da "AURORA" n° 53 (Dicembre 1998)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

 

A proposito del saggio di Buchignani

Il rosso si addice a Giorgio Pini,
ma assieme al bianco e al verde

 

Enrico Landolfi

 

II puntata

Per avere un'idea definitiva della grande moralità sulla quale era innervata la personalità di Giorgio Pini potrebbe essere sufficiente, come ora faremo, riprodurre dall'opera di Paolo Buchignani un brano molto significante di una intervista rilasciata nell'agosto '47 da Stanis Ruinas al periodico "Cronache". Il fondatore-direttore de "Il Pensiero Nazionale" coglieva con ciò l'occasione di correggere una gaffe del giovane Fausto Brunelli, che, incautamente, aveva reso di pubblica ragione alcuni riservati incontri con il vice-segretario generale del PCI, on. Luigi Longo, dei rappresentanti dei «fascisti di sinistra». Per di più accennando a richieste di finanziamento inevitabilmente destinato a gettare una luce un po' torbida e ambigua su colloqui viceversa improntati ad assoluta correttezza. Ecco le chiarificatrici parole dello scrittore e giornalista sardo: «I giornali hanno parlato di alcuni colloqui che io, Giorgio Pini, Orfeo Sellani, e Fausto Brunelli abbiamo avuto con Longo del PCI. Gli abbiamo sottolineato tutto quello che ci univa, che avevamo fatto una guerra in funzione anticapitalistica, che eravamo per la repubblica, per il socialismo. Longo da parte sua fu veramente signorile, disse che aveva creduto con altri che il fascismo fosse l'opera di duecento persone prepotenti che sarebbe bastato togliere di mezzo, ma che s'era accorto trattarsi invece di uno stato d'animo diffuso, e che c'erano fascisti di destra e fascisti di sinistra. Fu Brunelli che, approfittando della cordialità del colloquio, parlò della necessità che avevamo di unirci, di lavorare, noi fascisti di sinistra. E chiese chi ci avrebbe sostenuto, in pratica chi ci avrebbe dati i quattrini per organizzarci e per fondare un giornale: Giorgio Pini ed io rimanemmo addirittura costernati. Brunelli è un giovane ed aveva detto più di quanto noi non si volesse. Dichiarammo quindi che noi avremmo potuto accettare una protezione amichevole, democratica, ma che non ci si voleva legare al PCI. Potevamo accettare (questo ci sembrava il partito migliore), che qualche uomo della democrazia si interessasse perché qualche banca, tra quelle che usano farlo, ci sostenesse finanziariamente. Quel che molto tempo dopo apparve su un quotidiano come rivelazione (evidente il riferimento ai resoconti di Brunelli pubblicati dal "Tempo") fu quasi tutto falso, e posso dire che né Longo né altri cercarono mai di sollecitare quel colloquio o altro. Eravamo noi che ne avevamo bisogno e noi lo chiedemmo, lieti di vedercelo accordato e lieti di averlo avuto».

Non è chiaro se o fino a che punto l'autore di "Pioggia sulla Repubblica" fosse restio a legarsi al PCI. Nel senso migliore del termine, intendiamo; ossia salvaguardando un sufficiente grado di autonomia per sé e per coloro che nella testata del suo quindicinale definiva «ex-fascisti di sinistra» e che invece il Buchignani chiama «Fascisti Rossi». Sicurissimamente lo era -ne abbiamo accennato nella prima puntata del presente saggio- Giorgio Pini, non certo alieno dall'intrattenere rapporti amicali e costruttivi con le sinistre in genere e col PCI in particolare; ma, anzitutto, sulla base della pari dignità oltre che sulla netta e retta distinzione dei ruoli, delle dottrine, dei sentimenti, delle esperienze storiche, delle vicende di schieramento. In altri termini, colui che era stato sempre l'uomo più vicino a Mussolini prima come caporedattore de "Il Popolo d'Italia", poi, nella RSI, come sottosegretario all'Interno, era pronto a gettare tutto il peso della sua autorevolezza, della sua devozione alla Nazione, della sua influenza su larghi strati dell'exismo erresseista in una iniziativa di pacificazione nazionale, ma mai e poi mai a farsi coinvolgere in una situazione «frontista» con un partito, con dei partiti (il PCI e il PSI), allora vantanti una totale identificazione con il PCUS e lo Stato-guida sovietico. Di più: Pini non tollerava il sistematico linciaggio dei cosiddetti «repubblichini» e la richiesta di abiura del proprio passato e delle proprie idee. Per operazioni «purificatorie» di tal genere ci sarebbe voluto non un Giorgio Pini, ma sarebbe bastato un Gianfranco Fini qualsiasi, sia pure riverniciato di rosso.

