi (anch'essi europei) o agli Iraniani e ai Cinesi, ma giammai ai parvenus angloamericani. L'internazionalizzazione della questione turco-kurda potrebbe significare qualcosa di molto simile alla internazionalizzazione della questione italiana, con quanto in positivo per gli Italiani ne seguì, che ebbe a verificarsi per iniziativa del Cavour al Congresso di Parigi, dopo la Guerra di Crimea (1854-1855).

 

Abdulhamid II

Il titolo di questo articolo, con la metafora della «testa di turco» (il bersaglio della giostra del Saracino e del gioco della Quintana), vuole sottolineare la nostra tesi centrale: che la questione kurda, inscindibile dalla questione turca opportunatamente occultata dalla pubblicistica ufficiale, è un pretesto per colpire eventuali sviluppi, assai pericolosi per la strategia mondialista nella regione del Golfo persico, che la proposta Ocalan di europeizzare il problema kurdo -problema che esula da quello del nazionalismo classico come da quello contemporaneo a base etnica- dia forza in Turchia a programmi politici di intesa fra destra e sinistra tendenti a sottrarre il Paese alla pesante influenza americana. Se ciò si verificasse, una delle ganasce della morsa in cui è stretta l'Europa a Sud-Est (l'altra è a Nord-Ovest ed è la Gran Bretagna) sarebbe non più funzionante. È secondo noi degna di attenzione la contemporaneità delle richieste di estradizione di Ocalan e di Pinochet, nonché il fatto che Pinochet si trovava in Gran Bretagna e che la richiesta della sua estradizione sia stata avanzata dalla Spagna, la nazione più periferica dell'Europa in cui si può esser stati «lusingati» di avere voce in capitolo nelle questioni «interne» di un Paese che appartenne un tempo all'impero coloniale spagnolo (proprio come accadde per la destra italiana di regime quando si trattò di «intervenire» in Somalia in Albania.

L'eventualità paventata dai «poteri forti» che in Turchia possa verificarsi una forse troppo «cordiale» intesa fra destra e sinistra (e non controllabile al pari di quella avutasi in Russia dopo il '91), ha in realtà precedenti storici di durata tale da aver lasciato, anche nell'inconscio collettivo popolare, tracce consistenti (quali non potè lasciare in Russia il brevissimo governo Stolypin ai primi del Novecento).

Ci riferiamo alla grande opera riformatrice che caratterizzò il regno del Sultano Abdulhamid II (1876-1909), senza la quale non vi sarebbe stato Kemàl Pascià, la strenua e vittoriosa resistenza di un popolo tutto contro i vincitori della prima Guerra mondiale che avrebbero voluto smembrare il cuore stesso dell'Impero Ottomano, l'Anatolia, riducendolo a colonia di fatto con la formula speciosa dei «mandati», delle «zone di controllo internazionale» e di «influenza economica».

