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anno 1 * n° 1

LAVORO

 

Natura e compito della disoccupazione

Gaspare F. Fantauzzi

 

I dati relativi all'occupazione forniti dall'Eurostat, riferibili all'aprile del 1997, mostrano che in Italia v'è un tasso di disoccupazione del 12,3% e il più cospicuo squilibrio fra le regioni settentrionali e quelle meridionali. Il divario che divide la regione autonoma Trentino-Alto Adige (3,8%) dalla Campania è di ben 22,3 punti percentuali, di 21,1 dalla Calabria e di 20,2 dalla Sicilia. Inoltre, queste regioni vantano una disoccupazione giovanile rispettivamente del 64,9%, 62,6% e 60,4%.

È opportuno notare che le disparità economiche registrabili fra gli Stati del Nord e quelli del Sud dell'Europa corrispondono grosso modo a quelle che contraddistinguono il Nord e il Sud del mondo. Pochi elementi ne chiariscono la drammaticità: ogni anno muoiono per fame, o per malattie che potrebbero essere curate con medicinali del costo di un paio di pacchetti di sigarette, centinaia di milioni di esseri umani; circa il 50% della popolazione mondiale è sottoalimentata e sopravvive in condizioni igieniche inaccettabili; per contro, il 20% di essa fruisce dell'90% delle risorse del pianeta, di cui il 40% viene consumato della sola cittadinanza nordamericana, che ne rappresenta meno del 6%. Inoltre, stando alle risultanze della FAO, più del 45% della produzione cerearicola mondiale viene impiegata per ingrassare il bestiame dei paesi ricchi.

I più significativi effetti pratici del sopra esposto stato di cose sono la progressiva contrazione dei redditi della popolazione meno abbiente e la massimizzazione dei profitti capitalistici. Da ciò emerge un ambito sociale, cristianamente accettato, in cui una sola legge impera, condiziona, prevarica, emargina e umilia, il profitto. Può un mondo siffatto comprendere il dolore, l'ansia, la rabbia e la disperazione della disoccupazione in tutte le sue implicazioni, non ultima quella del padre che non può dare il pane ai figli?

L'importanza cruciale della disoccupazione -che è un epifenomeno promosso e gestito, complici i sindacati, all'interno del più ampio processo neo-schiavistico che va sotto il nome di «mercato del lavoro»- risiede nella sua funzione di bloccare o abbassare i salari, erodere le provvidenze normative sul lavoro, realizzare il massimo di flessibilità (libertà di licenziamento e assunzioni nominative) ed estorcere contributi statali.

Reso ottuso dall'incessante condizionamento dei «media», l'uomo occidentale stenta a rendersi conto degli aspetti tanto drammaticamente negativi del mondialismo liberista e paga pesanti tributi e stili di vita sempre più prossimi all'animalità. Eppure è di tutta evidenza che tale sistema compera e vende uomini alla stregua di merci e li costringe a lavorare nell'interesse esclusivo di poche migliaia di soggetti detentori di capitali.

A questo punto, non basta più autoproclamarsi antagonisti, poiché l'antagonismo politico non è un'astrazione, ma una forza dinamica generatrice di energie creative, che esige discenimento e prudenza, ma pure linee d'azione audaci e tangibilmente univoche. L'equivoco è l'arma dei falsi profeti. Fu Abramo Lincoln a dire «Non voglio essere né schiavo né padrone di schiavi». Ma, tolte le catene a qualche milione di schiavi, non si volle un nuovo e più fraterno mondo; venne invece confermata ed estesa la schiavitù economica a tutta l'umanità. L'uomo, dunque, da figlio di Dio e fatto a immagine del Padre, con il capitalismo, diviene schiavo dello «sterco del demonio».

Non a caso, l'11 dicembre 1941, al momento della nostra dichiarazione di guerra agli USA, nei forzieri di Forte Knox erano accentrati i quattro quinti dell'oro del mondo (Cfr. "Oro e lavoro nella nuova economia", Q. n° 5, INCF, Roma anno XIX).

Ribaltare tali aberrazioni vuol dire anzitutto porre il lavoro (ogni attività umana, dalla creazione artistica alla speculazione filosofica, dalla ricerca scientifica alle più umili mansioni manuali) al centro delle più attente riflessioni morali e politiche, per conferirgli le migliori provvidenze, onde ogni lavoratore possa dare il meglio di sé per il bene comune; nello stesso tempo riconducendo il capitale nell'alveo della sua naturale funzione di puro e semplice strumento.

Dal lavoro viene il pane, che è sacro. La disoccupazione, il lavoro precario, quello sottopagato, quello minorile, ecc., sono condizioni sacrileghe, ed empie sono le forze che le determinano.

Per far ciò, a mio avviso, è ineludibile l'ispirazione a quel mondo che innalzò il lavoro a rango di dovere sociale; che lo concepì e valutò qualitativamente e lo tutelò e sorresse in uno Stato «educatore e promotore di vita spirituale», per rifare -come ammonisce la Dottrina- una «vita che deve essere vissuta per sé, ma soprattutto per gli altri, vicini e lontani, presenti e futuri».

D'altronde, è palmare l'intima connessione esistente fra la pace sociale interna a ciascuno Stato e la pace internazionale. Pace, solidarietà, giustizia e benessere che possono essere conseguiti pacificamente attraverso opzioni politiche semplici e chiare, ma non senza una ferrea volontà di effettivo cambiamento e la riacquisizione della piena autonomia da partiti, sindacati, Chiese e sette che predicano l'eresia del «meno Stato, più mercato».

* Abolizione del potere dell'oro e delle monete c.d. preminenti;

* l'obbligatorietà del lavoro, da attuare in una temperie etica in cui trovino accoglienza e sviluppo la responsabilità personale, il senso del dovere e la libera espressione creativa di ciascuno;

* eliminazione, in sede nazionale ed internazionale di ogni forma di parassitismo, sia di singoli che di gruppi;

* abolizione dei diritti di nascita, di casta e ogni altro privilegio che non derivi da specifici meriti individuali coralmente tributati dalle comunità di lavoro.

I non pochi problemi afferenti la futura organizzazione del lavoro e i più appropriati mezzi monetari di rimunerazione -già individuati in studi del passato- troveranno più consone soluzioni mediante le ulteriori riflessioni e ricerche cui ogni spirito liberamente antagonista deve sentirsi chiamato a concorrere.

Vero è che mai da destra venne alcuna rivoluzione.

 

Gaspare F. Fantauzzi

 

 

 

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