 

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Come è come non è, Giorgio Pini finisce al confino di polizia -un vizio, questo di collocare in prigioni senza sbarre, all'aria aperta, i veri o presunti dissidenti politici che l'antifascismo ha ereditato dall'Italia del Littorio- per vattelapesca quale «reato» di «apologia del cessato regime», come allora usava dire a termini di legge. Trattasi solo di alcuni mesi, ma è una bella scocciatura. Stranamente va in suo soccorso un quotidiano controllato da Botteghe Oscure, "La Repubblica d'Italia", la quale chiede al summentovato Fausto Brunelli, collaboratore de "Il Pensiero Nazionale" (PN) un articolo ad hoc, da stampare «con grande rilievo», ma «probabilmente da non firmare», in difesa di Pini e «contro il provvedimento di polizia» che lo ha colpito. Afferma il Buchignani: «È lo stesso Brunelli a fornirci la notizia in due lettere, del luglio '47, indirizzate all'amico confinato, al quale manifesta la sua disponibilità nei confronti di questa iniziativa e chiede nello stesso tempo l'autorizzazione a metterla in atto». Pini non sarebbe contrario alla compilazione brunelliana di un pezzo difensivo destinato a far gemere i torchi di una rotativa al servizio del «socialismo realizzato», ma deve fare i conti con il parere contrario dell'avvocato Italo Formichella -se non andiamo errati già pubblico ministero del Tribunale Speciale- suo difensore, il quale ha in uggia e in dispetto il quotidiano diretto da Arrigo Jacchia, i «rossi» di ogni partito genere e specie, e lo stesso Fausto Brunelli in quanto costui senza peritanza alcuna sostiene la tesi di un Pini «vittima della protervia del partito di destra».

Come chiosa tutto ciò l'Autore di "Fascisti Rossi"? Ecco: «L'episodio conferma, da un lato, il dissidio sempre più aspro tra gli uomini de "Il Pensiero Nazionale" ed i neofascisti del MSI: dall'altro il fatto che l'ex-caporedattore de "Il Popolo d'Italia" continua ad essere dopo l'incontro con Longo dell'11 febbraio a Botteghe Oscure oggetto dell'attenzione del Partito comunista (ispiratore palese della linea politica de "La Repubblica d'Italia"), che gli lancia segnali positivi, utilizzando la mediazione degli ex-fascisti di PN, il cui leader, Stanis Ruinas, d'altronde, come abbiamo visto, fa di tutto per avvicinare Pini alla sua rivista». Senza riuscirci, come già detto nella precedente puntata, ben altra essendo la strategia piniana, indubbiamente più limpida ma anche più ingenua. Essa, infatti, si fonda sulla prospettiva della esaustiva «erreisazione» (Italia, Repubblica, Socializzazione) del Movimento Sociale Italiano; e ciò proprio quando il cosiddetto «Senato occulto» del neofascismo ha stabilito che l'avvenire della Fiamma tricolore è da collocare nell'orizzonte della destra conservatrice. Piaccia o meno ai rivoluzionari reduci dall'ultima avventura mussoliniana, vari dei quali, a cominciare dallo stesso Pini, si vedranno costretti a gettare la spugna e ad uscire dal partito.

 