Per sollevare l'Impero dalla crisi in cui era caduto a seguito degli sviluppi della «Questione d'Oriente» e di assai consistenti amputazioni territoriali (trasformazione della struttura tradizionale della società, corruzione, nuova povertà che si somma all'antica dei contadini per effetto della «modernizzazione» imposta dal capitale anglo-francese a titolo di «compenso» per la «protezione» dell'Impero dall'espansionismo russo, «protettore» del nazionalismo slavo causa principale della perdita progressiva dei Balcani), Abdulhamid si era impegnato, con successi innegabili a razionalizzare le trasformazioni economiche in atto. Aveva posto limiti precisi alla libertà d'azione del capitale anglo-francese cui si aggiungerà poi il tedesco. Attraverso grandi opere pubbliche aveva posto rimedio alla disoccupazione, mentre gettava le fondamenta per una industria di Stato che fosse concorrente di quella privata a capitale straniero; anzitutto per le necessità delle forze armate, ma anche per uso civile (fabbriche di trattori) e anche per la produzione di oggetti di lusso destinati all'esportazione (lavorazione del vetro, del cuoio, della seta, dei tappeti, di carta pregiata e da parati). Apprezzabili successi si erano ottenuti nella produzione agricola favorendo la creazione della piccola proprietà e difendendola con opportune misure dalla concorrenza dei latifondisti. All'uopo era stata istituita una Banca dell'Agricoltura che cedeva prestiti a tasso agevolato ("Ziraat Bankasi"). Inoltre, per garantire il controllo di tutte le banche operanti nell'Impero e per pianificare l'utilizzo delle risorse, si era creato un efficiente organo apposito, il Comitato di Consultazione Finanziaria ("Heyet-i- Musavere-i-Maliye"). Fu moralizzato e riformato il sistema giudiziario, così come si diede impulso all'istruzione popolare elementare. Grande favore ebbe l'istruzione tecnica di tipo occidentale, soprattutto nell'esercito in cui si sviluppò un consistente movimento riformatore tanto incoraggiato quanto controllato, molte volte anche combattuto energicamente, dal Sultano. È qui, nell'esercito, che nasce il Movimento dei Giovani Ottomani, con una ideologia riformatrice imperiale-sovranazionale da cui si svilupperà successivamente, specie dopo la sconfitta e grazie a Kemàl Pascià, il Movimento dei Giovani Turchi, caratterizzato da un nazionalismo di tipo occidentale e perciò antitradizionale. Nell'esercito militavano molti Kurdi, assai richiesti per le loro spiccate attitudini militari e per bilanciare l'elemento armeno anch'esso presente per necessità. Sembra che i Kurdi non potessero accedere ai gradi dell'ufficialità riservata ai Turchi e che questo non fosse peraltro ritenuto dai Kurdi una ingiusta discriminazione: in realtà essi conservavano da tempi remotissimi un forte senso della propria identità e un orgoglio tale da renderli, nella propria coscienza, incommensurabili nei confronti di tutti gli altri popoli, anche di coloro che «accidentalmente» li dominavano, ma, evidentemente, senza urtare la loro suscettibilità (notizie sugli antichi Kurdi, i Carduchi, molto interessanti per farsi un'idea di come essi furono e in sostanza continuano ad essere, si trovano Anabasi" di Senofonte: cfr. III, 5-IV, I; essi sono originari dell'Iran e parlano una lingua simile all'antico persiano; si dice che discendano direttamente da Noè, e vi è una leggenda per cui l'arca di Noè avrebbe toccato terra sul monte Ararat, che notoriamente si trova in Kurdistan; tra i Kurdi vi sono minoranze non convertite all'islamismo che ancora praticano il culto solare del parsismo, la religione di Zarathustra degli antichi Persiani).

Abdulhamid concepì l'educazione popolare, per quanto «modernizzata», come recupero della Tradizione; ebbe l'ideale di una Turchia quale vera erede dei valori dell'islamismo, dopo che la decadenza degli Arabi, coincidente con l'implosione del Califfato di Bagdad, aveva loro tolto qualsiasi diritto di presentarsi come «naturali» eredi del Profeta. Vi era stata per Abdulhamid una sorta di «traslatio Imperii ad Turcos» fondata sullo stesso criterio di legittimità per cui, nell'Ecumene medioevale, si era teorizzata, contro la corrotta romanità perdurante presso il guelfismo e le pretese teocratiche della Chiesa, una «traslatio Imperii ad Teutonicos». Circa l'opera riformatrice di questo grande Sultano, fautore convinto del panislamismo -cui avrebbe dovuto ispirarsi la contemporanea «Rinascita degli Arabi» e segnatamente il fondamentalismo islamico-, non può dirsi si sia trattato di una tardiva applicazione del «dispotismo illuminato» settecentesco di tipo europeo, come sembrano suggerire gli studiosi nostrani più accreditati (cfr. Bombaci-Shaw, "L'Impero Ottomano", in "Storia universale dei Popoli e delle civiltà", vol. VI, UTET, '81, pp. 529-564). Nemmeno può definirsi una «rivoluzione conservatrice», ma piuttosto una rivoluzione restauratrice in senso evoliano (Evola, d'altronde, in non pochi e importanti luoghi della sua produzione parla dell'Impero Ottomano in termini positivi persino nella fase «decadente» che precede la Prima Guerra mondiale). Abdulhamid seppe comunque disciplinare il progressismo liberale dei Giovani Ottomani e lo incoraggiò in quanto, e solo in quanto espressione della casta militare turca. Quanto all'altro «progressismo», quello dei «civili», lasciò che se ne interessasse il Comitato di Consultazione Finanziaria, formato da «civili» di sua fiducia e pertanto «militarizzati». Quando, alla morte di Abdulhamid, i «civili» poterono accordarsi col capitale (ancora prevalentemente anglo-francese e instaurare un regime di monarchia costituzionale, questo non per caso durò appena tre anni (1909-1912): quanto bastò per perdere, in malo modo, la guerra con l'Italia, il cui effetto strategico più negativo consistette nell'occupazione da parte di una potenza occidentale di Rodi e delle isole del Dodecanneso, a breve distanza dalla costa dell'Anatolia, cuore dell'Impero. I Giovani Turchi di Kemàl Pascià, che certamente non possono paragonarsi neanche alla lontana ai fascisti di Mussolini ma (forse) alle nostrane Camicie Azzurre, si guarderanno bene dall'instaurare una democrazia di tipo occidentale dopo la Guerra di Indipendenza del 1919-1923, sebbene realizzassero dall'alto riforme di stampo «modernizzatore», anche molto audaci, come la completa laicizzazione della scuola o l'equiparazione dei diritti delle minoranze religiose, l'introduzione del matrimonio civile, la sostituzione dei codici (civile, commerciale e penale) alla Legge coranica. Nonostante le deviazioni dalla linea di Abdulhamid, qualcosa di positivo del suo insegnamento fu ereditato dall'«Atatürc»: in primo luogo lo spirito guerriero che salvò dalla colonizzazione un grande popolo, in secondo luogo una sana diffidenza per la democrazia parlamentare. Che però, a conti fatti, rimase sul piano di un puro e semplice conservatorismo filisteo a difesa degli interessi borghesi, incapace di coinvolgere tutte le classi in una rivoluzione veramente nazionale e sovranazionale. Da qui una serie di odiosi provvedimenti come l'espulsione di un milione di Greci dall'Anatolia, e discriminazione di Armeni e Kurdi. Patti che peseranno assai negativamente sulla storia recente e recentissima della Turchia, asservendola nella sostanza agli USA e attribuendole il ruolo di muro meridionale della prigione Europa, nonché di posto avanzato e sentinella settentrionale dei «Paesi civilizzati» sul Golfo persico.