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Naturalmente Stanis Ruinas e i suoi sono interessati all'acquisizione di Giorgio Pini alla causa della sinistra, complessivamente intesa, almeno quanto l'on. Giancarlo Pajetta, inoppugnabilmente il più persuaso dell'operazione fra i membri del gruppo dirigente togliattiano. In proposito così si esprime, sempre nel suo saggio "Fascisti Rossi" il Buchignani: «Il ruolo specifico che PN intende svolgere in questa lotta (e che il PCI gli assegna) è quello di strappare i fascisti al neofascismo ed in particolare al MSI: sottrarre all'«inganno» missino tanto la base giovanile sovversiva e antiborghese, quanto alcuni prestigiosi dirigenti repubblicani e di sinistra come Giorgio Pini e Concetto Pettinato, punti di riferimento importanti per quella stessa base e leader dell'opposizione interna». Il letterato sassarese non si limita ai pubblici appelli a mezzo stampa, ma tiene carteggio con l'ultra-mussoliniano felsineo al fine di portarlo una volta per tutte dalla sua parte. In una toccante missiva adopera parole come questa: «(...) Si è fatto tanto per isolarmi, ma sta di fatto che "Il Pensiero Nazionale" ha triplicato la tiratura e non si è mai spostato dalle linee virtualmente tracciate nel colloquio del marzo '47. Se avrò la capacità di resistere, constaterai, tu per primo, che per noi non c'era altra via. E che io avrò avuto ragione di tutti i conformisti e opportunisti. Tu sei sentimentale e moralista. La morale e il sentimento sono affari privati, che non hanno nulla in comune con la politica né con l'economia. (Ecco qualcosa di cui ci permettiamo di dubitare. - N.d.R.) La borghesia italiana ha vinto finora perché ha fatto leva, essa amorale e destituita d'ogni sentimento, sui sentimentali e moralisti. Tu dirai che sono marxista. No. Questi concetti li ho trovati in un uomo che tu hai molto amato. (corsivo nostro) Non bisogna avere paura del nuovo. Lo diceva anche Tito Livio». Dove interessa poco sapere del monito di Tito Livio, mentre non è affatto irrilevante avere contezza del fatto che il buon Ruinas, pur con tutto il suo filocomunismo, non si sentiva marxista, bensì ancora e sempre mussoliniano. Come è facile arguire da quell'accenno a quell'«uomo che tu hai molto amato».

Ed ecco come razionalmente glossa, Paolo Buchignani, lo sfogo del guru nazippista: «Il nuovo da non temere, cui allude il direttore del PN, non può essere altro che la sua scelta di schierarsi a fianco del PCI: ma su questa strada Giorgio Pini non intende seguirlo, sia per ragioni personali che per motivi ideologici: da un lato, infatti, egli ritiene i comunisti responsabili dell'uccisione di suo figlio e per di più colpevoli di non voler rivelare al padre il luogo dove il giovane è stato seppellito; dall'altro, si dichiara contrario "al principio della lotta di classe" (fatto proprio, invece, dagli uomini di Via Salandra) ed al marxismo». E qui è di tutta evidenza che un limitante pregiudizio di natura culturale impedisce a Giorgio Pini di rendersi conto che la lotta di classe non è stata inventata dal dottor Karl Marx con la partecipazione straordinaria del professor Friedrich Engels, ma esiste da quando esiste l'uomo e gli interessi dei vari gruppi sociali sono disomogenei. Che forse Tiberio e Caio Gracco erano marxisti? La cordialità che, a onta della profonda difformità delle posizioni politiche, caratterizza i rapporti umani fra i due alimenta con inesausto ritmo una corrispondenza non sempre, a vero dire, di amorosi sensi. Così capita di cogliere più precise idee e sentimenti piniani in questo scorcio epistolare: «Mi nego sistematicamente, apertamente alla destra (e perciò non riesco a trovare lavoro), ma non posso abbracciare la sinistra attuale, perché marxista, perché sanguinaria e assassina, perché totalitaria nei suoi fini, perché sostanzialmente antinazionale non meno della destra. Combatto il nostalgismo e perciò sono all'indice, ma non posso sentire offendere Mussolini. (...) Sono convinto che l'ex-fascismo deve dividersi nei suoi residuati di destra e nei suoi germogli di una sinistra nazionale. Questo aggettivo ci separerà sempre dai comunisti».

E qui Pini per un verso ha ragione ma per un altro no. Certo, il PCI di Togliatti aveva ben poco, anzi niente, di nazionale, con la sua teoria sulla duplice «funzione-guida» del partito e dello Stato sovietici. Ma sarebbe equo definire antinazionale o solo anazionale il PCI di Enrico Berlinguer? Onestamente rispondiamo di no, pur con tutta la nostra lontananza dal movimento comunista. Se noi guardiamo al di là dei monti e al di là dei mari ci accorgiamo che sarebbe arduo tacciare come antinazionali regimi comunisti variamente configurabili e, non di rado, in conflitto fra di loro anche su questioni nazionali o, addirittura, nazionalistiche e imperialistiche quali quelli russo, jugoslavo, cinese, albanese. A tacer d'altri, naturalmente. La verità è che nessuna ideologia o idea o ideale è, di per sé, nazionale, antinazionale o anazionale. Queste indoli, infatti, dipendono da chi concretamente li intuisce, li interpreta, li gestisce in una determinata fase storica. Puntualmente "Fascisti Rossi" dice la sua: «Pini ammette di essere in urto con il vertice del MSI, ma per il momento non se la sente di abbandonare il vertice di quel partito per aderire al filocomunista "Il Pensiero Nazionale". Preferisce continuare a collaborare al "Meridiano d'Italia", che gli lascia -così egli afferma- «piena libertà di espressione» e anche «perciò è inviso alle sfere ufficiali della fiamma tricolore».

Antonio de Rosas alias Stanis Ruinas è un sardo tosto che non si lascia scoraggiare dai ferrigni dinieghi del suo amico petroniano. Sa bene, infatti, cosa significhi averlo accanto nelle sue affocatissime e, perfino, forsennate battaglie. Ancor meglio e più sa che Pini è il vero depositario del retaggio ideale del mussolinismo e, soprattutto, dell'erresseismo; inoltre ha piena contezza che ciò non è affatto ignoto a tutta la vasta area del reducismo saloino. Ivi compreso, ovviamente, il gruppo dirigente missino, che poco gradisce avere fra i piedi un personaggio molto scomodo vuoi perché niente affatto disposto a transigere sui valori di cui è depositario, vuoi perché è, in virtù dell'investitura morale e ideologica che si trova a incarnare, naturaliter il punto di riferimento massimo di tutto ciò che origina dalla Repubblica Sociale Italiana nonché dal suo retroterra storico.

Ciò premesso, come non credere al Buchignani allorché rapidamente esterna in questi termini: «Ruinas, comunque, non si perde d'animo, e non mancherà, di tanto in tanto, di riprendere la sua offensiva di persuasione nei confronti dell'ex-gerarca saloino, al quale continua a essere unito da una sincera amicizia». E ancora: «Secondo gli uomini di via Salandra, la maggior parte dei giovani aderenti alla fiamma tricolore nutrirebbe una forte avversione nei confronti della DC e del Patto atlantico e sarebbe molto vicina alle loro posizioni; così come alcune federazioni missine, a partire da quella romana, si collocherebbero decisamente a Sinistra e si batterebbero per la sostituzione al vertice del partito di Almirante e Michelini con Concetto Pettinato e Giorgio Pini». (Per chi non sapesse, Concetto Pettinato era un intellettuale antifascista emigrato in Svizzera durante il Ventennio, per poi, contrariato dall'armistizio concluso da Badoglio in chiave di resa incondizionata e di relativa fuga a Brindisi, tornare in Italia e mettersi al servizio della RSI. Nominato direttore del quotidiano torinese "La Stampa", ne utilizzò le colonne anche per criticare limiti, insufficienze, ritardi del governo che, alla fine, ne decise il siluramento).

 

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Ma nel Movimento Sociale Italiano non ancora formalmente «Destra Nazionale» -a dire chiaro e tondo come stanno veramente le cose ci penserà, e da par suo, Giorgio Almirante, virtuale e putativo socializzatore e «uomo di sinistra», cui dobbiamo il bel regalo fattoci con la messa in pista di Gianfranco Fininvest- esiste davvero una sinistra, oppure l'altro Giorgio, il vero Giorgio, ossia Pini, è soltanto un brillante solista? Nel congresso del '49 pare che una corrente veracemente erresseista, cioè rivoluzionaria, esista, tanto vero che ne certifica la non umbratilità lo stesso Ruinas correggendo con una nota introduttiva un articolo troppo pessimista dovuto alla penna di C. Camoglio. In essa il piccolo sardo si spinge fino al punto di affermare, forse con qualche entusiastica esagerazione, che «le idee del Pensiero Nazionale cominciano a circolare anche nel MSI»; ma se fosse ovvio si tratterebbe di quello che in gergo viene chiamato salto della quaglia vale a dire dello scavalcamento di Giorgio Pini e del suo gruppo di mussoliniani di stretta osservanza.