 

Origini della questione Kurda

Usciti sconfitti dal primo conflitto mondiale, l'Impero Ottomano e quello Austro-ungarico erano destinati a pagare il prezzo più alto secondo la strategia dei wilsoniani «14 punti» che gli USA, veri vincitori della guerra, erano riusciti a imporre alla Conferenza di Parigi col ricatto dei debiti contratti dalle Potenze dell'Intesa. L'uso puramente strumentale che si fece del «principio di nazionalità» (l'Italia se ne accorgerà presto a proposito della «questione» di Fiume) mirava infatti a rafforzare la componente borghese «moderna» del nazionalismo a danno di altre componenti in specie di quelle che erano tradizionali oppure alla Tradizione potevano esser ricondotte (come fu il caso, da noi, per il dannunzianesimo). Agli occhi di Wilson e dei suoi manutengoli inglesi, anzi, l'Impero Ottomano presentava caratteri decisamente più tradizionali che non la stessa Austria-Ungheria, in ragione del suo «sottosviluppo». Le pesantissime clausole del Trattato di Sèvres hanno quindi una motivazione che va oltre le mere logiche economiche dell'«imperialismo» di cui si parla nella nota opera di Lenin: e si capisce perché l'Anatolia, cuore pulsante degli Ottomani, venne letteralmente fatta a pezzi, cosa che invece non accadde all'Austria che rimase nella sostanza integra essendo trascurabile per essa la perdita del Sud Tirolo a beneficio (magro e alla lunga fastidioso) dell'Italia.