In rapporto a ciò seguiamo quel che ce ne dice nelle dense e avvincenti pagine di "Fascisti Rossi" Paolo Buchignani: «Il leader dei "fascisti rossi" invita a non confondere la direzione e i deputati del partito neofascista con la base, la destra con la sinistra, i monarchici con i repubblicani, la "tendenza corporativa" rappresentata da Augusto De Marsanich con quella "socializzatrice" di Ugo Clavenzani». Egli sostiene che dal congresso della fiamma sono emersi: «1) Insofferenza della base verso la direzione; 2) spirito anti-atlantico e anti-capitalista; 3) tendenza repubblicana; 4) opposizione alla DC e alla politica confessionale». Tutto e l'atmosfera che si era creata potevano indurre ad ipotizzare la vittoria della sinistra vicina a PN. Invece -prosegue Stanis- «ha vinto la direzione coalizzata, puntando sul sentimentalismo e sugli interessi dei meridionali». Perché mai la «sinistra vicino a PN» non ha vinto? Non sapendo con chi prendersela, non sapendo come rispondere con una logica decente a tale quesito, Stanis Ruinas dardeggia sul Pini. Dice, piuttosto ingenerosamente e omettendo qualsiasi spunto di autocritica per i suoi eccessi filocomunisti: «Ha vinto la destra per colpa della poca combattività di Giorgio Pini». Noi al posto del candidato di Benito Mussolini alla titolarità del ministero dell'Interno della RSI lo avremmo mandato a farsi benedire, per non dire di peggio e di più volgare. Ma i due sono troppo amici e si vogliono troppo bene perché la polemica non venga superata. Così l'homme de plume di Usini prende carta e penna per una lettera affettuosa e «riservata» indirizzata al suo interlocutore domiciliato sotto la Torre degli Asinelli. In essa si colgono frasi come questa: «C'è un uomo che potrebbe compiere il miracolo: tu. Ma tu sei un sentimentale, uno che fa la politica col cuore. Ho riletto le tue lettere a me: sono degli ottimi documenti umani, ma sono politicamente evasive, un po' nella stratosfera. Con questo tono e con questa musica non si salva niente e non si approda a nulla».

Fermiamoci un po': solo per notare, e annotare, che l'ottimo Stanis nel tratteggiare la personalità del Pini nel modo testé segnalato prende un granchio colossale. Qui l'immagine di colui che per oltre vent'anni era stato nientepopodimeno l'uomo di fiducia del Duce ne "Il Popolo d'Italia", ne "Il Resto del Carlino", nel ministero dell'Interno della RSI altro non è che la sua caricatura. Carica di benevolenza, di stima, di considerazione, sicuramente involontaria, ma pur sempre caricatura. In verità è che l'uomo di Bologna nel formulare le obiezioni che sappiamo alla linea del fondatore-direttore de "Il Pensiero Nazionale" non passeggia sui marciapiedi della Via Lattea ma pone problemi concreti e precisi, specie in relazione ai desiati rapporti col PCI; problemi ineludibili ma che anche i più riflessivi, lungimiranti, generosi esponenti comunisti non sono in grado di risolvere. In quel clima, poi ..! Ciò è tanto vero che la compagine nazippista finirà per spaccarsi: con il gruppo filocomunista (Cilento, Gigante, Scaffardi, Testa) deciso a fare a meno del «fili» per diventare comunista tout court e l'aggregazione di stretta osservanza erresseista dopo un mucchio di più o meno contraddittorie vicende -che meriterebbero, caro Buchignani, un saggio storico ad esse appositamente dedicato- dislocato nei vari territori socialisti, senza peraltro pagare umilianti pedaggi quali quelli disinvoltamente versati da Gianfranco Fininvest per andare a fare la ruota di scorta del band-Wagon reazionario allestito (correva l'anno di grazia, anzi di disgrazia 1994) dal Creso di Arcore e dintorni.

Ma torniamo al contenuto della lettera, ora connotato dalla tessitura più squisitamente ideologico-politica. Sia pure con le poche, seguenti battute: «L'anticomunismo per l'anticomunismo è papalino e americanismo. Si può comprendere la critica anche serrata al comunismo e ai comunisti; non si comprende invece l'archiviamento del comunismo nel "sovversivismo antinazionale". (...) In Italia tutto va a rotoli: la miseria aumenta, la disoccupazione cresce, il governo DC ruba, tradisce, mercanteggia sul corpo straziato. L'anticomunismo in questo clima e in questo ambiente è un inganno verso il popolo, un tradimento verso l'Italia». Conclusioni di codesto pianto greco, di codesto affresco dalle tinte foschissime, caravaggesche oseremmo dire, -di cui, secondo il Nostro, quei comunisti non avrebbero colpa alcuna- ecco la sviolinata finale, appassionata, da amante non corrisposto: «Se tu assumi una posizione più netta, meno sentimentale e più storica, più realistica, puoi essere l'uomo del MSI, il suo salvatore e io ti appoggerò». Altro che "Fascisti Rossi"! Qui siamo, egregio Buchignani, modugnanamente parlando, «nel blu dipinto di blu, felice di stare lassù». Ma come può il povero Ruinas immaginare che un Giorgio Pini -ammesso e non concesso che sia disponibile per una operazione del genere- riesca a trascinare un partito quale il Movimento Sociale Italiano in una politica di alleanza organica con il PCI, grande forza popolare, certo, ma fatalmente destinato a restare ai nastri di partenza in virtù degli accordi di Yalta che inseriscono l'Italia nella zona di influenza degli USA? Senza contare la sua «sovranità limitata», anzi inesistente, dal momento che, come già detto, annovera fra le sue coordinate fondamentali quella che chiama la «funzione-guida» dell'URSS e del suo PCUS? Senza contare, soggiungiamo, che solo pochissimi anni separano i virtuali «alleandi» dagli scannamenti della guerra civile e dalle stragi del Nord a cominciare dall'aprile '45.

Troppo buon letterato, Antonio de Rosas al secolo Stanis Ruinas, per essere un buon politico? Sicuramente. Ciò si evince, del resto, da queste altre frasi: «(...) Occorrono idee e programmi chiari: repubblica o monarchia, socialismo vero o reazione, l'Italia del popolo o l'Italia dei preti, risorgimento nazionale e sociale o nazionalismo alla Corradini. (...) Tu godi di molte simpatie. Uomini accreditati e stimati mi hanno parlato di te e io mi sono dichiarato consenziente. (...) Che vuoi fare? Che pensi del nostro movimento e della nostra battaglia?» Da avventizio del dire e del fare politica qual'è, Ruinas crede che per essere rivoluzionari, per essere di sinistra, per essere contro la destra, si debba procedere a colpi di alternative drastiche, di prendere o lasciare, di tutto o niente, di subito o mai, di «di qua o di la», di «con noi o contro di noi». Sembra un precursore di Fausto Bertinotti. E non si rende conto che questo è uno dei tanti modi possibili per far vincere la destra. Soprattutto quella che egli più vuole combattere: la destra neofascista traditrice del messaggio erresseista, quella che ha innescato un processo fatalmente destinato a portarla alle assise di Fiuggi del 1995. La destra che, ora che Stanis Ruinas celebra nel sepolcro dove riposa il suo centenario, ha il suo terminale nel partito fondato da Gianfranco Fininvest, il pupillo -risum teneatis- di Giorgio Almirante, il capo di quella che veniva considerata la corrente della intransigenza fascista. Purtroppo nessuno si era preoccupato -neppure fra i suoi amici «togliattiani» delle Botteghe Oscure- di informare il dottor Stanis Ruinas che la formula vincente delle grandi battaglie politiche e ideali non è la aut aut, bensì la et et.

Vediamo come conclude su questa episodica del rapporto Ruinas-Pini il Buchignani nel suo documentatissimo saggio "Fascisti Rossi": «Non sappiamo se Pini abbia risposto o meno a questa lettera di Ruinas ed eventualmente in quali termini. Certamente a dividere i due ex-fascisti repubblicani, ad impedire tra loro un'alleanza organica, è la questione comunista, la non disponibilità del primo ad accogliere l'invito del capo dei "fascisti rossi", che gli propone di abbandonare l'anticomunismo e di traghettare se stesso ed il Msi sulla sponda di una sinistra egemonizzata dal PCI. Nel partito della fiamma Pini sarà, alla fine, politicamente sconfitto: ne prenderà atto e ne uscirà il 23 aprile del 1952».

Ed ecco, finalmente, il rendez-vous fra il Sardo e il Bolognese, reso possibile, però -attenzione, Caro Lettore- non dalla sola fuoriuscita di Giorgio Pini da un partito ormai inutile e, anzi, dannoso, come i fatti, le vicende, la storia, le storie, si sono brillantemente ancorché dolorosamente incaricate di dimostrare, ma pure dalla presa d'atto, da parte del Ruinas, che egli, con tutto il suo presunto «realismo», aveva preso domicilio in mezzo alle nuvole. Conclude, quindi, l'autore di "Fascisti Rossi": «Questo episodio, unito al venir meno, nel '53 del rapporto privilegiato tra PN e Botteghe Oscure, creerà le condizioni -come già abbiamo accennato- per quella intensa collaborazione dell'ex-caporedattore de "Il Popolo d'Italia" alla rivista dell'amico Stanis, da quest'ultimo lungamente auspicata e sollecitata».

(continua)

Enrico Landolfi

 

 

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