Questa strategia degli Anglo-Americani cui dovette allinearsi la Francia che poi comunque fornirà un considerevole contributo a Kemàl rivelando insospettata capacità di autonomia politica e di intelligenza ad oggi mai smentita, è in definitiva l'origine remota della questione kurda, di una inimicizia per i Turchi, totalmente indotta e fomentata dall'esterno, di un «nazionalismo» che comincia ad esprimersi, poco dopo la fine della Iª Guerra mondiale, nel perverso regime dei «mandati» contro gli Inglesi e gli interessi che essi condividono con gli Americani sui giacimenti petroliferi del Kurdistan. Il malanimo dei Kurdi per i Turchi non nasce tanto dopo la vittoria di Kemàl, dalla rinuncia ad avere un loro stato «indipendente», ma dal fatto la Turchia «moderna» sempre più ha finito con l'essere il fantoccio dell'imperialismo anglosassone. Il PKK di Ocalan è l'agente politico consapevole di questa analisi. La sua strategia «terroristica» è obbligata dal fatto che la classe politica turca mantiene i Kurdi al bando contro lo stesso interesse del popolo turco; di cui anzi eccita il nazionalismo più dissennato che può a piacimento essere trasferito dai Kurdi a qualsiasi altro popolo per motivi futili. La disponibilità di Ocalan a rendere l'Europa partecipe e arbitra nella questione kurda è parimenti una opportunità per la Turchia di europeizzarsi politicamente e non solo economicamente. Una simile opportunità la avrebbe ricercata un Abdulhamid e non se la lasciò sfuggire un Kemàl avendogliela offerta la Francia. È gravissimo che il Governo turco non voglia o non possa rendersene conto. Ma in Turchia vi è pure chi vorrebbe essendo turco, chi è trattato come e peggio di un kurdo. Il vecchio glorioso Impero Ottomano ebbe un suo stile anche nel trattare una questione scottante come quella greca e dopo il conseguimento dell'indipendenza da parte dei Greci non scacciò quelli che vollero restare liberi nel suo territorio. Le stesse deportazioni di massa e gli eccidi di cui, si dice, i Turchi si sarebbero resi responsabili a danno degli Armeni durante la Iª Guerra mondiale (e gli Armeni furono le prime «vittime» delle strategie inglesi in Anatolia e per così dire le cavie dei futuri «esperimenti» sui Kurdi), andrebbero ridimensionati, contro l'opinione corrente più accreditata e volendo dare credito al Bombaci-Shaw (cit. pp. 577-578; qui si trovano anche notizie dettagliate sulle campagne nel Caucaso e sulla rivolta armena; a p. 579 si ricorda la nuova invasione russa dell'Anatolia orientale (1916) che «obbligò un milione di contadini e di membri di tribù turche a fuggire e migliaia di questi vennero abbattuti mentre seguivano gli eserciti ottomani in ritirata»). Noi crediamo indipendentemente da quanto hanno accertato e potrebbero in seguito confermare o smentire gli «storici», che l'esercito imperiale ottomano, fin quando rimase sotto il comando del Sultano, non poteva non porre limiti ben precisi alle crudeltà proprie alla guerra e specialmente alla guerra moderna in cui la tecnica finisce coll'avere preponderanza quasi assoluta sull'etica, E ciò perché in esso, come anche in quello zarista e imperiale germanico, comunque erano ancora vivi i Valori Tradizionali. Crudeltà furono invece commesse dai Turchi, non soltanto dal loro esercito, quando, con la Guerra d'indipendenza, il supremo potere passò nelle mani dei Giovani Turchi e del «padre della patria» Kemàl, massone notorio come altri «padri della patria» anche di casa nostra. Che poi costoro, maestri nel criminalizzare l'avversario (il «nemico»), non vogliano accorgersi di sminuire sé stessi e la «Libertà» per la quale dicono di essersi battuti e di esser ancora pronti a battersi, è cosa peraltro trascurabile come «in ultima analisi» la lealtà verso coloro che li hanno sempre serviti, purché «formalmente» (cioè strumentalmente al «Capitale»), siano rispettati i cosiddetti «diritti umani».

È questo il caso di Pinochet, prima «dittatore fascista» e «benemerito servitore delle democratiche libertà» contro il comunismo, nonché docile strumento delle sperimentazioni economiche dei «Chicago Boys»; adesso, incriminato per i «delitti contro l'umanità» che si resero necessari per il conseguimento di quelle «nobili finalità» ignorandosi, con perfidia inqualificabile, che Pinochet aveva «restituito» al suo popolo il bene incommensurabile della «democrazia», ponendosi poi sotto la protezione dei suoi «padri spirituali» presso i quali aveva per di più eletto il suo domicilio.

Ma è anche il caso di Saddam Hussein, fra le cui «nefandezze» va segnalata una «pericolosa» comprensione del problema kurdo seguita da azioni positive concrete per la sua soluzione, certo limitate alle reali capacità del «Rais» e dalla equivoca strategia di un machiavellismo in contraddizione lampante con la migliore tradizione islamica, epperò comunque assai distante dalla supina acquiescenza che fu propria al dittatore cileno.

Nel caso di Saddam si hanno poi fondati motivi per concludere che fra gli «strumenti pedagogici» dei «Maestri della democrazia» anglosassoni rientri l'uccisione dell'allievo; nella fattispecie non di Saddam (al momento non sostituibile con qualcuno di pari caratura anti-iraniana), ma del popolo iracheno che, con metodi terroristici di cui i feroci bombardamenti aerei sono fra i meno risolutivi, si vuole esasperare, per indurlo ad azioni che costringano il «Rais» a più miti consigli, ad esser più «ubbidiente», coi suoi «professori» e «datori di lavoro».

Francesco Moricca

 

 

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